Astratto concreto: Stefano Ambroset e dotART. L’intervista.

Stefano Ambroset è il fondatore e presidente di dotART. Siamo qui seduti insieme, come tante volte; parliamo. Dei punti di appartenenza, di tutte le passioni che abbiamo. Delle nostre idee. ‘punti di appartenza’. Vediamo …

A cosa appartieni? Chi sei?

Guarda, se dovessi risponderti adesso direi che sono molto tenace, che m’impegno sempre al massimo delle mie possibilità e tante volte mi chiedo perché. Per l’associazione, per le iniziative che creiamo lavoro molte ore, senza rimborsi spese, questo vuol dire che tutto è finanziato da chi partecipa e da me e quando non è gratis è un arrivare a fine mese con fatica, e non te lo dico per dire. Facciamo meglio di tantissimi altri, stiamo meglio di loro, certo, ma questo perché si fanno cose belle con persone brave e non è quello il principio generale da applicare, dire: ‘c’è chi sta peggio di noi’, pur nella consapevolezza che è così, non ti porta da nessuna parte. La semplicità, nella gente e nelle cose, la capisco bene e l’apprezzo tanto. Non ho dubbi, comunque: mi piace fare, e quindi faccio.

Perché lo fai?

Mi piace rischiare; mi piace immaginare, provare, lavorare nel mondo del virtuale inseguendo un’idea. Sperimentare. Credo di essere un uomo che ha una grande capacità di relazionarsi. Di astrarsi. E di mettersi in discussione. Non a vuoto, assolutamente no, la discussione sterile – parole dette per muovere la bocca – non m’interessa; odio chi si tira indietro, chi ti dice una cosa e dopo fa qualcosa di diverso da quello che ti ha detto. Ero a Trieste, nel 1989; ci sono nato. Nel 1989 frequentavo una scuola tecnica e avevo una certa visione delle cose, che non andava molto oltre il solito, il consueto. D’improvviso: gli Stati Uniti, a Seattle, a diciassette anni. Per scelta. Cogliendo un’opportunità e sforzandomi per poterla cogliere. La luna. Nell’ 89 essere a Seattle era come essere in Italia … adesso. Vent’anni dopo. E neanche in tutto, non in tutti gli aspetti. Forse a certe cose non ci arriveremo mai. Capisci cosa vuol dire cambiare, cosa vuol dire un’esperienza così. Ho pensato di tornare e anche di restare, negli Stati Uniti, ma: adesso no. Ho le mie ragioni, qualcosa che mi fanno dire di no; un no personale, privato, che non c’entra con il resto – con l’ammirazione, il rispetto per l’America che porto sempre dentro. Fin dai primi anni di scuola sei messo a confronto con le idee dell’altro, con le tue capacità, con il merito. L’America mi ha insegnato a scommettere sulle idee, sulle cose.

Arte e punti di appartenenza, di nuovo. Arte, soprattutto. Come mai?

Ho una grandissima considerazione per gli artisti. Enorme. Mi piace la cultura – leggere, pensare; amo la cultura dell’immagine, soprattutto. Tantissimo. Il senso dell’immagine ha cambiato la mia vita, completamente. Ho lavorato molto a lungo come grafico, sperimentando anche in quel campo; ho approfondito Photoshop e insegnato. Mi piace. Amo le forme: quando guardo una fotografia, quando creo un’immagine, cerco la forma, mi affascina. E’ un gioco. Ho una passione per la meta-picture. Adesso anche per la lomografia. Lomo è colore. È sensibilità.

Perché: ‘dotART’?

Il nome l’ha suggerito Giuliano Luis. Su un post di Facebook. Mi è piaciuto tantissimo. Un nome a tutto tondo che significa proprio quello che avevamo in mente: un nome universale, internazionale, che tutti capiscono.

Internet, Social Network. Io vivo di contatti fatti su Internet. Ho compreso Internet già negli anni Novanta, per quello che si può – Internet è talmente grande, ti resta sempre un dubbio. I Social Network li avevamo capiti già quella volta, forse li avevamo capiti addirittura troppo presto.

Adesso cerchiamo di mettere a frutto quello che abbiamo imparato e capito tempo fa, di utilizzare tutti gli strumenti che il Web ti mette a disposizione per raggiungere le persone e di portare le persone a incontrarsi e a confrontare il loro lavoro, le loro passioni con altri.

Questo è fare impresa.

Certo che lo è. Io credo che sia giusto. Il ‘fare impresa’ lo puoi vedere anche in un contesto più ampio da quello a cui siamo di solito abituati. A Trieste manca imprenditorialità vera: è una città ancora paralizzata, che si dà degli scossoni ma che tende a soffocare poi quegli stessi scossoni in nuovo immobilismo, in una specie di malta che avvolge e ferma tutto. Io non sono così; in questo immobilismo, sono incapace di smettere di muovermi.  Eppure è la mia città e voglio provare a fare qui , quando mi sentirò sicuro di rappresentare un’idea che non sia solo la mia, quando avremo cinquecento persone, cinquecento artisti o aspiranti artisti con noi. Ma: non solo qui . Questa è la differenza. A Trieste bisogna fare di più, si può. Cerco di essere a modo mio per gli altri quel mecenate che non trovo e allo stesso tempo di non soffocare nella mancanza di risorse. Non è facile. Ci muoviamo molto sul territorio cittadino, per le nostre attività: ospiti dei locali che fanno apertura la sera, di quei caffé serali o notturni nei quali si riuniscono gli studenti, di solito. Mecenatismo qui non ce n’è, non esiste il mecenatismo da noi, ciascuno guarda il proprio guadagno. Qualcuno è più gentile, più disponibile e capisce un poco di più che cos’è l’immagine e che cos’è la cultura; ma mai mecenati, no. Forse un giorno, chissà. Mai dire mai.

Guardi lontano, allora. Prendi le cose che hai vicino a te e le proietti in un mondo distante. Visionario.

Non è distante, è qui. E come visione ne ho una grande: vedo una mostra dotART a New York. Per farti capire che la vedo, questa mostra, in città così come New York, in quei posti e con quella gente. Negli States, in Australia, in Russia … una mostra universale. dotART va all’estero ogni anno, vogliamo andarci e vogliamo che gli artisti vengano con noi, da noi. E per realizzare questa visione c’è una missione da compiere, naturalmente: aggregare. Far parlare. Mettere assieme chi è emergente. È una forte motivazione, qualcosa che ti guida al cambiamento e alla crescita: dotART è nata da poco, il primo anno aveva centottanta soci, ora ne ha duecentodieci, e qualcuno, come sempre succede se n’è andato. Certo, su questo dobbiamo lavorare, dobbiamo migliorare tante cose, è naturale; però non mi sembra per niente male, c’è già chi è invidioso e si mette di traverso, si parla addosso e ti parla addosso, che brutta cosa. Ma è così, è naturale che succeda. Noi andiamo avanti. Si può sognare, no? I sogni si avverano qualche volta, nessuno può portarteli via.

Sei un sognatore, quindi.

Certo che sono un sognatore. Il mio sogno? Il mio sogno è fare questo: fare dotART. Con tutte le cose belle che porta e anche tutte quelle brutte, tutte le giornate perse e lo stress. Andando sempre avanti; guardando alle cose concrete.

Carrello
Torna in alto