Ennio Demarin è una persona riservata. Voce importante della fotografia triestina (e non solo), maestro di Polaroid, lo si vede spesso, là, seduto fra gli appassionati – non ‘spessissimo’, ‘spesso’: quello ‘spesso’ che conta. Voce a volte ruvida; ma è quel ruvido che non è scortesia – quel ruvido che è dentro di noi, dentro la nostra cultura di ‘gente di qui, dell’Est’, che vuol dire parlare quando c’è in effetti qualcosa da dire, e dire ciò che si pensa. Ed è in quel momento – quando c’è qualcosa da dire – che si capisce che di ruvidità non c’è traccia, che si rivelano la grandissima cordialità, l’estrema professionalità, l’esperienza, e la passione di Ennio per la fotografia. Ennio Demarin, che ha qualcosa da dire – che ha tanto, da dire, e con autorevolezza. Lo incontriamo nel suo negozio, in via San Francesco.
‘Appassionato’ è una parola non corretta … esistono normalmente ‘Nikonisti’ e ‘Canoniani’ … è solo una questione di come cominci. Inizi con una marca, e di solito vai avanti con quella, perché hai gli obiettivi di quella marca e non li vuoi cambiare. Canon è molto seria, supporta molto bene il suo prodotto che è validissimo, ma io ho iniziato con Nikon, sono con Nikon da sempre e ci resterò.
Da quanti anni?
Trentacinque. Trentasei.
Che sono anche i tuoi anni di carriera.
Si. Trentasei anni fa ho iniziato la mia attività.
Come hai cominciato?
Lavorando con un fotografo di Trieste che lavorava per l’ANSA [l’Agenzia Nazionale Stampa Associata – ANSA – è la prima agenzia di informazione multimediale in italia e la quinta al mondo, fondata a Roma nel 1945 ndr]. Al tempo – un ‘tempo senza Internet’ – si facevano i servizi, si stampava al volo, si portava la famosa busta fuori sacco per Milano alla stazione (la corrispondenza consegnata a mano al treno in partenza), e l’agenzia di stampa andava direttamente alla stazione di destinazione per ritirarla.
All’inizio non partecipavo ai servizi, aiutavo, qualche volta seguivo anch’io ma più che altro numeravo negativi e facevo l’assistente. Mi sembra di parlare come se avessi mille anni; però il mondo fotografico, giornalistico di oggi … parlare dei miei primi anni è veramente come parlare di mille anni fa. Si sviluppava il negativo, al meglio possibile, come racconta Ugo Borsatti – si stampava, si asciugava e via. Telefonate? Si, qualcuna arrivava – ‘Qualcuno è morto’, ‘Un politico verrà qui’ – non si sa, non si capiva bene come arrivassero veramente le notizie, perlopiù attraverso qualche contatto giusto che si aveva, o per intuito. Con Internet, in un attimo, c’è stata una rivoluzione. Tutto è cambiato.
Come l’hai vissuto, il cambiamento?
Ho cavalcato il digitale immediatamente. Ritenevo che fosse una cosa fantastica. Per poi ricredermi, perché il digitale è un altro tipo di fotografia rispetto alla fotografia vera. Nota bene che la fotografia digitale – la fotografia intesa come digitale – è antecedente a Internet, e aveva ancora, forse, un motivo di essere chiamata ‘fotografia’. È Internet che ha dato il via a qualcosa di nuovo e diverso; soprattutto il software.
Le capacità raggiunte dai software di foto ritocco.
Assolutamente. Il primo workshop che ho fatto – di fotografia digitale – consisteva nella sostituzione del fondo di una foto tessera. E questo era già una cosa straordinaria. Da un punto di vista di quantità d’informazioni che puoi gestire – la prima scheda di memoria consistente, 528 Megabytes (oggi giri tranquillamente con 16 Gigabytes in tasca, almeno tre-quattro card da 16), l’ho pagata mille lire al Megabyte. 528 mila lire. Facciamo il calcolo …
La tua prima digitale?
