Davide Skerlj

I Tre Nomi del Gatto: Davide Skerlj

[di Roberto Srelz]

Volevo chiederti della tua esperienza.

Su cosa? Ho fatto l’Accademia di Belle Arti a Venezia, mi sono diplomato nel 1986, in pittura …

Quindi hai scelto la pittura, e poi hai continuato su quel percorso …

Si. Sono andato avanti con la pittura, poi sono andato a New York. A New York ho seguito corsi di video produzione, che m’interessavano molto. Inquadratura, scena, ripresa.

 

 

Per quanti anni sei rimasto negli Stati Uniti?

Dal 1990 al 2000. Non è stata una cosa continua. Sei mesi qua, sei mesi là; un anno qua, un anno là … alternavo.

Quindi video e inquadratura.

Si video e inquadratura. Però, in campo artistico, io faccio molte installazioni e sculture. Video e inquadratura sono la base, quindi; dopo ti succede, vivendo negli Stati Uniti – o anche in altre nazioni, adesso, con questa realtà globale – lavorando molto sui linguaggi artistici ti sono richieste conoscenze a tutto campo. Fotografia, video. Su quelle conoscenze vai poi a creare dei progetti. Neanch’io conosco poi più di tanto a fondo le materie che vado ad affrontare, forse. Ho delle idee, poi cerco di realizzarle coinvolgendo collaboratori.

Questo quando inizi a lavorare su un tuo progetto.

Si. Per le sculture, ad esempio. Un giorno mi era venuta l’idea di allagare una galleria, completamente, mettendoci un metro d’acqua. Il gallerista mi ha detto no, perché saremmo andati incontro a grossi problemi. Non tanto di realizzazione tecnica – io stesso, poi, ho cercato un ingegnere idraulico per parlarne – ma di visibilità, comprensione. Quando ti metti veramente a lavorare su un progetto vai incontro a queste cose.

Avevi scelto l’Accademia di Venezia per una tua passione personale?

Un po’ così. Si. Ne avevo la possibilità, il tempo, allora mi sono detto: potrei provare a vedere se ne nasce qualcosa. Nel senso … te la metto anche in questo modo qui: a Venezia, essendo la città molto attenta alla cultura, essendo permeata da essa, molte persone studiano arte. E’ un centro museale importantissimo. E a Venezia, anche nel tuo piccolo, anche se tu non sei partecipe consapevolmente alle sue iniziative culturali, all’arte, è la città stessa a farti respirare quell’aria. Così come a Firenze. Ci sono tanti artisti che vivono a Venezia, e non hanno mai fatto né Accademia né studi d’arte, eppure. E allora, com’è possibile? Perché è la città stessa a guidare la tua sensibilità, se ne hai, verso l’arte. La città te lo permette. A Trieste, che è anch’essa ricca ma un po’ , da questo punto di vista, un cul de sac, ogni tanto sei proprio fuori dal giro. Allora ho pensato, cercando di essere coerente con le cose che m’interessavano, che se dovevo fare un’Accademia avrei avuto bisogno di trovarmi fra persone che la pensavano come me, che sentivano le cose come le sento io. E a Venezia vivevo quasi in una condizione di arte collettiva, in una situazione di collettività artistica. Non ero ‘il solo’. Non condividevo la mia solitudine, ma il mio percepire collettivo. In mezzo a chi s’interessava di foto e mi mostrava le sue fotografie, a chi mi parlava di video, del suo ultimo film … che mi spiegava come un tipo d’inquadratura fosse migliore per rappresentare un soggetto intento a un’azione piuttosto che un’altra inquadratura. C’era possibilità di convidivere.

E questo accadeva perché c’era l’Accademia, e l’Accademia stimolava la città?

