Fabrizio Giraldi: la perfezione del limite

Intervista a Fabrizio Giraldi, fotografo triestino che ha scelto il reportage in modo rinnovato.

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Fabrizio, ho visto il tuo sito internet per capire di che tipo di fotografia ti occupi maggiormente e ho trovato più categorie. In quale ramo ti sei specializzato negli anni?

Il reportage. Mi capita anche di fare ritratti, ma generalmente la mia direzione è sicuramente verso la ricerca attraverso l’esplorazione. Il sito che hai visto tu è vecchio, ne sta per uscire uno nuovo, più ordinato e completo.

Sono rimasta incuriosita e allo stesso tempo perplessa per la fotografia dell’animale appeso… Come mai la scelta di quella foto come sfondo?

(Ride) Si, è un cinghiale. Quella fotografia arriva da un workshop organizzato in Piemonte dove io sono stato l’unico italiano scelto fra tutti, insieme a persone di altra nazionalità. C’era la possibilità di scegliere un tema e io ho scelto quello della caccia. Mi affascinava. Non avevo mai visto un cinghiale “aperto” e semplicemente mi incuriosiva.

Qual è stato uno degli ultimi reportage che hai fatto?

L’anno scorso, per esempio, ho proposto ad una rivista svizzera un reportage da Zurigo a Istanbul. Volevo percorrere con la fotografia il percorso dell’Orientexpress. Hanno accolto il mio progetto e mi hanno pagato un interail. Ho viaggiato da Zurigo ad Istanbul in cinque giorno.

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So che hai pubblicato sul Corriere della Sera. Per quali altre riviste hai lavorato? Riesci a vivere della tua fotografia o, come molti, sei costretto ad avere un secondo impiego?

Tirando un po’ la cinghia però si, devo dire che fortunatamente posso vivere del mio lavoro. La fotografia. Ho lavorato e lavoro ancora anche per L’Espresso, Io Donna e per riviste straniere. E ti posso dire che per quanto sia soddisfacente poter lavorare per dei giornali che, giustamente, ti retribuiscono, è anche importante capire che lavorare per una rivista vuol dire crescere. Devi dare il meglio di te stesso sulle immagini che prepari, anche se alla fine ne pubblicano solo cinque di trenta che ne hai lavorate. La strada giusta non è puntare alla quantità; quello che si deve garantire è qualità. Tutte e trenta le fotografie devono essere pensate, lavorate, scattate con cognizione e non tanto per aumentare il numero di immagini da inviare ad una rivista.

Mi racconti come hai iniziato questo percorso e cosa ti ha portato a scegliere la strada della fotografia e soprattutto come sei riuscito a far della tua passione il tuo lavoro?

Come tanti, ho iniziato anch’io da piccolo verso la terza media. Poi mi sono iscritto all’istituto d’arte e da lì ho cominciato a usare la macchina fotografica in modo più serio. La camera oscura, la pellicola. Vai avanti a tentativi, diciamo. Provavo e riprovavo. Bisogna mettersi in camera oscura e vedere se si è capaci. E’ una gran esperienza. Sono passato prima attraverso la decorazione, il colore, la composizione per poi arrivare alla fotografia. Per quanto riguarda il mio lavoro, beh come si dice, mi sono trovato nel posto giusto al momento giusto. A me è capitato. (Sorride). Lavoravo al TPW in Toscana nel 2011, ero assistente di fotografi conosciuti come Alex Majoli e giravo attorno a figure grosse come lui. Dei professionisti, insomma. Finchè lo stesso Maioli un giorno mi ha presentato Grazia Neri, la quale mi ha detto di andare a Milano e portare i miei lavori. Ho preparato un portfolio, è piaciuto, ho firmato un contratto e così ho iniziato.

Dove ti ha portato la tua fotografia? Qual è l’esperienza o il luogo che preferisci in assoluto?

Stati Uniti, Canada, Turchia, Europa in generale. India, Giappone, Marocco… Mi piacerebbe andare in Cina, in Africa, in Russia nelle zone estreme, fuori mano. Ma mi piace moltissimo vivere a Trieste, anche se ogni tanto penso di andarmene…

E dove andresti?

In Asia! Ho vissuto in India per tre mesi e ho lavorato a Mumbai. E’ il luogo, l’Asia, che prediligo.

Molti fotografi, artisti, scrittori ecc., spesso lavorano gratis per delle testate importanti. Cosa ne pensi? Hai avuto mai problemi di retribuzione o di immagini “rubate” dal Web?

Quello che penso è che non capisco chi lavora gratis. Questo rovina il mercato, rovina chi lotta per vivere del proprio lavoro come fotografo o artista, perché svaluta la rilevanza di questa professione, non facendosi pagare. E’ una questione di etica. Così come chi ruba le immagini su internet, cosa che accade sempre più spesso. Di recente, una testata russa online, ha tolto le mie fotografie di un progetto fatto per la stessa testata pur di non pagarle. Questo è uno dei problemi del web.

