Elsa Fonda: linguaggio, voce e vita

Elsa Fonda.

Elsa Fonda, nata a Pirano, è un’attrice teatrale ed ex annunciatrice Rai.

Quand’era a Pirano, come ha vissuto il periodo della guerra?

L’ho vissuto come perdita d’equilibrio. Pirano ha costituito per me – proprio come paese, come luogo – una grande formazione: ero sempre a contatto con la natura; Pirano è una lingua di terra stretta e lunga nel mare, quindi, dovunque ti giri, c’è sempre mare, cielo e orizzonte e nient’altro. Quando c’era una buona visibilità, vedevo i monti in lontananza ed ero consapevole della bellezza della natura e di cosa era la natura. Questo senso di apertura, di libertà di respiro, veniva soffocato dal rumore delle mitragliate, delle bombe; non erano tante, ma non occorre molto, ad una bambina, per capire che qualcosa s’è rotto, che non c’è più il senso di libertà di prima.
C’era una grande miseria, ma non la soffrivamo: mi pareva che fosse una cosa quasi normale, però questa condizione mi ha dato la possibilità di imparare a giocare con le parole.

Quindi, fin da bambina, lei giocava con le parole?

Sì, era il mio gioco principale.

Ma che tipo di gioco faceva con queste parole?

La conta, le filastrocche dei bambini, però, più andavo avanti, più il repertorio cresceva.
Avevamo le ballate ed erano ballate sicuramente non piranesi: mi ricordo che cantavo in lingua italiana; credo che fossero di origine toscana: nel Trecento-Quattrocento, erano venuti dei toscani, in quelle zone. Ricordo che c’era anche quel canto della donna lombarda, che faceva così: “Buondì, buongiorno donna lombarda mi ami tu, mi ami..”
Per giocare avevo un’amichetta del cuore, che abitava vicino a casa mia in paese, e ci scambiavamo i ruoli: una faceva il marito l’altra la moglie, l’amante…insomma inventavamo tante storie…

Tutto un po’ teatrale?

Molto!

Quando si è avvicinata al teatro?

Già questo era teatro (sorride), ma in modo più serio, mi ci sono avvicinata al liceo. Era un liceo meraviglioso, fondato nel ’45, e questa è una cosa da sottolineare: avere un liceo per un paese che non l’aveva mai avuto, era una cosa grandiosa. Io ho avuto questa grande fortuna, o perlomeno l’ho vissuta come tale, di nascere nel periodo giusto. Al liceo facevamo coro, si leggevano poesie…

Erano gli insegnanti che avvicinavano i ragazzi alla cultura?

Molto, molto; era una scuola che pretendeva molto da noi, ma anche ci dava tanto. E poi sono andata a Capodistria, nel ’52-’53, perché a Pirano la gente era andata via, c’era l’esodo, che non è durato pochissimo: la guerra è finita nel ’45 ed io sono andata via nel ’55, quindi, in quei dieci anni, ho visto andare via tutte le mie amiche: non avevo più compagne di scuola; e allora la scuola italiana, più vicina, era il liceo di Capodistria, sono andata lì e combinazione quell’anno il liceo organizzò “Addio Giovinezza” di Camasio e Oxilia. Ero timidissima, camminavo tutta gobba, ero molto complessata, soffrivo moltissimo per tante cose, perché già la giovinezza è difficile e come dicevo, mi sentivo sempre l’ultima. Fecero leggere questo copione e io risultai la più brava. Mi ricordo che dicevo: “Ma io sul palcoscenico non mi muoverò mai…”; invece mi fecero muovere. Credo di avere la voglia e il bisogno di mettermi dentro a personaggi diversi, per raccontare la mia storia, perché, in fondo, questo è secondo me il teatro. Per me questo è un dono.
Dorina – la protagonista – era per me una Elsa che poteva parlare: di solito non parlavo con nessuno, perché vivevo questa solitudine dell’esodo, poi mi trovavo a Capodistria che, per una di Pirano, era come un altro mondo.

Ed è lì che ha conosciuto Fulvio Tomizza?

