Roland Barthes

Camera Lucida: Roland Barthes

[di Roberto Srelz] Camera Chiara (‘Camera Lucida’): note sulla fotografia. L’uomo Roland Barthes

‘… Pazza o savia? La Fotografia può essere l’una o l’altra cosa … sta a me scegliere se aggiogare il suo spettacolo al codice civilizzato delle illusioni perfette, oppure se affrontare in essa il risveglio dell’intrattabile realtà.’

‘Le Plaisir du Texte’

Filosofo, saggista, linguista, critico letterario. Roland Barthes ha scritto di aver sempre odiato la propria immagine – perché, istintivamente, di fronte alla macchina fotografica era portato a mettersi in posa, falsandola.

Finché un’eccellente fotografa, Carla Cerati, non gli ha inviato una fotografia.

‘La foto la scattai alla libreria Feltrinelli di Milano durante la presentazione di un libro, con Arbasino ed altri… Gli mandai la foto a Parigi e lui mi ringraziò dicendo di essersi finalmente riappacificato con la sua immagine.’ [Carla Cerati]

 

 

 

 

 

 

Roland Barthes nasce nel 1915 in Francia, a Cherbourg (Normandia), figlio di un ufficiale di marina, Louis, e di Henriette Binger. Un soldato che muore in mare (1916), nel corso della Prima Guerra Mondiale iniziata nell’anno stesso della nascita del figlio; Roland non conosce mai, quindi, il padre. Nel corso della guerra, la famiglia si trasferisce, e Roland cresce a Bayonne (nel sudovest della Francia), poi la madre, Henriette Barthes, prima dell’adolescenza del figlio, si sposta a Parigi; Roland Barthes rimarrà per sempre molto legato a Bayonne, ai paesaggi di campagna e alla provincialità di una certa Francia.

‘Non fu un’infanzia infelice, grazie all’affetto che mi circondava, ma fu scomoda, a causa della solitudine e delle ristrettezze materiali’. 

 

Nel 1927, Henriette dà alla luce un figlio illegittimo, Michel – il fratellastro di Roland. Al rifiuto della famiglia di aiutarla economicamente, Henriette inizia un’attività artigianale, e mantiene la sua famiglia lavorando come rilegatrice di libri. Roland grazie agli sforzi della madre studia quindi alla Sorbona, e ottiene ottimi risultati, ma nel 1934 si ammala di tubercolosi ed è costretto a interrompere gli studi e a lunghi periodi di ricovero in sanatorio. Questo stronca la sua carriera universitaria; lo salva però dalla Seconda Guerra Mondiale.

Le difficoltà nel recuperare il tempo perduto e completare gli studi a causa della malattia, prima, e la necessità di viaggiare molto (Francia, Romania, Egitto), dopo, per ottenere cattedre nelle quali insegnare, gli rimangono nella memoria. Più tardi, eviterà intenzionalmente di accettare alti incarichi nelle università di maggior prestigio, anche se gli verranno insistentemente offerti. Per molti anni quindi a cavallo della Seconda Guerra Mondiale e subito dopo Barthes si impegna duramente nello studio e allo stesso tempo lotta con la sua salute; in quel periodo, contribuisce alla resistenza attraverso la stampa francese di sinistra, leggendo e scrivendo (su ‘Combat‘; su l’ ‘Arche‘ e altre) (durante le contestazioni studentesche del 1968, però, prenderà le distanze dagli studenti, e per questo verrà fortemente attaccato da essi e proprio dalla sinistra).

Negli anni Cinquanta, a guerra finita, Barthes studia a tempo pieno lessicologia e sociologia; inizia a scrivere articoli nei quali demolisce, puntualizzandone i tratti, i miti della cultura popolare francese attraverso la loro attenta analisi. Il suo smitizzare l’immagine dell’Abbé Pierre, figura clericale e politica molto popolare in Francia in quel periodo, desta scandalo e stimola riflessioni dentro e al di fuori dell’ambiente intellettuale parigino.

L’abbé Pierre è una ‘foresta di segni’. Barba, sandali, e chierica. ‘L’archetipo capillare della santità’ che diventa l’alibi con il quale la Francia sostituisce impunemente ‘i segni della carità  con la realtà della giustizia’.

