Belinda De Vito, nata a Trieste, è una scenografa ed artista. Si è laureata in scenografia all’Accademia di Belle Arti di Venezia; le sue prime esperienze nell’ambito teatrale sono state a fianco di Pier Paolo Bisleri. Tra le sue collaborazioni ci sono quelle con il Teatro Stabile Friuli Venezia Giulia, il Teatro Club Udine, l’ERT Friuli Venezia Giulia, il CTA Gorizia, la Centrale Fies. Ha avuto modo di lavorare anche nel cinema con Paola Comencini, Marta Maffucci, Davide Del Degan e Ivan Bormann. Inoltre, Belinda si è occupata anche di ideare gli allestimenti per eventi e video come ITS-International Talent Support, Maravee, “Sensations”, videoclip per il chitarrista Andrea Vettoretti (insieme a Davide Del Degan e Fabio Bressan – in post produzione).
Lei ha lavorato come scenografa sia per il cinema che per il teatro. Che differenza c’è nel realizzare una scenografia per il teatro o una per il cinema?
Per quanto riguarda il cinema, ho lavorato in un paio di film e in alcuni cortometraggi; nei film ho rivestito il ruolo di assistente, mentre nei cortometraggi ho realizzato delle cose come scenografa.
In questi casi si tratta, piuttosto che ricreare una scenografia completa e quindi l’intero ambiente, di andare a scegliere degli ambienti adatti ed eventualmente apportare delle modifiche. I film e i cortometraggi, ai quali ho collaborato, erano a basso budget, e perciò i miei interventi dovevano tener conto anche di questo.
La differenza fra scenografia cinematografica e teatrale sta nell’attenzione che si deve porre a ciò che si sta realizzando. Trattandosi di cinema o di video, bisogna porre maggiore attenzione al dettaglio; la cura del dettaglio e la finitura degli oggetti sono importantissime, perché capita molto spesso che debbano essere ripresi da vicino. Anche se un oggetto è ricostruito, è falso, deve essere pensato e realizzato in un certo modo – sempre con l’ottica che una ripresa ravvicinata mette in evidenza ogni dettaglio.
Nel teatro la visione avviene da lontano, quindi l’oggetto, per una scena teatrale, viene concepito in maniera diversa: la visone da lontano implica un altro tipo di approccio.
Ultimamente, a teatro, si tende preferire delle scenografie molto essenziali, piuttosto che sfarzose, come, invece, accadeva qualche anno fa…
Esatto. Questa è una cosa che dipende sicuramente dal budget; ormai poche compagnie possono permettersi intere scenografie, non tanto per il costo stesso della loro realizzazione, ma soprattutto per i costi di gestione: spostarsi con l’intera scenografia implica mezzi di trasporto di un certo tipo, montaggi, ore lavoro, quindi un certo costo.
Perciò, come mi è spesso successo negli ultimi anni, più che realizzare una scenografia completa, mi occupo di ideare gli oggetti di scena, che comunque hanno una loro importanza e possono raccontare una storia, creare una suggestione.
Le piace più realizzare scenografie o è ugualmente appagante ideare oggetti di scena?
Da scenografa vorrei poter realizzare scenografie, però mi piace molto anche il lavoro sugli oggetti di scena. Non lo vedo assolutamente come un ripiego, perché ci metto la stessa cura ed attenzione; anzi forse serve avere una dote di sintesi ancora maggiore: quando si ha a disposizione solo pochi oggetti, bisogna chiedersi cosa sia veramente essenziale per lo spettacolo; bisogna scremare fino a trovare la vera essenza. Anche se in scena ci sono tre oggetti – come spesso mi è capitato – quei tre oggetti, comunque, restano in mente al pubblico e riescono a comunicare delle sensazioni e delle emozioni in quanto giusti in quella situazione, giusti per l’interazione con l’attore o il danzatore.
Lei per lo spettacolo “Ruedis_ruote di confine”, oltre agli oggetti di scena, ha anche ideato i costumi; ciò è abbastanza insolito per uno scenografo…
Io ho studiato scenografia – mi sono laureata all’Accademia di Belle Arti di Venezia – e nel mio percorso ho studiato anche costume; poi ho lavorato come assistente costumista. A volte capita che mi chiedano di curare sia la scenografia – o gli oggetti di scena – che i costumi: c’è la necessità, da parte di alcuni registi, di avere una mente unica, che abbia un’unica visione, uno stesso stile e che riesca a seguire tutto l’aspetto visuale. Non è una cosa che faccio spesso, però a volte capita.
Qual è lo spettacolo teatrale al quale ha lavorato che le è più vicino?