Io ho iniziato immediatamente con la digitale Fuji. Utilizzava pixel esagonali (un insieme complesso, in realtà) che portavano come risultato meno scalettatura sull’immagine. Con gli strumenti e la risoluzione che hai a disposizione oggi, questo non è assolutamente più un problema, ma all’inizio era un’aspetto molto importante per la qualità. Aveva, inoltre, un software per la resa dell’incarnato che secondo me è ancora oggi imbattibile.
Perché ti sei avvicinato alla fotografia?
Semplifico: il personaggio Toscani. Come fotografo, Oliviero Toscani era emerso quando avevo diciott’anni. Mi stavo già avvicinando alla fotografia, in realtà: compravo riviste, leggevo … ma Toscani è stato il personaggio che ha fatto diventare, in Italia, il fotografo un qualcosa di diverso dall’uomo con la macchina fotografica che eravamo abituati a incontrare ogni giorno. Già mi piaceva fare fotografia, già collaboravo, come ti dicevo, con l’ANSA … però quello è stato il punto di passaggio definitivo, che mi ha fatto decidere di diventare professionista.
Il tuo punto di riferimento.
Infatti. Ho chiesto la licenza fotografica subito. Era quello a cui volevo arrivare.
Ugo Borsatti lavorava per la stampa.
Io non ho mai amato il foto giornalismo. Mi piaceva fotografare la gente. Ritratti, composizioni. Still Life. Amavo assemblare, e fare fotografie di creazioni.
La fotografia è arte.
Indubbiamente. La tecnica è importantissima. Però un bravissimo tecnico non può essere un bravissimo fotografo, c’è qualcosa che a quel punto gli impedisce di andare oltre. Un bravissimo tecnico farà sempre … delle bellissime foto tecniche.
Qual’è il tuo lavoro creativo più recente?
Le ultime Polaroid che ho realizzato, con le nuove pellicole Impossible. (foto: Ennio Demarin su Impossible 8×10, da www.massimilianomuner.com). Un mese fa mi sono rimesso dietro al banco ottico e ho ripreso la Polaroid, la passione di una volta, ora che è di nuovo possibile.
Qualcosa di particolare?
Non sto facendo niente di particolare … sai, prima, creavi. Preparavi il famoso portfolio. Anche prima del digitale, e molti anni fa, c’erano un sacco di fotografi, non è vero che ce ne fossero tanti di meno. Però se il tuo prodotto era buono venivi pubblicato, accettato – ti venivano proposte delle opportunità. Adesso il problema è si quello della quantità d’immagini, indubbiamente, ma anche … della quantità di sedute di letture di portfolio, della quantità di pubblicazioni tecniche, dell’infinito parlare sopra la fotografia. Dico ‘parlare sopra la fotografia’, non fare cultura fotografica, perché non saprei proprio quanto facilmente si possa parlare di cultura fotografica ascoltando i commenti a certe serate o leggendo certi articoli. La miriade di cose che gira attorno alla fotografia … continua ad allevare dilettanti che secondo me non hanno le idee chiare su quella che è la cultura fotografica. E non è neppure colpa loro. Secondo me. E allora non mi getto in qualcosa di particolare, in questo momento.
Qual è il problema più grande, secondo te?
Parliamo troppo. E confondiamo molto il ritocco esasperato con l’immagine, confondiamo molto il colore stucchevole con quello che è una bella fotografia.
Analogico meglio di digitale? Niente software?