 

 

(Henri Agrouès – detto Abbé Pierre, religioso, partigiano, uomo politico francese, fondatore della ‘Compagnia di Emmaus’. Morto nel 2007)

Negli anni Sessanta, Barthes si orienta allo studio della semiologia, diventando uno dei fondatori di quella moderna, d’avanguardia – lo strutturalismo (più tardi, la cattedra di Semiologia Letteraria al Collège de France verrà creata appositamente per lui – riconciliatosi con l’ambiente universitario). Ormai ha viaggiato molto negli Stati Uniti e in Giappone, ed è diventato famoso anche come critico e filosofo: continua a lavorare sui miti, e sviluppa un nuovo tipo di critica letteraria basato sui segni stessi, che aveva già affrontato, e su nuove idee di testualità. Riflette e scrive sul ‘piacere del testo’:

‘… Il piacere del testo è di natura asociale … non è un elemento del testo, non è un residuo ingenuo; non dipende da una logica dell’intendimento e della sensazione, – è una deriva, qualcosa che è insieme rivoluzionario e asociale e non può essere adottato da nessuna collettività … Qualcosa di neutro? E’ evidente che il piacere del testo è scandaloso, perché atopico’.

Con l’eleganza, volutamente aristocratica, che sempre contraddistingue il suo modo di scrivere e di raccontare, Barthes definisce ‘atopico’ – qualcosa che si scatena come in una violenta malattia, bizzarro, eccentrico – puro – un piacere che per molto tempo e fino a quel momento era stato considerato come necessariamente legato a un piacere o all’ideologia.

 

 

 

‘Amo i Caffé perché sono spazi complessi. Quando sono in un Caffé, sono completamente assorbito da coloro che siedono allo stesso tavolo con me, sono tutt’orecchi nell’ascoltare ciò che dicono, e allo stesso tempo, come in un testo, come in una stereofonia, c’è un campo di diversità tutt’attorno a me, gente che entra, che se ne va; che fa scattare qualcosa di romanzesco’.

Già nel 1957, comunque, Barthes aveva dato prova di sé e di questa eleganza dialettica con la descrizione della ‘Nouvelle Citroën Déesse’, l’automobile ‘caduta dal cielo’, ‘l’oggetto magico’ destinato a portare ‘dovunque’ il generale Charles De Gaulle – l’uomo che più di ogni altro impersonificava la ‘Grandeur’, l’orgoglio stesso della nazione francese.

‘Credo che oggi l’automobile sia l’equivalente abbastanza esatto delle grandi cattedrali gotiche: voglio dire una grande creazione d’epoca, concepita appassionatamente da artisti ignoti, consumata nella sua immagine, se non, nel suo uso, da tutto un popolo che si appropria con essa di un oggetto perfettamente magico. La nuova Citroën cade manifestamente dal cielo nella misura in cui si presenta da principio come un oggetto superlativo … La Déesse ha tutti i caratteri (almeno il pubblico sta cominciando ad attribuirglieli unanimemente) di uno di quegli oggetti discesi da un altro universo … È per questo che in lei più che la sostanza interessano le giunture. Si sa che la levigatezza è sempre un attributo della perfezione perché il suo contrario tradisce un’operazione tecnica e tutta umana di connessione: la tunica di Cristo era senza cuciture, come le aeronavi della fantascienza sono di un metallo senza saldature … Quanto alla materia in sé, è certo che essa risponde a un gusto della leggerezza … Così i vetri non sono finestre, aperture tagliate nel guscio oscuro, sono grandi pannelli d’aria e di vuoto, con la bombatura distesa e brillante delle bolle di sapone … Si tratta perciò di un’arte umanizzata, e può darsi che la Déesse segni un cambiamento nella mitologia automobile. Fino a ieri la macchina superlativa dipendeva di più dal bestiario della potenza; ora diventa più spirituale e più oggettiva … il cruscotto somiglia più a una cucina moderna che alla centrale di un’officina: le lamelle sottili di lamiera opaca, ondulata, le levette coi pomelli bianchi, i quadranti molto semplici, la stessa discrezione delle parti nichelate, tutto questo significa una sorta di controllo esercitato sul movimento, concepito ormai come confort più che come prestazione … ‘

Nel corso della sua carriera, Barthes dipinge, si diverte con i colori – si interessa molto anche al cinema, e ne diviene critico molto affermato. La sua passione per il cinema non supera mai, comunque, quella per la fotografia. In Italia ha rapporti con Pier Paolo Pasolini, Franco Fortini, Umberto Eco. Michelangelo Antonioni.

