“Fra i molti modi di combattere il nulla, uno dei migliori è quello di scattare fotografie”. (Julio Cortazar)
“Ognuno dei suoi film è stato un’esperienza storica, l’abbandono cioè di un problema vecchio e la formulazione di una domanda nuova: il che significa che ha vissuto e trattato la storia di questi ultimi trent’anni con sottigliezza, non come la materia di un riflesso artistico o di un impegno ideologico, ma come una sostanza di cui egli doveva captare, di opera in opera, il magnetismo”. (Roland Barthes, 1980)
Michelangelo Antonioni (nato a Ferrara nel 1912 e morto a Roma nel 2007), regista, scrittore e pittore italiano, è considerato uno dei più grandi protagonisti della storia del cinema ed è una figura centrale nel panorama culturale dei primi anni Sessanta; uno dei testimoni più lucidi della nostra epoca, per avere saputo individuare e analizzare, con le sue opere, attraverso un percorso solitario, originale e spesso trasversale, la “crisi dei sentimenti”: i problemi, le angosce, le paure della e nella società contemporanea, una società in cui va progressivamente smarrendosi il senso dell’uomo – uomo solo e incapace di stabilire, o ristabilire, rapporti autentici.
“L’idea di ‘Blow up’ mi è venuta leggendo un breve racconto di Julio Cortázar. Non mi interessava tanto la vicenda, quanto il meccanismo delle fotografie. La scartai e ne scrissi una nuova, nella quale il meccanismo assumeva,un peso e un significato diversi” (Michelangelo Antonioni)
Da un racconto di Julio Cortazar, “Las babas del diablo” (“Le bave del diavolo”), Antonioni nel 1966 trasse liberamente “Blow up” (il titolo deriva da una espressione inglese gergale molto usata in fotografia, che si potrebbe tradurre con “ingrandimento dell’immagine”, “esplosione”). In “Las babas del diablo”, Cortazar (scrittore, poeta e drammaturgo argentino contemporaneo di Antonioni) racconta di Roberto Michel, traduttore di professione e fotografo per passione, alle prese con una coppia di amanti che incontra per caso e che stimola la sua curiosità con un fatto insolito rinvenuto nella foto ingrandita dei due soggetti (lo scambio di messaggi d’amore scritti sui muri):
“Fra i molti modi di combattere il nulla, uno dei migliori è quello di scattare fotografie, attività che dovrebbe essere insegnata precocemente ai fanciulli, perchè richiede disciplina, educazione estetica, buon occhio e dita sicure. Non si tratta di mettersi in agguato della menzogna, come qualsiasi reporter, e captare la stupida silhouette del personaggio che esce dal numero 10 di Downing Street, ma in ogni modo quando si va in giro con la macchina fotografica c’è come un dovere di star attenti, di non perdere quel brusco e delizioso riflesso di un raggio di sole su una vecchia pietra, o la corsa trecce al vento di una bambina che torna con una pagnotta o una bottiglia di latte (…) . Non avevo voglia di scattare fotografie, e accesi una sigaretta per fare qualcosa; credo che nel momento in cui avvicinavo il fiammifero al tabacco vidi per la prima volta il ragazzino. Ciò che avevo scambiato per una coppia era piuttosto simile a un bambino con la propria madre, anche se mi rendevo conto nello stesso tempo che non si trattava affatto di un bambino con la proprio madre, che si trattava di una coppia (…) .
Nel racconto i protagonisti della realtà ‘rubata’ e fissata in un’immagine rigida poi si animano e invadono il mondo del fotografo, costringendolo a ripensare la scena della quale è stato testimone alla luce di alcuni particolari scartati dall’inquadratura e diversamente riproposti.
“ (…) Ma dello scemo ho soltanto la fortuna, e so che se me ne vado questa Remington resterà pietrificata sopra il tavolo con quell’aspetto di doppiamente immobili che hanno le cose che si muovono quando non si muovono. Allora devo scrivere. Uno di noi tutti deve scrivere, se tutto ciò deve essere raccontato.”
“Blow up” è anch’esso incentrato sulle vicende di Thomas, un fotografo della “Swinging London”, il periodo di dinamismo culturale e di rinnovamento soprattutto giovanile inglese degli anni Sessanta, ed è un ‘finto giallo’ come altri film di Antonioni (“Cronaca di un amore”; “L’avventura”).
Thomas (David Hemmings) è un fotografo di moda. Dopo un preludio dalla carica fortemente erotica (la sessione di scatti con Verushka, ‘top model’ di quegli anni – forse la prima ‘top model’ della storia e icona della femminilità sulla locandina del film), Thomas, indaffarato, in ritardo, che si muove sempre accompagnato dalla sua macchina fotografica, attraversando un parco nota una coppia d’amanti (un uomo più anziano e una donna molto giovane) e scatta loro alcune foto. La donna (Vanessa Redgrave) se ne accorge e non gradisce; l’insegue, non lo raggiunge, ma trova poi il suo laboratorio dove l’incontra e pretende le fotografie: i due sembrano poi intendersi, Thomas va a letto con lei, poi la raggira e si tiene la pellicola con gli scatti del parco consegnandole un rullino qualsiasi.
«Michelangelo pensa continuamente al film, a ogni inquadratura, dall’ alba quando si sveglia fino alla notte (…) lui ha sempre voluto spogliare le donne dei suoi film, l’ erotismo è nella sua mente, un erotismo particolare, di dettagli, di sfumature, di una linea di luce che si armonizza con il profilo di un corpo nudo» (la moglie di Antonioni, sul set dell’ultimo film della carriera del regista).