No, penso fosse proprio Venezia. Il contrario, quindi. Era l’ambiente. Che ti faceva sviluppare la tua sensibilità verso l’arte e che rendeva l’Accademia così ricca di opportunità. Il contesto. Anche nel piccolo. Un giorno ho sentito un’intervista a un artista veneziano e aveva detto una cosa giusta: ‘Io che sono nato a Venezia … tutti mi hanno sempre chiesto: dove hai fatto la tua esperienza? E tutti hanno poi sempre scritto che ero un autodidatta. E ogni volta, io ho detto poi loro: non sono affatto autodidatta. Ero a Venezia. E ogni giorno vivevo la città e la sua arte, e ogni volta che lo desideravo potevo andare in Accademia a seguire i corsi liberi, senza esservi iscritto. Ogni giorno potevo andare a vedere la Biennale. Era la città: metteva cultura dentro di te’. I giornalisti, quando sentivano che lui non aveva un diploma, che non aveva il pezzo di carta, allora scrivevano che era ‘autodidatta’. Ma non era proprio così. Ora, nell’epoca nostra, il pezzo di carta ti è richiesto.

Una volta stavo preparando un video, a New York. In quegli ambienti, incontravamo anche Tarantino. Un tipo come lui non aveva bisogno di studiare: era in una città che per il suo stesso contesto di esistenza e per numero di interessi che potevi coltivarvi, ti istruiva – solo per il fatto stesso di esistere. Chi è diventato ‘blockbuster’, nel cinema statunitense, non ha necessità di iscriversi all’Accademia di Arte Drammatica di New York e frequentarla. La città stessa ti dà centomila spunti e opzioni su come fare un film. Le informazioni; sono le informazioni.

 

L’esperienza di Venezia, in quegli anni, era stata positiva, comunque?

Mah, potrei dire che è stata abbastanza vivace, ecco. Un senso di vivacità. Forse era la città più rappresentativa in tutta Italia, in quel momento. Una, due volte l’anno era al centro di tutto – o per il Festival del Cinema, o per la Biennale, o mostre e retrospettive … una parte del mondo, culturalmente, girava là. Anche una piccola parte. Ma una parte. Una cosa chiama l’altra: ‘Ah, m’interessa, vengo!’ – ecco, sono queste cose qui.

E poi New York. Per caso, o per scelta?

Studiare all’estero e vivere un’esperienza lontano dall’Italia era una cosa che volevo fare da sempre. Prima ero stato a Berlino.

Ti ci eri trovato bene?

Si. Una città a misura d’uomo.

Anche New York?

Si. Più dinamica, più industriale. Molto europea comunque. Ci sono alcune città che hanno queste caratteristiche.

Com’era vivere a New York?

Molto caotico. Molto. Divertente. Tanto.

Come nei film?

Come nei film. Ci sono tutt’e due le realtà … diversa dai film, e anche tale e quale ai film. Hai entrambe le possibilità, dipende da come vuoi viverla tu. Nel senso che: più che una città, New York è una cosa a sé. Ha una sua identità, una sua anima, non è solo una città. Tu dici: ‘New York, dieci milioni di abitanti’. Un controllo sociale molto forte. Una forte base creativa. Forse è proprio questo controllo sociale fortissimo a scatenare una reazione, a sprigionare creatività. Da tutte le parti. A non finire, talmente tanta da restare inespressa, a volte. New York è una città che ha la capacità di ragionare sulle cose importanti dell’alternativo. Sono stato anche a Londra, e, la’, ne ho vista meno, di questa capacità. Mi sono stupito di come riescano a ragionare sull’alternativo, a New York.

Finita l’Accademia, quando ti sei trovato a New York, che cos’hai fatto?

Mio cugino mi ha detto: ‘Vieni a casa mia, mi aiuti a casa’. E’ stato un po’ così. Stavo da lui, o stavo da amici. Poi ho conosciuto un po’ uno, un po’ l’altro. Poi mi sono spostato in Florida, per qualche tempo, a lavorare. Poi per un gallerista … ho fatto scenografie, allestimenti d’appartamenti anche … così. Qualcosa di più artistico, qualcosa meno, questi lavoretti qui. Mostre.

E quando ti veniva l’idea per un progetto, come la portavi avanti? Ti viene di colpo, l’idea per un progetto, o nasce da un tuo studio?

