Questa è la lettera che Kafka scrisse nel novembre del 1919 a Schelesen, in Boemia, senza consegnarla mai a suo padre. L’originale fu ritrovato scritto interamente a macchina con molte correzioni, tranne le ultime due pagine – quelle qui di seguito pubblicate – scritte tutte a mano. Kafka prima di morire chiese esplicitamente che tutti i suoi scritti venissero bruciati, compresa la “Lettera al padre”. Fra altri scrittori, Kafka si può definire uno dei pochi che profondamente e realmente vollero essere degli scrittori e vivere per la scrittura: egli era consapevole, in tutta la sua coerenza, che in ogni caso anche la letteratura non avrebbe fatto altro che confermare la vacuità e l’inconsistenza della sua esistenza di uomo, così come si auto condanna lui stesso in questa lettera e soprattutto nelle ultime pagine. Ma continuò comunque a scrivere. Ogni sua opera è la denuncia della vanità di un determinato bene e di tutti gli scopi ad esso connessi, poiché ugualmente vuoti di significato. La consapevolezza della propria condizione si eleva a portavoce della condizione di tutta l’umanità che trova voce esplicita e tragica proprio in “Lettera al padre”.
Qui termina per ora la vita insieme a te, con le prospettive per il futuro in essa racchiuse. Dopo aver considerato complessivamente le ragioni della paura che mi incuti, potresti rispondermi: “Tu affermi che io mi cavo d’impaccio imputando solamente a te il mio comportamento nei tuoi confronti, ma credo che, nonostante uno sforzo apparente, tu renda l’intera questione se non più difficile, certo più vantaggiosa per te. Prima respingi ogni colpa e ogni responsabilità lontano da te, e fin qui il nostro procedimento è identico. Poi però, mentre io attribuisco la colpa unicamente a te – e la penso proprio così – tu vuoi essere al tempo stesso “superintelligente” e “superaffettuoso” assolvendo anche me da ogni colpa. Naturalmente quest’ultima mossa ti riesce solo in apparenza (del resto non chiedi di più) e nonostante tutte le belle parole su carattere e fisico e contrapposizione e fragilità, fra le righe si capisce che l’aggressore in fondo sono stato io e che tutto quanto tu hai fatto era solo autodifesa. Con la tua insincerità avresti quindi raggiunto un triplice scopo, dimostrando anzitutto di essere innocente, in secondo luogo la mia consapevolezza, e terzo che con grande generosità tu saresti pronto non solo a perdonarmi, ma persino a qualcosa di più e di meno, cioè a dimostrare e a voler credere che anch’io contro ogni evidenza, sarei innocente. Questo potrebbe bastarti, e invece non ti basta ancora. Infatti ti sei messo in testa di voler vivere a mio scapito. Ammetto che tra noi c’è stata lotta, ma esistono due modi di lottare: uno cavalleresco dove si misurano le forze di avversari autonomi, ognuno combatte per sé, perde per sé, vince per sé. E c’è la lotta dell’insetto che non solo punge, ma al tempo stesso succhia il sangue per mantenersi in vita. Costui è il vero soldato di carriera, e così sei tu. Sei incapace di vivere: ma per poterti sistemare comodamente, senza pensieri e senza rimorsi in questa tua incapacità, vuoi dimostrare che io ti ho tolto ogni forza vitale e me la sono infilata in tasca. E dunque, cosa ti importa di essere inetto, tanto il responsabile sono io, tu ti metti sdraiato tutto tranquillo e ti fai trascinare da me fisicamente e spiritualmente, attraverso la vita. un esempio: quando ultimamente pesavi di sposarti, al tempo stesso – e lo ammetti in questa lettera – non ne avevi l’intenzione, ma per non affaticarti troppo volevi che ti fossi complice in
questa non-volontà, proibendoti il matrimonio a causa dell’”onta” che questo legame avrebbe arrecato al mio nome. Ma a me non passò neppure per la testa. Anzitutto, qui come in altri casi non volevo “essere di ostacolo alla tua felicità”, e in secondo luogo non vorrò mai che mio figlio possa muovermi un rimprovero simile. Cosa ne ho ricavato sforzandomi di lasciarti decidere liberamente? Niente di niente. La mia opposizione al matrimonio non l’avrebbe del resto impedito, anzi, avrebbe rappresentato per te uno stimolo in più a sposare quella ragazza, perché il “tentativo di fuga”, come tu lo definisci, si sarebbe così pienamente realizzato. E la mia autorizzazione non ha evitato i tuoi rimproveri, perché vuoi dimostrare che in ogni caso la colpa di un mancato matrimonio è mia. In fondo però, qui e in tutto il resto, sei riuscito solo a dimostrare che tutti i miei rimproveri erano giustificati, e che ne manca uno particolarmente fondato, vale a dire quello dell’insincerità, del servilismo e del parassitismo. Non vorrei sbagliarmi, ma anche con questa lettera ti stai comportando da parassita nei miei riguardi”.
Rispondo subito: questa replica – che in parte può esserti anche rivolta contro – non nasce da te ma per l’appunto da me. Così profonda come la diffidenza che nutro verso me stesso, inculcatami da te, non è neppure la tua diffidenza verso gli altri. Non voglio negare una certa legittimità a una replica che del resto contiene nuovi elementi per qualificare il nostro rapporto. Nella realtà, naturalmente, le cose non possono connettersi come le prove addotte nella mia lettera, la vita è qualcosa di più che un gioco di pazienza: ma con la rettifica che nasce da quella replica, una rettifica che non voglio né posso sviluppare nei particolari, si raggiunge a mio avviso una dimensione così vicina alla verità da poter rasserenare un poco entrambi e rendere più facili la vita e la morte.
Franz
Frammento tratto da “Lettera al padre” di Franz Kafka, pag. 68 – 71, Feltrinelli Editore Milano, 2013
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