‘La vostra attenzione come artista è un’attenzione amorosa, un’attenzione di desiderio’ [Roland Barthes a Michelangelo Antonioni, in una lettera]

‘Perché pensate che l’erotismo sia così prepotente, oggi, nella nostra letteratura, nelle rappresentazioni a teatro, dappertutto? E’ un sintomo del male emotivo del nostro tempo. Ma la nostra preoccupazione nei confronti di ciò che è erotico non diventerebbe ossessione, se Eros fosse sano – se noi rimanessimo nella nostra dimensione umana. Ma Eros è malato; il genere umano non sta bene, qualcosa lo preoccupa. E ogni qual volta qualcosa lo preoccupa, il genere umano reagisce, ma reagisce male, solo con l’impulso erotico stesso; ed è infelice’. [Michelangelo Antonioni a Cannes]

 

‘Solo il grande schermo può rendere piena giustizia alla ‘messa in scena’ di Antonioni. Il punto focale messo sulle pale di un ventilatore elettrico, che ruotano, all’alba; una macchina con un corpo all’interno, recuperata da un fiume. Un lampione al tramonto, una coppia su un sofà. E ancora, persino il nostro essere tratti in inganno può giocare un ruolo nella dinamica generale: personaggi che ricordano vagamente Piero e Vittoria, nel film di Antonioni, passano per l’incrocio dove loro due non riescono a vedersi, a incontrarsi, stuzzicandoci con le possibilità. La vigilia del desiderio, che diventa non solo quella dei personaggi ma anche la nostra, rimane insoddisfatta’.

Nel 1976, Barthes riceve la cattedra di semiologia al Collège de France. Nel 1978 muore sua madre Henriette: avevano vissuto assieme per sessant’anni.

La perdita della madre Henriette è un dramma insuperabile per Barthes: ‘Camera Chiara‘ è in parte fatto di riflessioni sulla fotografia, una sua grande passione (per quanto non da fotografo), e in parte una meditazione su una particolare foto della madre, che lui ritrova sistemando le sue cose. Dopo una profonda crisi (Barthes scrive ciò che sarà poi raccolto in ‘Dove lei non è’), pur non riuscendo mai ad accettare l’idea della perdita della madre ( ‘lutto totale, non razionalizzabile’), si riavvicina lentamente alla mondanità e riprende a lavorare e a insegnare a Parigi. Inizia a preparare l’idea di un romanzo e ne parla con i suoi studenti: i suoi dialoghi e le sue lezioni sono raccolti in ‘La preparazione del Romanzo’, nel quale cita Dante, ‘Nel mezzo del cammin di nostra vita‘ – e il pensiero del romanzo su cui intende lavorare è per Roland Barthes‘una rinascita, una seconda vita‘. L’idea lo entusiasma.

 

Non riesce purtroppo a concretizzarla. Il 25 febbraio 1980, dopo aver pranzato con Francois Mitterrand (futuro presidente della Repubblica), mentre attraversa la strada viene investito da un furgoncino: già cagionevole di salute e debole a causa della tubercolosi giovanile, muore un mese dopo, il 26 marzo, a sessantacinque anni, per le ferite riportate e il trauma toracico.

Ci lascia le sue opere, alcune delle quali postume.

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La Camera Chiara (‘La Chambre Claire’ – ‘Camera Lucida’)

‘…Così, solo nell’appartamento nel quale era morta da poco, io andavo guardando alla luce della lampada, una per una, quelle foto di mia madre, risalendo a poco a poco il tempo con lei, cercando la verità del volto che avevo amato. E finalmente la scoprii. Era una foto molto vecchia. Cartonata, con gli angoli smangiucchiati, d’un colore seppia smorto, essa mostrava solo due bambini in piedi, che facevano gruppo, all’estremità di un ponticello di legno di un Giardino d’Inverno col tetto a vetri. Mia madre aveva allora (1898) cinque anni, suo fratello sette … Osservai la bambina e finalmente ritrovai mia madre. La luminosità del suo viso, la posizione delle sue mani, il posto che essa aveva docilmente occupato senza mostrarsi e senza nascondersi, la sua espressione infine, che la distingueva … ‘

È una delle pagine più intense di ‘Camera chiara. Nota sulla fotografia’ (‘La Chambre Claire’, Paris 1980), che Roland Barthes scrisse pochi mesi prima di morire (1980). Un saggio che ha lasciato un segno decisivo nella riflessione contemporanea sulla fotografia.