Parlami della tua fotografia, di cosa rappresenta per te uno scatto e quello provi mentre lo crei.

(Sorride). Ti dico tre parole: mente, anima, corpo. Il karatè è una disciplina che si basa su questi tre termini. Nella fotografia c’è pensiero sull’immagine, il tuo trasporto, lo stare dentro quell’immagine, viverla (anima) e poi c’è il corpo che utilizzi per muoverti nello spazio. Il fotografo non è altro che un osservatore. Devi osservare con la mente, col pensiero; ti devi muovere senza imporre la tua presenza, il tuo corpo deve diventare piatto. Nel reportage devi diventare nullo per permettere allo spazio che hai attorno di rimanere libero. Protagonista del tuo obiettivo.

Dopo quanto hai realizzato tutto questo?

Dopo tanto, tanto esercizio. È un po’ come scrivere, come dipingere o come praticare uno sport. Nell’esercizio ti perfezioni sempre di più. La pratica è tutto. Ti poni un obiettivo e cerchi di stare dentro a un limite. Nel limite reagisci bene allo sviluppo che vuoi ottenere. Una volta ottenuto, lo superi.

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Hai usato il termine “limite”. Un termine che nel significato popolare ha delle assonanze negative. Nel tuo caso, mi sembra di capire che il limite sia una condizione importante, quasi necessaria…

Esatto. Nel mio caso, ovviamente. È soggettivo. Normalmente io mi pongo un obiettivo e cerco di ottenerlo ponendomi un limite. In questo modo ho poca probabilità di rendere un lavoro confuso, non chiaro o di cambiare idea all’improvviso mentre creo. Non è tecnica, ma rigore e a questo ci arrivi attraverso il perfezionamento. Il limite è un termine di sfida, è fondamentale. Per esempio, il mio tipo di reportage non richiede anni, com’è normale invece per altri reporter che scelgono un tema e lo sviluppano nell’arco di due anni viaggiando una settimana ogni mese e registrando i vari cambiamenti. Io ho fatto una scelta diversa. I miei lavoro durano quattro, cinque giorni, ma non per questo penso siano meno profondi o meno seri. Il fine principale è che trasmettano qualcosa, sempre. Vedi, è come un ritratto: puoi farlo anche in cinque minuti, ma se dietro c’è la capacità di entrare in relazione con il soggetto che stai ritraendo, allora il tutto è di un’intensità incredibile.

E che cos’è che esattamente vuoi trasmettere con la tua fotografia?

Le immagini devono essere pensate. Questo è quello che voglio trasmettere. Nei ritratti, mi piace ritrarre le persone nel loro ambiente. Non mi interessa il ritratto da studio. Mi piace osservare il corpo, lo sguardo, la postura, una determinata posizione e oltre a tutto questo, mi piace sapere e intrappolare anche l’ambiente che sta attorno al soggetto. Nel reportage cerco di sintetizzare in poche immagini l’idea che avevo quando ho deciso di realizzare un certo tipo di servizio. Ogni scatto deve essere pensato.

Quindi suppongo che tu non abbia mai sentito l’urgenza di scrivere il tuoi reportage…

No, assolutamente no. Non ne sarei capace. Lo lascio fare a chi sa scrivere. (Ride).

Cosa pensi dell’uso che viene fatto oggi della fotografia, delle macchine fotografiche che si vedono sempre più spesso tra le mani delle persone?

(Sorride). Penso che la tecnologia sia a portata di tutti. Per quanto mi riguarda ho scelto di lavorare il più leggero possibile, soprattutto quando viaggio. Mi è difficile capire tutta questa abbondanza, ma anche questa è una scelta.

 Mi puoi accennare a qualche progetto futuro?

Ho scelto di non parlare più dei miei progetti futuri solo perché l’ho fatto troppe volte e poi quel progetto non si è concretizzato, quindi preferisco tenermeli per me. Ti dico però che ho la volontà di strutturare dei lavori più grandi, quindi mi ci vorrà molto tempo.

Vista la tua esperienza e il tipo di percorso che stai facendo, potrebbe essere facile perdere di vista la propria essenzialità, o umiltà come vogliamo chiamarla. Tu cosa mi dici?

Vorrei essere umile. Mi piace essere umile. Non voglio andare in giro urlando le miei soddisfazioni, i miei lavori eccetera, anche se spesso la società in cui viviamo te lo impone per guadagnare spazio dentro il rango in cui hai scelto di vivere. Essere semplici oggi richiede un altro tipo di umiltà, che purtroppo non è quella dei nostri nonni. È sempre umiltà nei termini, ma è cambiato il modo di viverne il significato.

 

Fotografie di Fabrizio Giraldi

Francesca Schillaci – centoParole @riproduzione riservata

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