Ed è lì che ho conosciuto Tomizza, sì! Interpretammo i ruoli principali. Lui era come me: era un’entusiasta e anche lui aveva questo dono, questa cosa innata.
Preparammo la commedia in due mesi, per debuttare il 2 dicembre. Fu uno spettacolo bellissimo! Ancora adesso se lo ricordano, dopo tanti anni. Lo registrammo alla radio e lo portammo in tutta l’Istria e fu un successone; il regista – che era anche il regista del teatro di Capodistria – mi rincorreva, perché voleva che entrassi nella compagnia. Lì scoprì un meraviglioso modo di esprimersi. Fino a quel momento mi sfogavo nei temi d’italiano e dopo trovai questa meraviglia: il teatro. In seguito a questo mio exploit, mi chiamarono a lavorare nella radio di Capodistria: c’era bisogno di elementi bravi, non è come adesso che devi tu spingere per entrare, quella volta ti offrivano loro di entrare, se ne avevi le capacità. E per undici mesi avevo scritto l’angolo dei ragazzi, prendendo il posto di Fulvio Tomizza, che era andato a Lubiana; insomma i bravi si rincorrevano. Era una bella atmosfera.

E quando è venuta a Trieste?

Sono venuta a metà settembre del ’55; nel ’54 ci fu il memorandum di Londra e ci diedero un anno di tempo per andare via. Fino all’ultimo si sperava nel plebiscito, in un destino diverso, e sembrava impossibile che non ci fosse una soluzione…
Per fortuna finii il liceo prima della partenza e ora, guardando indietro, mi sembra come se tutto fosse stato stabilito. E’ bello arrivare ad essere vecchi e recuperare fiducia, non negli altri, ma capire che si è costruito qualcosa; mentre prima, come dicevo, ero sempre ipercritica nei miei confronti.

Ma un po’ bisogna esserlo….

Sì, ma io lo ero in modo eccessivo; forse il senso di sentirsi l’ultima, mi dava la spinta per migliorare, per perfezionare, quindi mi sono preparata con tenacia. E alla fine scoprivo di essere la prima, la più brava…

Quando è arrivata a Trieste è andata subito in Rai o dopo?

Quando sono arrivata a Trieste sono andata in campo profughi. Qualcuno aveva qualche altra soluzione, magari andava a casa di parenti – io e la mia famiglia andammo in campo profughi. A quei tempi avevo un ragazzo che era figlio di un barone. Questa famiglia non ha mai voluto accettarmi in casa, proprio neanche una volta. Io non so chi fossero queste persone: la cosa era estremamente umiliante per me. Fu una storia molto dolorosa ma non mi volli sposare con questo giovane, perché lui essendo figlio adottivo, subiva l’autorità di questa famiglia, non riusciva a liberarsi del senso di debito che aveva nei confronti dei sui genitori adottivi. Io me ne rendevo conto e non volevo in alcun modo influenzarlo, avevo le idee ben chiare.
Questo ragazzo, essendo di famiglia bene, mi aveva fatto conoscere Anita Pittoni: un giorno mi aveva portato nel suo famoso salotto letterario, dove ho incontrato Stuparich e ho conosciuto tante altre persone illustri. Ero timida – non parlavo mai – però la Pittoni mi guardava con simpatia e sapendo che avevo lavorato undici mesi, alla radio di Capodistria, un giorno che ero andata nel suo salotto, mi ricordo che disse: “Legi legi cocola…” e mi fece leggere “Il passetto” – un suo libro.
E io – che avevo avuto, grazie al cielo, sempre un amore per la lettura, per i libri…ero una sfegatata – lessi con che emozione: per me, che venivo dal paese, queste persone mi sembravano dei geni, mi sembrava d’essere entrata nell’Olimpo della cultura; ero molto rispettosa, molto educata e mentre leggevo queste pagine, la Pittoni era commossa, aveva proprio le lacrime agli occhi. Mi ricordo che esclamò: ”Ma che brava!…”, e mi fece molti complimenti; poi aggiunse: “Domani ghe telefono a Giannini”, il funzionario dei programmi della Rai di Trieste, di quella volta.
Anche se avevo il batticuore, andai alla Rai e c’era il signor Giraldi, un vero gentiluomo, proprio un bellissimo uomo, educato, che mi fece il provino e mi disse: “La voce è bellissima, ma la devi studiar dizion…”, ed io convenni che era giusto, perché non mi sentivo per niente preparata.
Iniziai così il corso con Ugo Amodeo, che dopo un solo anno mi prese nella compagnia di prosa della Rai. Ciò è stato solo l’inizio: siccome avevo anche capacità di lettura a prima vista – che è indispensabile per fare gli annunciatori – cominciarono a farmi fare le sostituzioni, quando erano ammalate le annunciatrici di Trieste. Una volta mi venne offerta la sostituzione per una collega di Venezia, e anche se non guadagnavo nulla, perché i soldi li spendevo per il viaggio e per la permanenza a Venezia, accettai lo stesso. Proprio in quel periodo, Il gazzettino di Venezia faceva la pubblicità di un concorso di una grande azienda – non c’era scritto il nome – che cercava persone con una buona voce e il titolo di scuola superiore. Era misterioso! Ho deciso di tentare: con la macchina da scrivere della Rai ho battuto, in sede Rai, non sapendo che era per la Rai, la domanda per questo concorso. Eravamo centocinquanta per un posto; in cinque ci mandarono a Firenze per un corso per annunciatori; a parte me, tutti erano raccomandati e anche se io ero la più brava non pensavo che sarei stata scelta, invece, tornata a Trieste, mi chiamarono al telefono per avvisarmi che ero stata presa, e mi chiesero: “In che sede desidera andare?”, ed io risposi: “In quella dove c’è più da lavorare”, perché non vedevo l’ora di mettere in pratica quello che avevo studiato. Andai definitivamente a Venezia: era il 1 ottobre del 1966 ed io ero innamoratissima del mio lavoro.