Aspetta. Più complesso di questo. Prendi una pellicola 35mm, una buona macchina fotografica, e prova a fare la stessa fotografia e la metti a fianco di quella realizzata con la digitale: chiaramente fa schifo. È così, non bisogna aver paura ad ammetterlo: è il mezzo digitale che ha fatto sì che la foto sia molto più bella, la foto di qualcosa che in natura non vedi, comunque – che non c’è. Meglio della realtà. Nessuna foto di quelle che vedi su Internet è priva di ritocco, e il ritocco non sarebbe giusto non farlo, la voglia di intervenire sulla foto che hai scattato è sempre costante e quindi è inevitabile.
Quindi per vedere il reale non resta che la Polaroid.
Eh, si. Per questo non resta che il Polaroid, che è un materiale che ritorna a essere uno scatto del fotografo. Il digitale (o la foto che scatti in analogico e passi in digitale) è una foto del fotografo-più-operatore al computer, o comunque del fotografo abbinato a un altro operatore, quello che sviluppa la tua foto.
Tu sei un grande esperto di Polaroid.
Si.
E al Polaroid, come ti sei avvicinato?
Attraverso la mia strada professionale. Realizzando le foto pubblicitarie 6 per 6, 10 per 12 … si usava il test Polaroid. Prima dell’avvento del Polaroid come pellicola sulle macchine professionali, rischiavi di fare una foto e mandare la diapositiva che poi risultava sbagliata per qualche motivo incontrollabile, e dovevi rifare tutto. Il test Polaroid ti diceva invece, in piccola dimensione, esattamente quello che avresti ottenuto con le foto che stavi preparando una volta applicate le variazioni di diaframma, luce, e così via. E mandavi a sviluppare la tua foto a cuor sereno: certo, sarebbe potuto succedere qualcosa in laboratorio, ma era improbabile, e potevi stare ragionevolmente tranquillo, lo scatto l’avevi fatto giusto.
Io avevo già un banco ottico 20 per 25, sono sempre stato un po’ un precursore del cliente. Penso che tu possa avere due tipi di approccio al mondo del lavoro: attendere di avere bisogno di un certo tipo di strumento per realizzare quello che ti viene chiesto, o comprare lo strumento innovativo e proponendo quello ai tuoi clienti. Io ho sempre preferito la seconda strada, non ho mai aspettato che l’esigenza venisse da me. Il 20 per 25 lo usavo poco, a ogni modo; il 10 per 12 era più che sufficiente e il materiale di consumo per il formato più grande era costosissimo.
Essendo io un cliente Polaroid, ricevevo le notizie della casa produttrice, e quindi ero venuto a conoscenza della possibilità di modificarne il materiale per ottenere altri risultati rispetto alla sola foto. Avevo già fatto qualche esperimento, per caso – come la gelatina che non si era staccata, e che risultava bella sulla foto fatta; ma non la pensavo ancora come una cosa artistica. La Polaroid aveva dato informazione che il materiale, essendo realizzato in due fogli (positivo-negativo), si poteva staccare, modificare lavorando con le temperature e molte altre cose. E avevo iniziato a sperimentare di più. Sono stato fra i primi … non so se esiste un primo, in realtà, perché l’informazione ricevuta ha fatto partire una serie di persone contemporaneamente.
Sei diventato uno sperimentatore.
Si, ho iniziato con le tecniche che spiego ancora oggi. Poi dopo aver incontrato Abramo Saporiti a Varese – al tempo, la mente di Polaroid in Italia – ho potuto parlare dei Polaroid in grande formato che già facevo, un metro per settanta centimetri. Saporiti ne era rimasto molto colpito, aveva chiamato al telefono ‘Zoom’ (la rivista di fotografia) dicendogli: ‘Ho un artista interessante che vorrei farvi conoscere’, e da lì era iniziata la collaborazione. I miei lavori erano pubblicati, e avevo iniziato una bella collaborazione con Milano. Da lì, la cosa è decollata.
