EPISTOLARIO: storia di una passione – Henry Miller e Anais Nin

anais e henry tavolo

Louvenciennes

1 marzo 1932

Henry,

non ti ho mai scritto una lettera piccola abbastanza da poterti inviare questo, qualcosa che ti diverta, come le unghie!

Non potrò vederti giovedì perché è festa, ma Hugh desidera che tu venga a cena domenica sera, e io potrò essere al caffè Rotonde venerdì verso le 16.30. ieri ho dimenticato di dirti che Hugh non legge tutte le lettere che ricevo. Tu non farne nessuna a pezzi: crea vuoti, silenzi – come i trattini di Paul Valéry.

Riesci a leggere questo inchiostro, fatto di sangue andaluso distillato?

Il camaleonte ha cambiato di nuovo colore ieri al Rotonde?

Che contrasto, tra le nostre vite. Ieri sera i tuoi appunti mi hanno sconvolta. C’è tanto materiale da assimilare, trasformare, sul quale rimuginare – e tu desideri la pace perché la tua fantasia possa penetrare tutta quella greve materia e io invece rifuggo dalla pace e ho cominciato a vivere come te e come June. Ed entrambi questi modi di vivere conducono alla stessa follia.

 

 Anais

 

 

 hery e anais primo piano

 

 

 

Chez les Vikings, Taverne Scandinave

29 et 31, rue Vavin, Paris VI

4 marzo 1932

 Anais,

tre minuti dopo che te ne sei andata. No, non posso farne a meno. Ti dico ciò che già sai: ti amo. Parole che ho distrutto più e più volte. A Digione ti ho scritto lunghe, appassionate lettere – se fossi rimasta in Svizzera te le avrei inviate, ma come potevo spedirle a Louveciennes?

Anais, in questo momento non so dirti molto – sono in preda alla febbre. A stento riuscivo a parlarti perché ero di continuo sul punto di baciarti i piedi e stringerti fra le braccia. Speravo che tu non dovessi rincasare per cena, che saremmo potuti andare da qualche parte a cenare e a ballare. Tu balli – l’ho sognato più e più volte – e io ballo con te, oppure tu balli da sola, il capo rovesciato all’indietro, gli occhi socchiusi. Devi ballare così per me. Questo è il tuo io spagnolo – il sangue andaluso distillato.

Adesso sono seduto al tuo posto e ho portato il tuo bicchiere alle mie labbra. Ma sono ridotto al mutismo. Quel che mi hai letto continua a girarmi nella testa. Rispetto a te sono un bambino perché quando in te parla l’utero, esso avvolge ogni cosa – è la tenebra che adoro. Avevi torto a pensare che io apprezzassi solo il valore letterario. A parlare era la mia ipocrisia. Finora non ho osato dire quel che pensavo. Ma sto sprofondando – tu mi hai spalancato il vuoto – e non riesco a fermarmi.

Senza che tu te ne renda conto, sono vissuto sempre con te. Ma avevo paura di ammetterlo, temevo che ti spaventassi. Oggi ho pensato di portarti in camera mia e mostrarti gli acquerelli. Mi è parso così sordido, portarti in quel miserabile albergo, no, non posso farlo. Tu condurrai me da qualche parte – al tuo tugurio, come lo chiami. Portamici, in modo che io possa stringerti tra le braccia. E mento Anais dicendoti che non voglio adorarti. Te l’aspettavi che ti dicessi cose del genere? Quando ho visto Marius (il film di Marcel Pagnol), ho sognato di te – tu sei come la nave che salpa per il mare aperto, tutte le vele al vento, nella tua luce abbagliante del sole. E al pari di Marius, io sono salito a bordo all’ultimo minuto – sono saltato dalla finestra sul retro e sono corso al molo. Pure, non so quanto possa osare scriverti nonostante il tuo permesso. Ho l’impressione di commettere un sacrilegio, ma no, non può essere così. I miei istinti devono essere nel giusto. Ciò non toglie che aspetti con ansia una tua parola. Si, me l’hai detto, più e più volte, in mille modi diversi, ma io sono lento, Anais, lento forse perché è una tortura così deliziosa. È come attendere di vedere te che ti alzi dal tuo trono.

E a proposito di Hugh – Anais, non riesco a pensare a Hugh. Impossibile pensare a te e a lui. Ti prego, non mentire a te stessa, adesso. Non prima che a me.

Forse ti telefono domani. Ti chiamerei immediatamente, ma temo che ci sia Hugo.

C’è un telefono nel mio albergo, ma ignoro il numero e temo non sia sull’elenco. Comunque, se tu riuscissi a telefonarmi, la mia è la stanza 40.

Dunque non ti vedrò domenica. Anche questa è dura. Ma meglio così – hai ragione.

 

 Henry

Tratto da: Storia di una passione- Lettere 1932-1953. (Bombiani)

Francesca Schillaci © centoParole Magazine – riproduzione riservata 

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