La Camera chiara si inserisce in una fase in cui la tentazione di scrivere un romanzo si fa sempre più pressante nell’anima di Barthes, alla luce di quel ‘piacere del testo’ che per sua esplicita dichiarazione è stata sempre la sua ‘ossessione’. Barthes aveva già parlato di questo, nel 1973, con la stesura del saggio ‘Le plaisir du texte‘ in cui rivendica il piacere puro del testo e quindi l’autonomia di valore della ‘écriture‘ , della scrittura – di fronte all’indifferenza della scienza e a chi giudica il valore di una pagina dalla conformità ad una ideologia. Un secondo passo importante in questa direzione, poi, con i ‘Fragments d’un discours amoureux‘, pubblicati nel 1977, in cui fa capolino ancora una volta il tema della solitudine e dell’angoscia dell’assenza, che è, per Barthes, ‘una forma di continua morte’.

‘… L’essenza della presenza è l’assenza …’

‘… Esiste per me un «valore superiore»: il mio amore. Io non mi dico mai: «A che pro?» Non sono nichilista. Non mi chiedo mai qual è il fine. Nel mio discorso monotono non vi sono mai dei «perché»; ce n’è uno soltanto, sempre lo stesso: ma perché tu non mi ami? Come si può non amare questo io che l’amore rende perfetto (che dà tanto, che rende felice)? Domanda la cui insistenza sopravvive all’avventura amorosa: «Perché non mi hai amato? »; o anche: «O, dimmi, dilettissimo amore del mio cuore, perché mi hai abbandonato?”’ [‘Frammenti di un discorso amoroso’]

Intervistato da Radio Canada sulla genesi di questi ‘Fragments’, Roland Barthes in qualche modo si confessa, anticipando alcuni temi che saranno presenti due anni dopo nella Camera Chiara:


‘Come si può vivere la solitudine? Direi che è il problema essenziale del libro, nel senso che è il problema che lo lega al nostro tempo. Dopo tutto, questo libro non è a caso, gratuito. Mi è sembrato che il soggetto che si lasci andare al sentimento dell’amour-passion, o che sia posseduto da esso, si sentisse profondamente solo nel mondo attuale; per una ragione storica: il mondo attuale vive male l’amour-passion, stenta a riconoscerlo. Certo, l’amour-passion fa parte di una certa cultura, della cultura popolare, in forma di film, di romanzi, di canzoni, ma nella classe intellettuale cui appartengo, che è il mio ambiente naturale, l’amour-passion non è affatto all’ordine del giorno della riflessione teorica, delle dispute dell’intellighenzia. Così, per un intellettuale d’oggi essere innamorato significa veramente piombare nell’ultima solitudine’.

Barthes omosessuale? Nel 1942, per far tacere le chiacchiere che lo vogliono innamorato della moglie del direttore del sanatorio nel quale è ricoverato, dice a qualcuno di essere omosessuale. Dell’omosessualità, Roland Barthes descrive molto esplicitamente i tratti in un libro pubblicato postumo, oggi ritenuto un ‘coming out’ che parla della sua sessualità – ma un libro completamente estraneo alla cultura gay dei nostri giorni.

Forse quindi: Barthes omosessuale a causa del suo rapporto estremamente difficile con le donne, del suo essere introverso, solitario – dei lunghi ricoveri e dei problemi di salute, dell’amore mai realizzatosi nel sanatorio o non realizzatosi completamente e come lui voleva – in particolare, quindi, a causa della mancanza di una figura maschile nella sua infanzia e a causa della madre?

“ … la mano nel suo giusto grado d’apertura, nella sua densità d’abbandono …”

Di nuovo: ‘Camera Chiara’, che nasce forse come un tentativo di spiegare il significato unico che la ritrovata foto di Henriette Barthes bambina, all’interno di un giardino d’inverno, aveva per Roland.

L’interesse di Roland Barthes per la fotografia si manifesta nel corso di tutta la sua carriera – in particolare, l’interesse per il potenziale che la fotografia ha rispetto a tutti gli altri mezzi dell’epoca: quello di comunicare gli eventi.

