Mentre aspetto l’autobus, alla mia sinistra, una bambina bionda e occhialuta esplode in un pianto disperato. Ha una Barbie sirena stretta in mano e volge gli occhi lontano dallo sguardo di una madre molto giovane e molto impermeabile a quel pianto, forse solamente abituata. La nonna guarda altrove, come dicesse: “Non è un problema mio”.
Alla mia destra un nero, alto e magro, fa a pezzi un foglio di carta lasciando cadere i pezzi nel bottino. Lo fa con un gesto metodico ai limiti dell’ossessivo, strappo dopo strappo. La testa china è incassata fra spalle ampie, nascoste in una camicia bianca troppo grande che pare tessuta di piombo, tanto piega un portamento un tempo fiero, appesantito da chissà cosa.
Io però nel primo istante non mi faccio alcuna domanda su quel pianto, su quale relazione ci sia in quelle tre generazioni sicuramente slave, su cosa rappresenti per la bambina quella Barbie sirena tenuta stretta come fosse il giocattolo da cui non si separerebbe mai. Vedo la distribuzione delle tre figure nello spazio, la luce di quel pomeriggio che cade su di loro e valuto lo spazio dietro immaginandolo nell’inquadratura larga, in un 35 millimetri.
Non mi domando per prima cosa del contenuto di quel biglietto. Se sia un biglietto dell’autobus o una breve, dolorosa lettera, fatta a pezzi per esorcizzare la traccia indelebile che si è appena scavata nella memoria. Non ho alcuna curiosità circa le storie che hanno tracciato un estuario di rughe troppo esteso per l’età che segnano. Valuto la sua figura per una particolare, antica eleganza, immagino come possa venire uno scatto in bianco e nero con un filtro rosso. Cerco nel cielo alle sue spalle qualche nuvola, per dare profondità ad un azzurro altrimenti troppo piatto.
Dopo questi brevi istanti di quasi totale assenza di empatia torno ad essere sensibile (ISO 12.000 e non m’importa della grana) e mi faccio nel domande giuste, soprattutto ritrovo un umano trasporto per dei malesseri e, grazie a Dio,mi riprendo la normalità della mia empatia. Gli unici due punti in comune fra questi due stati sono la bambola ed i coriandoli di lettera.
Sono sia l’elemento interessante e narrativo di una fotografia, sia i punti su cui la mia empatia si fissa e mi rende partecipe di un pianto, di una storia forse dolorosa.
Fare fotografie mi ha cambiato.
Non so se in meglio o in peggio.
Ma di sicuro mi ha profondamente cambiato.
Ha cambiato il mio sguardo, ha aumentato la mia capacità di vedere i contrasti ma mi anche mostrato la via per astrarmi dalla realtà cavalcando le linee prospettiche. Mi ha collocato nella possibilità di guardare il mondo come fosse un universo bidimensionale da scomporre e ordinare con la regola dei terzi.
Il fotografo è un macellaio che piange disperato nella sua cameretta, per ogni colpo di coltello piantato nella carne della propria empatia, lungo la giornata.
Vincenzo Russo © centoParole Magazine – riproduzione riservata
[foto: Elliot Erwitt]