Come possiamo dire. Non da uno studio, no. Sono là, lavoro su qualcosa, e mi viene un’idea: ‘mi piace questo’. E poi vedo che cosa posso ricavarne, da quell’idea. Vado a fiuto, fiuto gli odori – non so se è il termine giusto.

Studio poco l’idea, la devo sentire. Sensazioni.

 

E dopo come trasformi queste sensazioni in progetto?

Ah come le trasformo in progetto? Buona idea. Dopo, quando ho sentito qualcosa, incomincio a pensare. A tutte le realtà possibili, a tutte le possibilità di realizzazione praticabili. Tutte le opzioni. Poi vado verso quelle più consone alla mia natura. Non so, ti dò un’esempio: per anni mi sono interessato ai lavori con l’acqua. Esperimenti. Prendevo i bicchieri e ne travasavo il contenuto. Dopo, sapendo che c’erano già degli artisti che lavoravano su progetti con l’acqua, avevo iniziato ricerche più approfondite e mi ero documentato. Così mi ero messo in contatto con gli artisti che avevano provato allagamenti, installazioni di quel tipo … imparando che, per controllare il flusso dell’acqua, l’allagamento, utilizzavano la vaselina. E ritorno all’esempio che ti avevo fatto, su Venezia: inconscio collettivo. Ti viene in mente un’idea e ci sono già almeno duecento persone che ci hanno pensato e hanno provato a farlo. Documentarsi; questo è importante. Non partire da solo. Pensa, informati, documenta quello che pensi e quello che fai. Nel momento in cui vivi in una collettività, entrerai in contatto con persone che stanno facendo proprio quello che a te interessa e loro saranno interessate proprio a quello che stai facendo tu.

Documenta e condividi.

Documentati sempre. Almeno un poco. Non essere ignorante. Se a me piace l’idea dell’acqua, la travaso da un bicchiere, e me ne ritrovo una goccia sul tavolo … quella goccia sono io, è il mio pensiero, se resta da solo. E invece se parlo, se leggo, se mi muovo, incontro degli artisti che da quarant’anni stanno lavorando proprio su quell’acqua. Che hanno sviluppato i loro progetti sull’acqua fino alla massima variazione, al massimo livello. Che hanno delle motivazioni anche più forti delle tue, che vogliono arrivare più lontano. Loro, quando li incontri, ti dicono: ‘Si, m’interessa che tu abbia lavorato sull’acqua, mi fa piacere; vorrei vedere anche come hai risolto’.

Su cosa avevi incentrato, la tua tesi, all’Accademia?

Io? Ma. Diciamo che c’era stata confusione. Forte. Non andavo mai d’accordo con il mio professore. A lui non piacevano le mie idee sulla tesi, così era diventata una specie di lotteria, ogni volta che lo vedevo gli buttavo là una proposta: ‘Ti va bene questa? E questa? Questa no?’ – fin che un certo punto mi ha detto: ‘Questa mi può interessare.’

La simbologia della morte nel Medioevo. Ovvero come la Chiesa controllava la massa attraverso il simbolo rappresentato dalla morte. Includendo anche il tema delle danze macabre, la dicotomia fra potere religioso e potere temporale. E il perché si utilizzavano quelle figure simboliche.

Molto bella, molto interessante.

Si. Alla fine, era venuta fuori proprio così, come idea. Lotteria. Volevo fare una tesi su Caravaggio, e altre cose. ‘No, no, no’. In Accademia si aggiornano molto sul mondo artistico, lui sapeva che ero triestino. Una regione di confine: Austria, Slovenia, i Balcani. Una terra con una tradizione culturale molto forte anche nell’ambito della Chiesa Protestante. In Austria, in Carinzia. ‘Voi avete forti radici protestanti, vai a documentarti, cerca di capire chi ha trattato quel tema e di svilupparlo.’ Le danze macabre di Hrastovlje; poi hai quelle di Pisino. Andavo a visitare le chiese – alcune bellissime, una vicina a Capodistria, all’interno di una fortezza utilizzata per difendersi dai Turchi. Andavo a cercare la documentazione sui lavori, su chi li aveva fatti. Tanti scheletri. A ciascuno degli scheletri corrispondeva, nella rappresentazione, una figura che aveva un peso sociale: il Papa, il Vescovo, l’Imperatore. Il bambino. Davanti alla morte, è quello che sei: niente. Hai bisogno, allora, della Redenzione.