Molti dei suoi articoli sui miti vertono sulla dimostrazione del come un’immagine fotografica possa rappresentare significati intrinseci, e su come possa quindi venir usata dalla cultura borghese per sottintendere ‘realtà naturali’, ‘ovvie’, che in realtà ovvie e naturali non sono – ma Barthes considerava comunque la fotografia come l’unico mezzo capace di mostrare una rappresentazione completamente reale del mondo. Non perché la fotografia sia sempre realtà – essa non lo è, a causa della sua stessa natura e dell’azione del fotografo che sceglie che cosa inquadrare  – ma perché nell’istante in cui è stata scattata, rappresenta effettivamente una realtà che è durata solo per lo spazio di quel momento, trasmettendo quindi un evento; e questo è per Barthes il focus, il noema (il ‘pensiero’, il ‘concetto’ – opposto alla sensazione), la natura stessa della fotografia.

‘La fotografia, in particolare i ritratti, è una specie di magia per me, non un’arte … Sono troppo impaziente, per poter essere un fotografo … il mio fotografo preferito? Nadar. Ma Nadar non ha ritratto mia madre …’.

‘Un giorno, molto tempo fa, mi capitò sottomano una fotografia dell’ultimo fratello di Napoleone, Girolamo. In quel momento, con uno stupore che da allora non ho mai potuto ridurre, mi dissi: ‘Sto vedendo gli occhi che hanno visto l’Imperatore’. A volte mi capitava di parlare di quello stupore, ma siccome nessuno sembrava condividerlo, e neppure comprenderlo (la vita è fatta di piccole solitudini), lo dimenticai. Il mio interesse per la Fotografia assunse così una coloritura culturale’. 

‘… La fase dello specchio: ‘tu sei quello …’

La sua passione per l’interpretazione dello scritto, dell’immagine, e il suo studio dei i simboli lo portano poi a riflettere sulla relazione fra l’ ovvio che è contenuto in una foto (la costruzione, il contesto), che viene creato dall’ Operator (dal fotografo) e che lui chiama ‘studio della foto, contesto’ – Studium  – e ciò che invece è puramente personale, individuale, diverso da ciascuno a ciascuno fra coloro che guardano. Quel qualcosa che trasforma ‘ una foto’ in ‘ la foto’ per lo Spectator : per chi guarda. Quel ‘qualcosa‘, nella foto, punge chi la guarda, improvvisamente: Barthes lo chiama ‘ Punctum ‘.

‘… Ciò che io provo per queste fotografie di Reportage procede da un effetto medio, quasi un addestramento. Io non riuscivo a trovare, in francese, una parola che semplicemente esprimesse quella specie di interesse umano; ma in latino, credo, questa parola esiste: è Studium, che non significa, per lo meno in prima accezione, lo ‘studio’, bensì l’applicazione a una cosa, il gusto per qualcuno, una sorta di interessamento, sollecito, certo, ma senza particolare intensità.

La sfera dello Studium, la sua natura, lo identificano con ‘la vastissima sfera del desiderio non curante, dell’interesse diverso, del gusto incoerente … Appartiene all’ordine del ‘to like’, e non del ‘to love’; esso mobilita un semi-desiderio, un semi-volere; è lo stesso genere di interesse svagato, piano, irresponsabile che mostriamo per certe persone, certi spettacoli, certi vestiti, certi libri, che definiamo ‘buoni’. Riconoscere lo Studium davanti ad una fotografia significa fatalmente coincidere con le intenzioni del fotografo, entrare in armonia con esse, approvarle, disapprovarle, ma sempre capire, discuterle dentro di me, poiché la cultura (da cui deriva lo Studium) è un contratto stipulato tra il creatore (il fotografo, l’Operator) e il consumatore (lo Spectator’): è un po’ come se io dovessi leggere nella Fotografia i miti del Fotografo, fraternizzando con loro, senza crederci completamente’.  

‘… Stavo sfogliando una rivista illustrata. Una fotografia attirò la mia attenzione. Niente di veramente straordinario: la banalità (fotografica) di una rivolta in Nicaragua…”.

… il lenzuolo portato dalla madre in lacrime (perché quel lenzuolo?) …

‘… Capii subito che l’‘avventura’ di quella foto era dovuta alla co-presenza di due elementi…’

‘In questo spazio … io sono talvolta attratto (ma, ahimé, raramente) da un ‘particolare’. Io sento che la sua sola presenza modifica la mia lettura, che quella che sto guardando è una nuova foto, contrassegnata ai miei occhi da un valore superiore. Questo ‘particolare’ è il Punctum (ciò che mi punge).

