Ieri sera, al Teatro Miela di Trieste, è andato in scena Andy Warhol Superstar. Lo spettacolo, ideato e scritto da Laura Sicignano in collaborazione con Alessandra Vannucci, ripercorre la vita del grande artista, puntando i riflettori sulla sua sfera pubblica, fatta di grandi feste ed eccessi, ed indagando le pieghe più intime del suo privato. In un monologo folle e frenetico com’è stata la vita di Warhol, la magnifica Irene Serini è riuscita a cogliere l’essenza del maestro della Pop Art e a raccontarla al pubblico, mettendo ben in luce tutte le contraddizioni e le fragilità di un personaggio che, a distanza di trent’anni dalla sua morte, è ancora chiacchierato. Di volta in volta osannato e criticato, Warhol è stato definito un genio e un bluff. Che fosse l’uno o l’altro oppure entrambi, gli va riconosciuto il merito di aver saputo cogliere precocemente i tratti distintivi della società dell’effimero e del consumismo di cui faceva parte.
«Nel futuro ognuno sarà famoso per 15 minuti» – scrisse nel 1968, profetizzando il destino della società contemporanea.
Andy Warhol Superstar comincia dalla fine e cioè dalla morte dell’artista – che tanto voleva essere immortale – avvenuta in seguito ad una banale operazione alla cistifellea. Irene Serini ci racconta il maestro della Pop Art; ora impersonandolo, ora narrandolo dall’esterno; celebrandolo sugli altari; descrivendo agli spettatori stralci della vita eccentrica di un ragazzo povero, figlio di immigrati, legatissimo alla madre, innamorato dei soldi, con il parrucchino bianco sempre in testa. Ci conduce con la mente nella sua Factory tra consumo, droga, denaro, trasgressione, moda. Ci presenta i suoi compagni di viaggio, le meteore che gli hanno tenuto compagnia prima di sprofondare nell’autodistruzione. C’è Edie Sedwick, l’ereditiera anoressica e musa di Warhol, morta suicida nella sua indifferenza; Freddi Herdko, gettatosi dalla finestra durante una performance; i Velvet Underground che ci vengono descritti sulle note di Sunday Morning; e Brigid, l’amica di sempre che lo ossessionava con telefonate interminabili sui temi più sciocchi. Sono tutti palloncini d’argento, comparse destinate all’effimero. Proprio come Valerie Solanas, un’attivista femminista omosessuale, che attentò alla vita di Warhol, irrompendo nella sua Factory e sparandogli al petto.
La notizia venne offuscata dalla morte di Kennedy, avvenuta solo due giorni dopo. Warhol sopravvisse, ma non fu più lo stesso. Terrorizzato dalla morte, ossessionato dall’idea di dover lasciare un segno del suo passaggio su questa terra, cominciò a creare le sue 612 Time Capsules – scatole sigillate, contenenti inutili frammenti di vita dell’artista, che egli lascerà al mondo con la disposizione che vengano aperte a trent’anni di distanza. Al loro interno sono state ritrovate ricevute di pagamento del taxi, riviste, inviti a cena, lettere dei fan. Niente che permetta di ricostruire davvero l’immagine intima dell’artista.
Quando la musica si spegne, a segnalare che la festa è finita, e gli ospiti se ne vanno tutti a casa, quello che rimane è un Warhol che nessuno conosceva e che Irene Serini ci svela piano piano in tutta la sua umanità, impersonando la madre dell’artista, anch’essa chiusa in una time capsule. Le parole di quest’ultima ci raccontano il mondo di Andrew Warhola, un ragazzo brufoloso e calvo, dalla salute cagionevole, ossessionato dalla fede cattolica e dal mito del sogno americano.
Giulia Zorat – centoParole Magazine
ANDY WARHOL SUPERSTAR
ideazione e regia Laura Sicignano
testo di Laura Sicignano e Alessandra Vannucci
scene Emanuele Conte
con Irene Serini
luci video e suono di Luca Serra
costumi di Daniela De Blasio
coproduzione Teatro della Tosse – Fondazione Luzzati/Teatro Cargo
con il patrocinio del console generale degli Stati Uniti d’America