E dopo Venezia, dov’è andata a lavorare?

Dopo Venezia ci fu un trasferimento d’ufficio a Roma. A Venezia, lavoravo all’ufficio programmi, non facevo solo l’annunciatrice: quella volta si facevano tanti concerti nella Sala delle Colonne, di fronte all’Harry’s Bar (Ca’ Vallaresso) ed io mi occupavo della registrazione. In quel periodo, grazie al lavoro che stavo facendo, ho avuto la fortuna di incontrare personaggi meravigliosi, gente bellissima.

Anche a Roma ha avuto l’opportunità di conoscere persone importanti?

Sì, tante. Ho fatto un lavoro bellissimo! A Venezia ero la consulente fissa – proprio grazie alla mia passione, al mio entusiasmo, alla mia voglia di fare – di Mario Labroca, il sovrintendente del teatro La Fenice. Lui aveva tanto da fare e allora mi diceva: “Cara facciamo così e così…”, e quindi preparavo tutto il materiale e quando lui arrivava era tutto pronto per la trasmissione radiofonica; lui parlava a braccio, e aveva un’incredibile competenza. Facevamo le trasmissioni in un battibaleno. Poi ho lavorato con lui e con Giuseppe Pugliese, che era il Capo Ufficio Stampa de La Fenice: facevamo una trasmissione famosissima, che si chiamava “Il melodramma in discoteca”; mi adoravano, e tra noi c’era rispetto e ammirazione.

Quindi il rapporto con i colleghi era ottimo?

Non con il capo: lui non riconosceva il mio impegno e quando doveva valutarci, a me dava sempre un voto basso. Poiché tutti quanti mi ritenevano una persona valida e mi stimavano, nessuno capiva questo suo comportamento. Allora decisi di mandare una lettera di protesta a Roma…
Quando andai a Roma per me fu come fare un passo avanti; all’inizio mi sentivo l’ultima, ma poi, pian piano, diventai la prima.

Ma dopo Roma, ha lavorato a Trieste?

No, no, no. Io ho lavorato a Trieste dal ’63 al ’66; ero nella compagnia di prosa e facevo le sostituzioni come annunciatrice…

E ha conosciuto Spiro Dalla Porta Xydias?

Certo!

Cosa mi dice di Spiro?