‘Un dettaglio viene a sconvolgere tutta la mia lettura; è un mutamento vivo del mio interesse, una folgorazione. A causa dell’impronta di qualcosa , la foto non è più una foto qualunque  … il gesto che s’impadronisce delle foto ‘sensate’ è un gesto pigro (sfogliare, guardare in fretta e svogliatamente, indugiare e affrettarsi); la lettura del Punctum (della foto puntata, se così si può dire) è invece spedita e attiva insieme …’

‘… Non è possibile fissare una regola … tutto ciò che si può dire è che si tratta di una co-presenza: quando Wessing ha fotografato i soldati nicaraguensi, le suore ‘erano là’, si trovavano a passare là in fondo; dal punto di vista della realtà (che è forse quella dell’ Operator – del fotografo), tutta una causalità spiega la presenza del ‘particolare’: la Chiesa è presente in tutti quei paesi dell’America Latina, le suore sono delle infermiere, come tali hanno il permesso di circolare, ecc. ; ma dal mio punto di vista di Spectator – di chi guarda – il particolare viene fornito per caso e senza scopo. Dunque, per cogliere il Punctum , nessuna analisi mi sarebbe utile (ma forse … mi sarà utile il ricordo): basta che l’immagine sia sufficientemente grande, che io non debba scrutarla (ciò non mi servirebbe a nulla), che, messa in prima pagina, io la riceva in pieno’.

In fondo – o al limite – per vedere bene una fotografia è meglio alzare la testa o chiudere gli occhi. ‘La condizione preliminare per l’immagine è la vista’, diceva Janouch a Kafka. E Kafka sorrideva e rispondeva: ‘Si fotografano delle cose per allontanarle dalla propria mente. Le mie storie sono un modo di chiudere gli occhi’. La fotografia dev’essere silenziosa (vi sono foto roboanti, che io non amo): non è una questione di ‘discrezione’, ma di musica … la foto mi colpisce se io la tolgo dal solito bla-bla: ‘Tecnica’, ‘Realtà’, ‘Reportage’ … non dire niente, chiudere gli occhi, lasciare che il particolare risalga da solo …’

‘… Mapplethorpe ha fotografato Bob Wilson e Phil Glass. Bob Wilson mi attrae, ma non so spiegare perché … Forse lo sguardo, la posizione delle mani, le scarpe da tennis? … Niente di strano che l’effetto si manifesti in un secondo tempo …’

‘…Le scarpe con il cinturino. James Van der Zee fotografa una famiglia negra americana, nel 1926 …’

‘… Riconosco, con tutto me stesso, i borghi che ho attraversato in occasione di passati viaggi in Ungheria e Romania …’

‘… Due bambini mongoloidi di un istituto mentale del New Jersey, nel 1924 … Io non vedo affatto le teste mostruose e i disgraziati profili (questo fa parte dello studium) … Io mi spoglio di ogni sapere, di ogni cultura … Vedo solo l’enorme colletto inamidato del bambino, il dito fasciato della ragazza …’

Barthes era preoccupato e turbato dal fatto che la distinzione fra Studium e Punctum potesse scomparire, crollasse, nel momento in cui il significato della foto viene comunicato ad altri e quindi razionalizzato attraverso la logica dei simboli – che lui ben aveva studiato; questa razionalizzazione spicciola era qualcosa che egli non accettava. Trova una personale, raffinata – come il suo pensiero – soluzione nella foto della madre nel giardino d’inverno: quella foto creava una falsa illusione del ‘cio che è‘ , mentre ‘ciò che è stato‘ sarebbe stata una descrizione molto più accurata.

La fotografia della madre bambina nel giardino d’inverno è diventata fisica di fronte ai suoi occhi, e sembra riproporre (nei limiti di vita della stampa fotografica – che invecchia, si deteriora) qualcosa che accade continuamente e che quindi esiste, è reale, ma non è vero. Henriette Barthes è morta e quindi quella foto è una testimonianza di ciò che è stato , di ciò che ha cessato di esistere . Invece di rendere più solida la realtà, quindi, ci ricorda come il mondo e le nostre vite siano in un costante e continuo cambiamento – e come qualsiasi momento fotografico cessi di esistere un momento dopo averlo vissuto .

Ma c’è comunque qualcosa di unicamente personale nella foto di Henriette, e in ciascuna foto che ci emoziona. Barthes lo vede nei tratti del volto della bambina, nei quali ritrova una certa espressione che sua madre, per tutta la vita, in certi momenti ha avuto. Qualcosa che non può essere rimosso, che è eterno, e che provoca, quindi, un’emozione. Per Barthes, nel suo contesto emotivo, un sentimento di perdita ricorrente, insuperabile.