Vivi della tua arte?

Ah, torno al progetto allora. Allora, ti dico: io vivo facendo l’insegnante. E, a volte, mi chiamano per chiedermi di realizzare un progetto. La prima cosa che mi dicono è: ‘Devi stare dentro questi soldi qui’.

Trovi dei finanziatori, qualche volta? Finanziatori che ti permettano di realizzare proprio quello che vuoi?

Ogni tanto si. Oppure capita che siano cose che funzionano attraverso l’amicizia, le conoscenze di persone che hanno interesse. Quella è la cosa più bella. Non ti danno denaro ma collaborano con te e funziona. Una volta ho realizzato un video, assieme a un amico; mi ha detto: ‘Io non ti dò soldi. Ma ti procuro il cameraman, ti procuro gli attori’. E mi ha procurato veramente tutto. Io mi sono dato da fare per parlare con gli attori, per spiegar loro quello che volevo, per preparare dei buoni storyboard.

Quando lavori in un progetto così, tutti ci guadagnano, alla fine. In termini d’esperienza, di soddisfazione. Poi se l’opera viene comprata da un museo, hai anche un compenso economico. Oppure no – e rimane puro atto creativo, che circola, e per questo non ha minor valore né è minore la soddisfazione di averlo fatto.

Quanto tempo ti richiede la realizzazione di un tuo progetto artistico?

Ma, può essere un’ora, a un anno, anche due. Dipende da cosa mi salta in testa … te la metto così, le opzioni sono due: ho idee che maturo un poco dentro di me, e le lascio maturare lì, con calma – e ho idee che seguono le richieste di altri, che mi dicono: ‘Prova a farmi questa cosa qua’. E sono due approcci completamente diversi, se qualcuno ti chiede: ‘Fammi questo’, glielo devi fare. Invece le mie idee personali le tengo in uno stato embrionale, le elaboro, le integro con degli appunti. Disegno. Anche a vuoto.

La fotografia, per te? Fotografia e pittura contrapposte?

No, no, io ho studiato pittura ma ho sempre ragionato in termini d’inquadratura. E’ questo. Un rettangolo, o un quadrato. Anche in un quadro. Chiaramente l’accelerazione della fotografia in un quadro non c’è. O il problema del colore, e della luce; l’espressione. C’è moltissima pittura, nella fotografia. In tutt’e due devi ragionare la maggior parte delle volte dentro un rettangolo. Forse per questo ho scelto il video, come forma d’espressione. Per anni ho ragionato all’interno di un rettangolo, di un qualcosa di fisso: la complessità della pittura. Sezione Aurea: ragionamento molto potente sul messaggio che dà un’immagine. Ragionare all’interno di un video mi dà maggiori possibilità. Non voglio dirti che cos’è meglio, o peggio. Se fossi andato a Milano anziché a Venezia sicuramente avrei studiato fotografia e non pittura. Le nuove realtà generazionali hanno scelte più ampie di fronte a loro rispetto a quelle che avevo io – sono nato, e ho studiato, in un periodo in cui c’erano certe cose, che potevi studiare, e solo quelle. Io mi sono sviluppato così, come artista, perché da bambino mi piaceva disegnare. Se avessi avuto in mano una macchina fotografica forse sarebbe stato diverso.

Pittura e fotografia quindi, per concludere: una scultura puoi farla con due mezzi, o col bronzo, o con il marmo. Sono completamente diversi. Il loro fine? Devi poter avere una manualità con tutti e due e devi poter rappresentare. Allora se ti chiedi: ma è meglio il marmo, o è meglio il bronzo? – Nessuno può dirlo.

Colori o bianco e nero?

Buona domanda. Bianco e nero.

Come mai?