Meraviglioso, straordinario! Una persona proprio meravigliosa! Ho fatto lezioni anche con lui, e mi ricordo la sua impostazione. Assieme facemmo “Il Gabbiano” – io feci la parte di Nina. Era un uomo molto colto ed intelligente. Devo molto a tante persone, e Spiro è una di queste.

Qualcosa che le ha insegnato Amodeo e che ricorda ancora?

Ugo aveva il senso dell’adoperare il corpo per parlare; la fatica non era tanto nel recitare, quanto nel riuscire ad esprimersi usando anche il corpo; era un impegno fisico ed emotivo. Ugo ci faceva fare tanti esercizi; feci anche qualche lezione con Anna Gruber che aveva fatto il Centro Sperimentale di Roma, e io non avrei mai immaginato che dopo, anch’io, avrei insegnato al Centro Sperimentale. In quegli anni andavo da tutte le persone che potevano insegnarmi, trasmettermi, qualcosa. Il fatto di essere migliore degli altri, non è sempre una posizione comoda: a volte, crea problemi.

Ma se uno alla radio sbagliava di pronunciare correttamente un nome, veniva…

Multato, c’erano le multe; non era scusabile sbagliare! L’errore non era perdonato. Kramer era un annunciatore in pensione che aveva il compito, da casa, di seguire il discorso dell’annunciatrice: aveva il testo scritto che seguiva con il dito e vedeva se c’era l’errore. Se c’era uno sbaglio, allora lui scriveva che annunciatrice ha detto cosa e a che ora. All’epoca c’erano tre canali: Radiouno, Radiodue, Radiotre – che allora si chiamava terzo programma – e lui li seguiva tutti.

Guarda spesso la televisione?

No, poco. Guardo il canale 23 (Rai 5), dove ci sono i concerti e Passepartout, oppure guardo canale 54, dove c’è la storia.

Quindi, secondo lei, la qualità è peggiorata?

Ah, molto! Ora, è un’altra cosa. Una volta, in televisione, avevamo l’appuntamento con il teatro che – se non sbaglio – era al venerdì. Era proprio bellissimo! C’erano attrici stupende: la Maltagliati, brutta! Ma Grande! La Capodoglio, brutta! Ma brava! Era proprio un altro mondo.
Quando ero Roma, bisognava saper fare tutto: leggere la pubblicità, leggere le poesie, la storia, tranne le notizie del giornale radio, quelle non le leggevamo noi: il giornale radio andava in onda da via del Babuino; mentre dal CPRF (Centro di Produzione Radiofonica) di via Asiago, partivano solo i programmi. In via Asiago eravamo in trenta e anche in via del Babuino c’erano altrettante persone. A Roma – sono stata venticinque anni – pian piano, ho visto entrare sempre più
esterni…e pensare che una volta facevamo tutto noi…

Quali sono i suoi autori preferiti?

Io adoro Leopardi.

Ha visto il film “Il giovane favoloso”, uscito recentemente?

Sì, l’ho visto. Le immagini…meravigliose, proprio bellissime! Una ricostruzione eccellente! Credo che chi ha fatto quello studio è veramente di grande cultura. Mentre non ho condiviso affatto il commento sonoro.

Nemmeno io…

Non so cosa c’entrava quella canzone americana…

Me lo sono chiesta anch’io…

Comunque, questo film è un prodotto buono, per carità ce ne fossero di film così, ma se vogliamo fare un’analisi un po’ più dettagliata…

A Trieste, com’è stata accolta?

Come ho già detto prima, a Roma ho conosciuto persone meravigliose; casa mia era sempre aperta. Da quando sono tornata a Trieste sono stata invitata pochissime volte. Non so, io credo che questa città sia un po’ strana. Sono una persona disponibile, e quindi mi piacerebbe fare qualcosa, ma qui nessuno sembra volermi; questo rifiuto, questo non voler far nulla, per me, è segno di non maturità.

Trieste è una bellissima città però…

Però purtroppo è finita. Per esempio, il 30 ottobre, quando è stata organizzata la serata per i cinquant’anni della sede Rai del FVG, (al palazzo Gopcevich, in concomitanza con la mostra “Che storia, la Rai” n.d.s) c’erano solo i giornalisti Mirasola e Picoi, nessuna autorità; non lo dico perché c’ero io, ma per il significato che si vuole dare alla manifestazione. C’è proprio un disinteresse; Trieste è una città finita…

E cosa si potrebbe fare per tirarla su?