‘… Ora so che oltre al “particolare” esiste un altro Punctum (un’altra ‘stigmate’). Questo nuovo Punctum, che non è più di forma, ma d’intensità, è il Tempo, è l’enfasi straziante del noema (‘è stato’), la sua raffigurazione pura … Nel 1865, il giovane Lewis Payne tentò di assassinare il segretario di stato americano W. H. Seward. Alexander Gardner lo fotografò nella sua cella. Egli stava aspettando la sua impiccagione. La foto è bella, il giovane anche: è lo Studium. Ma il Punctum è: sta per morire. Io leggo nello stesso tempo: questo sarà e questo è stato’ 

 

 

 

 

 

‘ … Il generale Nogi Maresuke. Nel 1912, alla notizia della morte dell’imperatore, lui e la moglie decidono di suicidarsi. La foto, in abiti da cerimonia, è scattata il giorno prima, per loro desiderio … sono morti, e stanno per morire … ‘

Roland Barthes. la fotografia ci presenta la realtà , l’attualità presente di qualcosa che è stato, che è già nel passato.

“… Per me, il Punctum sono le braccia conserte dell’altro mozzo.”

Nadar. Pietro Savorgnan di Brazzà, esploratore coloniale naturalizzato francese. 1882.

“ Ernest… E’ possibile che Ernest viva ancora oggi: ma dove? Come? Che romanzo!”

“Nessuna pulsione di potere … Avedon ha fotografato Philip Randolph, il leader del Labor americano … Sulla foto leggo un’aria di bontà. E’ così che il fotografo dà vita; se, per mancanza di talento o per disavventura, questo fallisce, il soggetto muore per sempre …”

‘Come si può avere l’aria intelligente, senza pensare a niente di intelligente? … Piet Mondrian nel suo studio … I quadri di Mondrian presentano una complessità che smentisce la loro apparente semplicità … ‘

(foto di André Kertész , Parigi 1926)

‘ … Lo sguardo fotografico ha qualcosa di paradossale che talvolta ritroviamo nella vita … Si può –guardare-, senza –vedere- … Si direbbe che la fotografia separi l’attenzione dalla percezione e che presenti solo la prima, la quale tuttavia è impossibile senza la seconda …”

 

‘Quel ragazzino povero che tiene in braccio un cagnolino appena nato e vi appoggia la sua guancia, guarda l’obiettivo con occhi tristi, gelosi, spauriti: che pensosità patetica, straziante! In effetti, egli non guarda nulla; trattiene dentro di sé il suo amore e la sua paura: ecco, lo Sguardo è questo.’

In conclusione, ‘Camera Chiara’ è quindi una riflessione sulla relazione delicata e complessa fra soggettività, significato e cultura della società, e allo stesso tempo una descrizione, a volte toccante, della profondità dell’amore di Barthes per la madre, e del suo dolore di uomo rimasto, volontariamente, da solo. Barthes chiude così le sue ‘note sulla fotografia’:

‘Osservando gli avventori di un bar, qualcuno mi ha detto giustamente: ‘Guarda come sono spenti; al giorno d’oggi, le immagini sono più vive delle persone’. Uno dei segni distintivi del nostro tempo è forse questo rovesciamento: noi viviamo conformemente a un immaginario generalizzato. Esempio estremo: provate a entrare in un locale porno di New York; non ci troverete il vizio, ma soltanto quadri viventi (da cui Mapplethorpe ha tratto lucidamente alcune sue fotografie) … un simile rovesciamento mette necessariamente in ballo la questione etica: non perché l’immagine sia immorale, irreligiosa o diabolica … ma perché, se generalizzata, essa derealizza completamente il mondo umano dei conflitti e dei desideri, mentre invece vuole illustrarlo.

Ciò che caratterizza le società cosiddette avanzate, è che oggi tali società consumano immagini e non più, come quelle del passato, credenze; esse sono dunque più liberali, meno fanatiche, ma anche più false.

Pazza o savia? La Fotografia può essere l’una o l’altra cosa … sta a me scegliere se aggiogare il suo spettacolo al codice civilizzato delle illusioni perfette, oppure se affrontare in essa il risveglio dell’intrattabile realtà.’

Roberto Srelz 

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