Mi piace la sintesi. Considero migliori i fotografi in bianco e nero, sono superiori – quasi tutti. Il bianco e nero si avvicina anche molto alla scultura e il messaggio diventa laconico e sintetico.

Tu fotografi?

No, osservo solamente. Qualche volta ho fotografato gli spazi, le persone, per preparare un mio progetto, un’installazione. Ma così, con questo scopo soltanto. Non finalizzato alla foto. Solo come documentazione; foto utilizzate al posto di appunti scritti.

Come ti appare, questo nostro mondo di fotografi?

Vivace. Vitale. Anche voi siete obbligati a ragionare all’interno di un rettangolo. O di un quadrato. Totalizzante, a volte, quindi. Condividiamo una sorte.

E l’arte digitale?

Del tipo?

Computer, Photoshop, Painter … niente arte digitale.

No. Non ho neanche mai provato. Mi ci sono avvicinato una volta sola, ma mi ha persino irritato. Non so il perché. Ah, il perché in assoluto? Perché l’arte digitale mi sembra qualcosa di certosino, come il lavoro di un’orefice. Non nel senso di: troppo perfetta, no, non sempre. Però, dal momento che c’è un unica vita, e non c’è tanto tempo, le possibilità sono due: o lavorare su di un’idea che sento congeniale, o lavorare su un’immagine laboriosa. Solo un problema di tempo, quindi. Preferisco non dedicarlo all’arte digitale, ho pensato che è meglio documentare, fare ricerca. Ho scelto questo.

Che cos’è l’Ira, per te?

L’ira? L’ira del Pelide Achille.

Quella è la tua visione dell’Ira?

No! Potrei dirti: ah, aspetta. La visione dell’Ira: per essere sincero non ne ho una. So che esiste, diciamo che per me ha qualcosa di troppo … vecchio. Una malattia che non è del nostro tempo. Andava bene al tempo di Achille, quattromila anni fa aveva un suo contesto. Oggi no. La vedo come qualcosa di fuori luogo. Avrei difficoltà a rappresentare il ‘dopo’. Calimero; ecco come la vedrei. Calimero potrebbe essere per me l’Ira. Roger Rabbit.

La vedi come qualcosa di patetico. Tutti e due sono personaggi abbastanza patetici.

Ma, si. Fuori luogo, fuori tempo. Se una persona è aggressiva nei miei confronti, lo capisco, l’accetto. Ma qualcuno che ha attacchi d’ira … molto fuori luogo.

L’arte? Che cosa pensi che sia?

Ai Weiwei ‘Sunflowers Seeds’

L’ho visto sempre come un mezzo per convogliare informazioni e non fine a se stesso, ma la cosa più divertente di questa cosa che si chiama arte sono le strategie economiche o finanziarie che si intraprendono per sostenere un piccolo mondo come questo, come si diceva in ‘Blade Runner’: ‘più umano dell’ umano’.

Guerrilla Girls


Una seconda chiave di lettura è rappresentata dai lavori di alcuni artisti come le ‘Guerrilla Girls’, movimento artistico femminista degli anni ’80 che trattavano la tematica dell’ identità, o il cinese Ai Weiwei, che con la sua arte può disturbare il potere con le conseguenti feroci repressioni all’inizio del XXI secolo.

 

Chi è Davide Skerlj, secondo Davide Skerlj?

Accidenti. Chi sono io? Secondo me stesso. Bella. Sono … uno dei tre nomi del gatto. Dicono che il gatto abbia sempre tre nomi: uno è quello che gli viene dato, un altro è quello con cui usualmente viene chiamato e infine c’è il nome che solo il gatto conosce. Io … sono uno dei tre. Non ti dico quale.

 

Ma adesso una domanda te la faccio io però: riesci a trarre delle conclusioni, da questi incontri che fai con le persone?

Si. Pian piano, rileggendo che cosa ho scritto, riflettendo. Cerco di capire chi sono io, accanto agli artisti che incontro; cerco di vedere se posso fare qualcosa insieme a loro, se posso imparare.

Ho capito.

Roberto Srelz

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