Diario d’artista: i collezionisti

Proprio ieri, con un cliente, ricordavo quando, poco più che ventenne, lavoravo nell’atelier di mio padre.
C’era un atmosfera densa e pesante: lui era un gran fumatore e le pareti sapevano di fumo e di vernice data di fresco. Lo studio era disordinato ma aveva un gran fascino: montagne di vecchie sigarette, una sull’altra; sembravano dei tumuli improvvisati che si reggevano magicamente dal cadere rovinosamente a terra, mentre nell’aria l’immancabile voce di Frank Sinatra, accoglieva chiunque l’avesse visitato. E poi d’attorno una marea di libri; libri d’arte, s’intende, che servivano a mio padre da ispirazione. Lui non era come me; non si allontanava mai dall’atelier e mai e poi mai si sarebbe sognato di dipingere all’aperto.

Ricordo ancora quelle mattine veneziane, quando dovevo aspettare che “l’atmosfera si scaldasse”, come diceva lui: doveva bersi un paio di bicchieri di whisky e fumarsi almeno quattro o cinque sigarette, prima di cominciare. Poi andava avanti per ore ed ore, come una macchina, fino all’ora di pranzo, che per lui erano le due di pomeriggio.
Ma ricordo anche molte altre cose: sensazioni, brani di memoria; la capacità che cresceva in me, l’abilità che si sviluppava un po’ alla volta sotto i suoi burberi insegnamenti: non era mai contento del mio operato e non faceva nulla per non farmelo notare; ma io tenevo duro e non volevo dargliela vinta.
Le giornate passavano così ed io sapevo ormai tutte le canzoni di Frank Sinatra a memoria e l’odore di fumo mi riempiva i capelli; ma mi stava comunicando tutti i suoi segreti, tutte le sue emozioni: mi stava donando la capacità di fare Arte e di questo gli ero riconoscente.
E poi c’era dell’altro: c’erano questi tizi, per lo più uomini abbastanza avanti con gli anni (Nella mia mente di ventenne, magari potevano averne quaranta ma erano già vecchi…), che venivano a trovare mio padre. E non sempre erano commercianti d’arte (i “portatori d’acqua”, come li chiamava lui), ma spesso erano privati cittadini che amavano quadri e tele.

Erano i “collezionisti”. Ma chi erano costoro? Arrivavano là e sopportavano lo strano carattere del padrone dell’Atelier veneziano; si beccavano spesso anche sonore imprecazioni ed offese: mio padre era gentile per un massimo di dieci minuti. Poi incominciava con il suo “Tanto lu non capisse niente…”, oppure “El me lassa che scelgo mi, che xe meio…” Questi venivano lì a portargli dei soldi e lui li maltrattava. Era una scena comica.
Io li stavo a guardare: spesso erano persone danarose; ma non sempre. Avevano qualcosa in comune, però: li vedevi bruciare per il piacere di scartabellare nello studio; sbirciare tra tavolette di legno iniziate e finite a metà; immersi con voluttà in piccoli studi che mio padre faceva per opere più grandi; oppure giravano per le altre stanze della casa, guardando gli altri quadri che mio padre aveva eseguito e che lasciava alle pareti, dicendo enfaticamente “Questi non se toca…”, vecchio trucco per venderli, dopo trattative estenuanti, al doppio del prezzo degli altri.

Erano persone particolari: vedevi la loro passione negli occhi; li vedevi che erano lì non solo per comprare un oggetto; ma per respirare quell’aria che sapeva di Arte, fantasia e mistero.
Io passavo del tempo a studiarli e cercare di capire: guardavo loro e guardavo mio padre: insieme inscenavano questa recita dell’assurdo, pure con le sue logiche rigorose di teatro.
Alla fine andavano sempre via contenti, perché lui ci sapeva fare: gli dava sempre l’impressione di aver fatto l’affare; e non solo: di avergli strappato il pezzo migliore. Poi andava al tavolo e si beveva una sorsata di whisky.
Poco per volta incominciai a conoscerli anch’io. A quel tempo ero solo il figlio del “boss”; ma poco per volta incominciarono anche ad interessarsi alle mie cose, che erano leggermente differenti da quelle del capo. Così iniziai a capire; a capire cosa avevano dentro, cosa li spingeva a volere sempre più cose; cosa li portava a collezionare dipinti su dipinti.
Era bello ascoltarli: erano come degli innamorati, col sorriso negli occhi, quando ti parlavano delle loro creature.
Ne ho conosciuti tanti: italiani e stranieri: non c’era differenza. I tedeschi mio padre li odiava (Non so perché) e faceva loro i prezzi più alti.
Ma ho un ricordo dolce di queste persone, che volevano darsi un tono, esibire la loro ricchezza ed invece erano come bambini al luna park, che volevano rimanerci il più possibile e portarsi tutti i balocchi a casa.
Erano per lo più colti ed azzimati; oppure tutto il contrario, ricchi e sbruffoni. Ma a me piacevano, perché a loro piacevamo noi e le nostre opere.

Poi tutto è cambiato: sembra siano passati cento anni. Anche andando alle mostre d’arte ed alle grandi fiere d’arte contemporanea a cui ho più volte partecipato, stento a vedere in quella folla, i miei personaggi. Tutto è divenuto più freddo: si parla, nel migliore dei casi, di investimento, di speculazione appropriata; una specie di scommessa su questo o quell’autore che si pensa possa in futuro, spinto dai galleristi, fruttare di più. Sembra di essere in una borsa di una qualsiasi città con chi scommette su titoli ed azioni. E questo, ripeto, nel migliore dei casi.
Pochissima gente sa di cosa parla e cosa vuole: si fanno consigliare da arredatori ed “esperti”, da agenti immobiliari, da brokers.
In questi ultimissimi anni le cose sono ancora più cambiate: ora nemmeno più si tende ad acquistare, a possedere i dipinti e le opere d’arte: per tanta gente, oramai, basta “archiviare”: mettere da parte su un disco fisso di un computer, immagini prese qua e là nella rete e già tutti si sentono un po’ collezionisti: certo è un passaggio anche quello; ma faccio fatica sempre di più ad incontrare quei personaggi che popolano i miei ricordi di ragazzo; forse sono tempi che non ritorneranno più, sviliti da troppa tecnologia e logiche di mercato.

Ma vi assicuro che ogni tanto capita: capita anche da me, nel mio atelier: delle volte capita ancora: quella magia tra artista ed amatore d’arte, quella simbiosi avviene una volta di più; la comunicazione, il piacere dell’arte ci accomuna al di là del denaro e si parla una lingua comune, dove entrambi sono contenti di quel dialogo fatto di immagini e parole, di consigli ed apprezzamenti; di paragoni, di aneddoti e stima reciproca.
E vi assicuro che è bello.
Bello davvero.

Roberto del Frate ©centoParole Magazine – riproduzione riservata. 

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