Sono stato uno dei pochi fotografi italiani invitati a provare il Polaroid 50 per 70, pochi sanno che sia esistito. C’erano solo due macchine, puoi immaginare la rilevanza e l’imponenza del tutto: l’obiettivo era un 800 millimetri, con diaframma 22 … una negli Stati Uniti e una in Europa, che veniva fatta girare ogni tanto per le sedi. Era a Milano, e in sei fotografi abbiamo potuto fare uno scatto: uno studio intero a nostra disposizione.
Ed era uno scopo più artistico, o più professionale o industriale?
Solo artistico. Industrialmente, un formato così grande non aveva applicazione. Il 50 per 70 era per gli artisti e Polaroid metteva a disposizione l’apparecchio assieme all’ … ‘accessorio fotografo’: un fotografo polacco che era sempre a disposizione e seguiva le performance. Ricordo un’occasione alla Mostra del Cinema di Venezia, e le foto fatte agli attori: l’uso della 50 per 70 era un vero e proprio happening riservato a poche, determinate occasioni mondiali.
Il formato 20 per 25, invece, è stato utilizzato in molti campi: moda, con Gastel, o Roversi. Ad esempio. Le foto per ‘Vogue’ sono su Polaroid 20 per 25.
Qual era la peculiarità del Polaroid?
Era ed è tuttora, anche se con le pellicole ‘Impossible’ è ancora tutto da capire. La qualità era da banco ottico. I colori erano molto fedeli, senza dominanti rosse o blu – una pellicola molto equilibrata. 208 , o 608 … e, in quei tempi che non erano digitali, potevi portare la Polaroid in tipografia e ottenevi un risultato fedele alle tue aspettative e alla realtà. Anche con la diapositiva potevi ottenere un buon risultato, però con la Polaroid risparmiavi un giorno – il giorno di sviluppo richiesto per le dia. E poi … la Polaroid aveva un colore riconoscibilissimo, bello. Un formato quasi quadrato.
Le ‘Impossible’ non sono affidabili?
Tutto da verificare. Ho provato solo il bianco e nero, ed è instabile. Ma non voglio assolutamente parlarne male, è semplicemente troppo presto per me, devo approfondire. Il prodotto è nuovo e la tecnologia è complessa.
Il Polaroid è scomparso nel 2000, con la crescita prepotente del digitale. Che ha spiazzato anche me, in quegli anni. Anche il lato artistico è stato fagocitato da una confusione notevole. Chi si avvicina oggi alla fotografia conosce solo il mezzo digitale, e non ha problemi di conflittualità, cosa che invece c’è stata nel momento del rapidissimo passaggio. Ma non perché fosse ‘meglio prima’ … o ‘meglio dopo’ … ma è stato un momento in cui professionisti e foto amatori evoluti si sono trovati privi di un preciso punto di riferimento.
E Instagram? Ha contribuito a far tornare la voglia di sperimentare?
Spero di si. In realtà sono molto ai margini di questo movimento artistico su Internet … mi sono rigettato su altre cose, forse la fotografia non mi appartiene più – qui sto estremizzando – dovrei ritrovare certi entusiasmi di una volta, che non ho, e che non dipendono dall’età, da problemi, ma dal mondo fotografico. Io ero fotografo: fotografavo di tutto, ero continuamente immerso in idee e alla ricerca di idee fotografiche. Adesso questa calma piatta – in realtà vediamo miliardi di foto al secondo – però nessuna colpisce. Non svengo. Una volta svenivo anche per un ritratto, per una stampa fatta in una certa maniera. Herb Ritts. Adesso … non rimango colpito. E credo che succeda a tutti, anche a voi. Tutto saturo, pieno d’immagini. Facebook. Di tutto. Anche la foto straordinaria passa via senza esser vista. Anche quest’anno il World Press Photo è stato vinto da una foto molto Caravaggesca, molto bella… ritoccata al computer. Che dire? Sarà sbagliato, sarà giusto … però è una foto manipolata a posteriori. E quindi.
Prediligi il colore?
No, la mia passione è equamente distribuita. Non ho preferenze. La mia preferenza per uno o per l’altro è data dal periodo, da come mi sento.