“Equivoco versus Freud”: uno spettacolo che ha debuttato, un paio di anni fa, però in veste di studio, con la Compagnia Arearea. È ancora in fase embrionale: questo spettacolo di venti minuti attende di essere completato. Lavorare in questo spettacolo mi ha dato una grande gratificazione personale. Ho realizzato gli oggetti di scena e un costume per l’assolo di una danzatrice. In scena ci sono quattro elementi nel nero, nel vuoto: un tappeto centrale che viene utilizzato, non come decorazione, ma come oggetto vero e proprio e viene sfruttato in tutti i sensi: sia per il suo sopra che per il suo sotto; e altri tre elementi che, al di fuori di questo tappeto, in maniera molto pulita, molto esile, con altezze diverse, delimitano in qualche modo uno spazio, entro il quale agisce la danzatrice.
Per fare questo suo mestiere bisogna avere molta fantasia…
Sì, e sicuramente molta creatività. La particolarità di questo mestiere è saper avere visioni continuamente, saper immaginare ambientazioni, situazioni, scenari.
Lei ha avuto modo di lavorare con Giorgio Pressburger. Si ricorda qualcosa di quel periodo?
Mi sento un po’ legata a quel periodo: sono state le mie prime esperienze in campo teatrale.
Il lavoro con Pressburger l’ho fatto ancora prima di laurearmi; è stata un’esperienza estiva che mi ha dato una sorta di “imprinting”. Questa sua follia e visionarietà, sicuramente mi hanno lasciato il segno. Si trattava dello spettacolo “Una solitudine troppo rumorosa” di Hrabal, per il Mittelfest, agli inizi degli anni Novanta; era in estate, all’aperto.
È stata la mia prima esperienza nella quale mi sono occupata di realizzare l’attrezzeria di scena. Si trattava di fare mille libri finti, che non finivano mai. Dopo averli creati, sono andata sul posto, a Cividale, e mi sono occupata anche di decorare, in parte, la scenografia che era davvero suggestiva. È un ricordo che conservo in modo particolare.
Come nasce Artelier Mécano?
Atelier Mécano nasce un po’ come gioco. È un nome che io uso come una firma, per alcuni miei lavori, che non riguardano strettamente l’ambito lavorativo. È come se fosse un mondo parallelo. Come ho già detto, è nato per gioco con la collaborazione del mio compagno; realizzo oggetti buffi, improbabili, soprattutto lampade un po’ inutili.
Per alcuni anni mi sono dedicata parallelamente a questa attività e continuo a mantenere questo nome come una sorta di marchio che in realtà non esiste.
Lei da dove trae le sue ispirazioni?
Le mie ispirazioni vengono soprattutto da stimoli visivi e quindi baso tutto, o quasi, esclusivamente sulla ricerca di immagini. Quando devo impostare un lavoro teatrale, vengono fatte le prime riunioni dove ci si dicono le impressioni e il regista o il coreografo ti comunica qual è la sua visione iniziale, poi da lì io inizio a fare ricerca di immagini. Le mie suggestioni vengono tutte da lì.
Il suo periodo preferito va dagli anni Venti agli anni Trenta…
Sì, dagli anni Venti agli anni Trenta. Mi piacciono moltissimo a livello estetico e mi piace tanto la moda, soprattutto quella degli anni ’30. Ho una passione per la musica di quel periodo, tanto che – sempre insieme al mio compagno – portiamo avanti anche un nostro progetto di divulgazione con performance di musica di quell’epoca lì: jazz e swing. Le performance sono fatte con grammofoni dell’epoca e dischi originali, che collezioniamo e custodiamo gelosamente (sorride).
In questi giorni ha partecipato come Visiting Professor allo stage “Mettiamoci all’Opera” – organizzato dall’associazione culturale Opera Viva – presso il Liceo Artistico Nordio di Trieste. Com’è stato lavorare con i giovani?
È stato interessante. Avevo già fatto diverse esperienze nel campo laboratoriale e anche nella docenza, però rivolte alla scuola primaria, o meglio ero di supporto alle attività svolte dalle insegnanti attraverso le iniziative dell’Ente Regionale Teatrale con il quale collaboro da quasi dodici anni. Questa esperienza è stata diversa; inizialmente ero un po’ prevenuta, ma ho visto che i presupposti e l’interesse ci sono.
Quale messaggio spera abbiano recepito gli studenti?
Spero che abbiano recepito quello che secondo me è fondamentale: l’aspetto ludico del fare arte o del compiere un atto creativo. Il divertimento nel pensare, nel realizzare queste cose, deve assolutamente esserci, soprattutto fintanto che siamo a scuola e che possiamo permetterci di sperimentare.
Ha un sogno nel cassetto?
Il teatro un po’ mi manca. Negli anni è diventato sempre meno presente nella mia attività, per il motivo dei tagli del budget nel campo della cultura. Vorrei riuscire di nuovo a fare una cosa di una certa consistenza.
Ringrazio Belinda De Vito per la sua disponibilità.
Nadia Pastorcich © centoParole Magazine – riproduzione riservata.