Eh, io faccio tanto, ma le istituzioni non mi vogliono, e ciò è penoso. Sono bocca schietta: dico sempre la verità, ma non a tutti va bene. Il comportamento che dimostrano le istituzioni, estremamente chiuso, addirittura di rigetto, di ripulso, fa sì che io mi rafforzi e continui a fare. Io non ho mai avuto veli: parlo con tutti allo stesso modo. La libertà si conquista a caro prezzo, ma io l’ho raggiunta.

Lei che insegna dizione all’Università Popolare, c’è qualche giovane che partecipa alle sue lezioni?

C’è solo un giovane, che è una meraviglia; gli altri sono persone di mezz’età. Ma sono venti allievi meravigliosi!

I giovani, in generale, non seguono molto il teatro ….

Che peccato, che peccato…Io non ho fiducia nell’umanità, perché l’umanità è quella di Barabba, ed è rimasta tale. Ho vissuto gli anni difficili della guerra, ma erano anni di valori immensi. Noi venivamo educati proprio ai valori più alti, e io sono cresciuta con quei valori, e me li tengo cari. Mi dispiace vedere questi giovani che vanno a bere: lì vedo sempre fuori dai bar…ma che ci faranno?

Non so, forse non sanno cosa fare, non sanno cosa vogliono…

Ma è grave! Ripeto, sono stata fortunata, ma io studiavo tutto il giorno, e quando era il momento mi trovavo pronta. Io ho avuto degli adulti che si preoccupavano della gioventù, forse in modo eccessivo, perché sia i genitori, che la scuola – avevamo il coro, le lezioni, la ginnastica, di tutto – ci controllavano. Capisco che in paese era più semplice controllare, però avrebbero potuto anche fregarsene. Guai se ci vedevano fumare – che le donne fumassero non era nemmeno preso in considerazione – ma i maschi, neanche loro, dovevano fumare.
Quella volta avevamo gli educatori, che ora non ci sono più; adesso i giovani sono allo stato brado, non c’è sostanza, non c’è l’autocritica – che io avevo in modo eccessivo – non ce l’hanno per niente, e questo è grave: se non hai la coscienza e la critica, non farai mai nulla.

Per lei, che cos’è il linguaggio?

È il patrimonio più grande di una persona, perché antropologicamente, l’umanità, le persone, hanno potuto parlare quando si sono messe in posizione verticale; ed è in posizione verticale che hanno conquistato il linguaggio, la religiosità, la manualità. Tutti i popoli hanno delle religioni e queste sono legate al linguaggio e il linguaggio è creazione, come dicevano i greci: tu parli e crei, e con le mani crei; l’umanità sta perdendo il valore del linguaggio, il valore della creatività: non muovono le mani, non creano più nulla; c’è una religiosità nel tatto, nella parola. Che grande valore ha il linguaggio!
Quando lavoravo alla radio e parlavo al microfono, anche se non venivo pagata quanto valevo, la regina ero io; pensavo di arrivare magari a una persona sola – per sola intendo nella solitudine – e con la voce, con tutta me stessa, arrivare a lei; trovare nella voce quella confidenza, quelle note giuste in modo da farmi sentire; non a caso si parla de: “La leggendaria voce della radio”, dove nella voce c’è la componente umana; e ora questa componente sembra essere svanita.

La vita com’è?

La vita è stata una cosa bellissima per me, proprio bellissima; ciò che conta è la curiosità, il voler capire sempre un po’ di più, senza mai rinunciare ai propri obiettivi! Il problema non sono solo i soldi: una volta eravamo poverissimi a Pirano, ma facevamo tutto lo stesso, perché c’era la gioia di fare…Nel mondo tanta gente soffre ed è sfortunata, ma tutti lo siamo a nostro modo, quindi bisogna vedere come interpreti quello che ti succede, e non evidenziarne solo il lato negativo.

Cosa fa adesso?