Ti piace Andy Warhol fotografo? Un grande utilizzatore di Polaroid.
No.
Come mai?
Perché non mi piace Andy Warhol come personaggio, in generale. Mi piaceva il mondo di Andy Warhol – Factory, amici, confusione … lui no. La Pop Art mi piaceva, ho anche vissuto quel movimento, però ero … ignorantello, a quell’epoca. Adesso tutti sappiamo tutto, attraverso Internet, e questo è straordinario. Ma se provi a pensare agli anni Sessanta … io mi impegnavo sulla fotografia, frequentavo le mostre di fotografia e compravo riviste di fotografia. Quello che era un po’ più in là – anche perché lavoravo, avevo motivi che non mi permettevano di spostarmi più di tanto, e non avevo tempo – quello che era un po’ più in là rimaneva spesso là.
Ennio, tu hai lavorato anche per il teatro.
Sempre su commissione. Sono in grado di dividere in due con precisione tutti i miei anni di attività – di ricordare da una parte l’attività artistica e dall’altra quella professionale. Ogni tanto si sono avvicinate, ad esempio in alcune occasioni di ritratto con attori, attrici che fotografavo anche per il teatro. Questa foto è la foto di un’attrice con la quale avevo lavorato per il teatro, e alla quale avevo chiesto di posare per me, per due scatti: non ho mai più saputo niente di lei, e non so se lei ha mai saputo che queste foto sono state pubblicate.
La divisione era netta. Teatro voleva dire che il teatro mi chiamava e mi chiedeva di coprire uno spettacolo, di fare un servizio. La totalità delle mie foto artistiche invece è fatta di persone, l’elemento umano è sempre presente. Tranne nei casi di Still Life, mirato a un soggetto che mi catturava.
Un consiglio per chi vuole cominciare?
Parlo sempre con i miei ex colleghi … se vuoi fare veramente il fotografo, devi pensare di fare il fotografo, chiedere i soldi ai genitori (anche pochi), vendere l’automobile e mettersi in campo per un anno, fare solo quello.
Altrimenti, se vuoi fare il ‘tempopersista’, facendo lavoretti fotografici a basso prezzo come tuo secondo lavoro, nel fine settimana, o regalando le tue foto perché te le pubblicano e speri che poi ti richiamino e magari quelle foto te le pagano … se fai così, non ce la farai mai. Andrai avanti a fare il ‘tempopersista’. Sono tremendamente contrario ai fotografi amatoriali che pur di vedere una loro foto pubblicata la regalano.
Non sono contro chi fa la foto e cerca di farsi pagare, ma contro chi non si fa pagare.
Ma non ha diritto, qualsiasi fotografo o artista, a fare quello che vuole con la sua immagine? Anche regalarla?
Se è un regalo che dopo va sul retro della copertina di un libro – come succede spessissimo – no. Non ha questo diritto. Quella è una foto che dovrebbe fare un professionista.
Difficile tracciare una linea di confine.
Impossibile. Lo dico con polemica, anche ad alto livello (gli attori si fanno il Selfie e niente più fotografo), ma questa polemica è per stimolare chi vuole mettersi in gioco a tentare di fare il fotografo veramente, e a rischiare. Partendo con i soldi di debito, come sono partito io. Digita: ‘fotografi a Trieste’ su Google … hanno anche il biglietto da visita con scritto ‘fotografo’. Direi di no.
Se fai affari, falli alla luce del sole.
Roberto Srelz © centoParole Magazine – riproduzione riservata
Disquisizioni di carattere tecnico sulla fotografia. Non sono un esperto in materia, ma apprezzo lo stesso il dialogo di Srelz e Demarin sull’argomento. La fotografia permette al fotografo di esprimere la propria sensibilità ed il proprio gusto di vedere e, soprattutto interpretare, le cose e le persone.