Diario d’artista: perché qualcosa ci “piace”?

Giorni addietro, mentre ero impegnato con un mio cliente, su un improbabile confronto tra scuole e tecniche di pittura – come spesso mi accade – una parte di me, irrispettosamente, si era allontanata dal quel futile dialogo (L’arte non è comparabile, per definizione), per perdersi in una domanda che invece giudico non da poco.

In effetti cosa è veramente che ci fa scegliere e piacere una cosa, un oggetto, un libro, una teoria, persino una persona a discapito di un’altra? Quale meccanismo, il più delle volte non propriamente conscio ci porta ad una scelta in questo senso?
Si parla di “gusto”, di stile, di modo di essere e sentire, ma cosa lo genera veramente?
Può essere solo quell’ammasso di dati che ci portiamo dentro, dove la nostra mente va a rovistare di continuo, o c’è dell’altro?

Anni fa, su una rivista, avevo letto un’affermazione che mi aveva colpito non poco: e che cioè, nella nostra vita, in realtà non lasceremmo mai niente dietro di noi e che tutto, ma proprio tutto verrebbe archiviato in continuazione dalla nostra coscienza, come nel disco di un computer dalla memoria (quasi) illimitata, racchiuso in una scatola “nera”, per sempre.
Un potere enorme, quindi, di conoscenza personale; ma, per rovescio, ci sarebbero anche delle notevoli difficoltà di recupero di questa immensa mole di dati, di questa incredibile amalgama di immagini, suoni, sapori, odori, percezioni, paure e piaceri, racchiusi nelle nostre sinapsi. Di fronte ad una tale quantità di dati, infatti, la nostra “macchina cerebrale” per evitare un sovraccarico, agirebbe per similitudini o comparazioni, estrarrebbe cioè a “blocchi” dati simili, utili al momento, andando un po’ a “braccia”, cioè pescando in maniera abbastanza grossolana, vista la quantità di materiale a disposizione. Saremmo poi noi, ad abbellire, imbruttire, o comunque completare queste ondate di informazioni, non del tutto dettagliate.
E qui scatta la nostra azione, che non si limita ad assumere freddamente ma “artisticamente” la nostra memoria dandone una personale interpretazione.

Anche nel più freddo pensatore che si possa immaginare, anche nel più critico scienziato, i ricordi arriveranno e soprattutto verranno formati con qualcosa di nostro in più, con qualcosa che avremo aggiunto, per unire i legami altrimenti spezzati tra le informazioni ricevute.
Quando ad esempio pensiamo al colore rosso, il nostro computer di bordo si mette subito in moto e ci manda, in una manciata di nanosecondi, mille immagini, mille scene, fiori, vestiti, tramonti, tutto ciò che ha attinenza con quel colore; qualunque cosa che presume ci possa essere utile in quel momento; se poi affiniamo la ricerca è chiediamo alla memoria ad esempio, “quadri con del rosso”, arriverà una serie di informazioni ridotte, in base a quanto abbiamo visto nella nostra vita in musei e gallerie d’arte, in documentari o film, riguardante la nostra richiesta.

Ma – e qui sta il bello – arriverà anche dell’altro: se verranno ad esempio inclusi dei rossi papaveri di un quadro di Monet, assieme a loro arriveranno anche gli stimoli olfattivi e tattili del prato d’erba che li ospita, arriveranno anche ricordi paralleli, che non possiamo evitare, e che, superati gli sbarramenti della razionalità, completeranno e modificheranno i dati.
Persino, al quadro di Monet, dove il rosso dei papaveri ci aveva così colpito, affiancheremo il nostro stato d’animo di quando l’avevamo visto, di quando per la prima volta la sua immagine era giunta al nostri occhi.
Come si vede, la nostra mente è molto più artistica di quanto generalmente pensiamo, e la nostra innata abilità di astrazione ci rimanda a quella fantasia di cui siamo così dotati da bambini e che sopravvive negli artisti e nei creativi.

Quindi il “rosso” non sarà solo un colore, una composizione, una rifrazione particolare sulla nostra retina, uno stimolo elettrico, un impulso nervoso che arriva al cervello, ma bensì qualcosa di molto più vario e complesso: al di là di quanto dicano tanti scienziati, noi siamo un mondo di emozioni, oltre che una struttura pensante.
E sta forse proprio in queste nostre personalizzazioni di dati e di quello che chiamiamo “ricordi”, in quel qualcosa di nostro che mettiamo in questo processo di archiviazione\ricezione dei dati, la risposta all’interrogativo da cui sono partito. La stessa nostra dimensione artistica e visiva è formata da questo.

Mille e mille sfaccettature della nostra personalità, mille e mille emozioni, un vorticare di percezioni sono presenti in noi, in ogni nostro pensiero; ad ogni immagine, suono o sapore ne aggiungiamo altri ed altri ancora: e la somma di tutte queste associazioni, creeranno una scelta, conscia o meno (alla fine la cosa ha poca importanza) da cui si formeranno le nostre simpatie od avversioni, le mille sfumature a cui dobbiamo dare spazio in noi e che formano alla fine la nostra vera ricchezza interiore.
Quando quindi scegliamo un abito o una carta da parati, c’è dietro tutto un mondo che viene richiamato in un secondo e che ci viene dispiegato; una scelta complessa ed affascinante ci viene proposta in continuazione.
Ecco quindi il piacere; il piacere di scegliere una cosa piuttosto che un’altra; un bisogno che sentiamo dentro e che dobbiamo coltivare.
Abbiamo un’enorme ricchezza; un’enorme capacità artistica di poter disporre della realtà e di crearne una nuova in continuazione; ed a questa dobbiamo tendere naturalmente, superando a volte d’un balzo barriere troppo anguste per il nostro pensiero e per la nostra esigenza interiore, rimodellando di fatto la nostra percezione della vita.
Giorno per giorno.

Roberto del Frate ©centoParole Magazine – riproduzione riservata.

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