Vado avanti con le mie ricerche. Ho scelto per i miei monologhi autrici meravigliose – Santa Teresa, Etty Hillesum, Elody Oblath, Antonia Pozzi – donne che in qualche modo mi assomigliano,
perché con la scrittura si sfogavano. In fondo, io sono sempre rimasta la bambina di Pirano che aveva bisogno di far teatro per dire cose, mai tanto per fare. In me c’era sempre un desiderio di messaggio, di approfondimento, di capire perché siamo al mondo, di dare valore a questa nostra presenza, di capire perché ci siamo – è vero che non abbiamo scelto noi di esserci – però una volta che ci siamo, non buttare via questa occasione.
Le parole, come tradiscono il pensiero! Io adoro la scrittura, perché è un momento dove devi mettere proprio tutto, sei costretta a dire il vero, non puoi dire le cose all’incirca.
Nella vita ho fatto proprio tanto da quella bambina che correva in Riva nova, in Riva vecia.
Quando vado a Pirano capisco la musicalità di Tartini: quando sei sulla riva, ti rendi conto che è proprio la musica di Pirano, come lo è la mia scrittura, il mio modo di porgere, quella luce, perché – ricollegandoci al discorso di prima – la religione ha a che fare anche con la luce, la luce che l’uomo ha visto quando si è alzato in piedi, e che prima non poteva vedere.

Ringrazio Elsa Fonda per la sua voglia di raccontare.

Nadia Pastorcich © centoParole Magazine – riproduzione riservata

 

 

1 commento su “Elsa Fonda: linguaggio, voce e vita”

  1. Ecco la storia di una donna, di un’annunciatrice della radio, che pare una favola. Ha quel sapore del passato che sa di tanti valori acquisiti attraverso lo studio, l’impegno, ma anche le difficoltà degli anni della giovinezza, non facili e trascorsi senza tante distrazioni o perdite di tempo, ma miranti al sodo, al senso vero delle cose, all’apprendimento consapevole e responsabilizzato. Ci sono delle considerazioni fatte da Elsa Fonda molto importanti se rapportate ai nostri tempi. C’è l’attrito fra epoche diverse, fra serietà ed impegni altrimenti intesi. Ora tutto è così differente, e non perché Elsa Fonda lo dice, ma perché è palese nei comportamenti, negli atteggiamenti della nostra società, rispetto a quella di allora. Se per un verso possiamo dire di essere progrediti in tante cose, in altre abbiamo fatto dei passi indietro, perdendo la rigorosità degli studi, dei comportamenti delle nostre azioni. Il rigore non esiste più, ed era proprio questo che faceva applicare le regole e dava nei tempi andati, alla fine, i suoi frutti. Anche alla radio, come in televisione, ora non c’è più la dovuta proprietà del linguaggio (persa del resto un po’ da tutti), e la dizione è trascurata anche fra gli annunciatori. Si parla come la vita oggi, freneticamente. Se senti un telegiornale pare di essere all’ascolto non di un giornalista che legge, ma di un D.J. da discoteca, con quel ritmo eccessivamente veloce che spesso addirittura accavalla fra loro le parole. E non mi si dica che è questione di rispettare i tempi del programma. Un po’ sarà pure anche questo, ma molto è dovuto pure al contenuto dei testi, che forse oggi trovo molte volte eccessivo, sì che vi ci si perde, da smarrire perfino lo stesso filo del discorso.
    L’intervista mi è parsa molto nostalgica, giustificata dal giusto rammarico che molte cose siano peggiorate e non migliorate. E’ amaro constatarlo, ma questa è la realtà. Il miglioramento tecnologico ha danneggiato la capacità di sapersi esprimere con proprietà di termini e competenza culturale. La gioventù odierna non si incontra più, ma si contatta e trasmette a forza di sms, penalizzando il linguaggio, maltrattato con abbreviazioni simboliche digitate sui vari smartphone.
    Ringrazio anch’io Elsa Fonda per l’interssante ed istruttiva intervista rilasciata a Nadia Pastorcich, certo che molti da essa comprenderanno che il detto “Si stava meglio quando si stava peggio” è oggi valido più che mai!

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