Rimasto da solo, Thomas si mette al lavoro sulle fotografie. Osservando l’ingrandimento di una di esse scopre la sagoma di un cadavere. Convinto di avere fra le mani delle immagini eccezionali, vorrebbe darle al suo amico editore e pubblicarle, ma la vita della ‘Swinging’, nella forma di altri intermezzi erotici prima (le modelle adolescenti che suonano alla sua porta mentre è ancora al telefono con l’editore) e liberali (feste, spinelli, alcol nei quali il resto del mondo, che include sua moglie e il suo stesso amico editore, sembrano essere sprofondati) gli impediscono di accertare che cosa è successo e denunciarlo, anche se durante la notte egli ha potuto tornare al parco e vedere e toccare il cadavere che ha visto nella fotografia – accertandosi quindi della sua realtà. Thomas ritorna di corsa al suo laboratorio: le foto, però, non ci sono più, sono state rubate. Nasce in lui il bisogno di scattarne di nuove, ovvero di convalidare il potere conoscitivo dell’immagine. Ma la realtà è cambiata: il cadavere è scomparso. Dall’amico editore, che Thomas trova a letto con sua moglie, non riceve che il suggerimento di parlarne con la polizia.
“La realtà ci sfugge, muta continuamente. Quando crediamo di averla raggiunta, la situazione è già un”altra. Io diffido sempre di ciò che vedo, di ciò che un’immagine mi mostra, perché “immagino” quello che c’è al di là; e ciò che c’è dietro un’ immagine non si sa.”
Per il fotografo protagonista del film l’immagine fotografica è tutto, è il suo modo di esplorare il mondo. Antonioni, quindi, approfondisce la visione di Cortazar: “Blow up” è un film in cui uomini, cose, paesaggi e ambienti sono osservati non solo con il distacco ‘obiettivo’ che è proprio della macchina da presa, ma anche con lo scopo di analizzare la realtà ‘dal di dentro’, per scoprirne la vera struttura e coglierne i significati a volte nascosti. La vicenda del fotografo che ingrandendo uno dei suoi scatti scopre, o pensa di scoprire, una realtà sconosciuta, misteriosa, probabilmente drammatica, acquista la valenza di un simbolo: il suo fallimento, che in ultima analisi è il fallimento dell’esistenza umana costretta a “girare a vuoto” in un mondo incomprensibile, che rimanda continuamente ad altro e a visioni e possibili realtà diverse.
La narrazione è percorsa da una tensione tra due diversi modi di osservare il reale (l’uno immaginativo, l’altro razionale). Antonioni arriva infine alla consapevolezza della totale soggettività dell’esperienza di ogni uomo e donna e comincia a interrogarsi sulla presunta oggettività della tecnica, cioè dei mezzi costruiti dall’uomo per controllare la realtà.
Nella sequenza finale un gruppo di mimi, incontrati già all’inizio del film, giocano una finta partita a tennis, cioè imitano una vera partita, come l’immagine fotografica imita la realtà. Il fotografo, costretto a scegliere tra immagine e realtà (anche qui: ‘Camera Chiara’ di Barthes – la conclusione) sceglie l’immagine, si accontenta di ciò che vede, e ciò che vede è un’imitazione. Thomas accetta la finzione dell’immagine, rilancia la pallina immaginaria ai mimi e comincia a sentirne addirittura il suono. L’ultima inquadratura, un campo lunghissimo dall’alto sul fotografo, sposta il pensiero sull’uomo solo in mezzo al prato – un uomo che via via scompare – e conclude il racconto, lasciandoci con il dubbio: ciò di cui siamo stati testimoni è realtà, o è immaginazione? La realtà è in ultima analisi indeterminabile.
“Il fotografo di ‘Blow up’, che non è un filosofo, vuoi andare a vedere più da vicino. Ma gli succede che, ingrandendolo troppo, l’oggetto stesso si scompone e sparisce Quindi c’è un momento in cui si afferra la realtà, ma il momento dopo sfugge. Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’é un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà” (Michelangelo Antonioni)
Significativo è ricordare come Roland Barthes, il grande critico francese, fosse molto vicino ad Antonioni, condividesse la sua filosofia e l’ammirasse. In merito alla fotografia stessa, nella sua “Camera Chiara” (1980) Barthes definisce il ‘punctum’ come il tema che trascende il desiderio della ‘costruzione’ della foto (lo ‘studium’) e giunge quindi a ‘pungere’ come una ferita chi la guarda, rendendo una foto qualsiasi ‘la foto’. Il ‘punctum’, egli dice, è il dettaglio ‘che mi attrae o mi disturba’: è quindi un fenomeno che coinvolge emotivamente lo spettatore. Ma l’esistenza del ‘punctum’ è aleatoria: è qualcosa, come Barthes scrive, che ‘era semplicemente la’ ‘, qualcosa che è rimasto nella foto per caso, ‘offerto per caso e in cambio di niente’ – proprio come i contorni sfuocati del cadavere nella fotografia di Thomas, il protagonista di “Blow Up”. Scavare nell’immagine fino al suo stesso annullamento, per trovare altre immagini, e dietro ogni immagine ancora una come in un gioco infinito di specchi; fino a perdere ogni contorno e distinzione fra gli oggetti e le figure, come negli ingrandimenti successivi che il fotografo sviluppa, per raggiungere soltanto, ingranditi e giganteschi, i granelli della pellicola: la ‘grana del reale’.
Diversamente dai film precedenti, in “Blow Up” le tipiche inquadrature lunghe di Antonioni lasciano il posto a frequenti cambi di inquadratura; il ritmo è più frammentato e nervoso, come il lavoro del protagonista Thomas. E infatti è a lui, al fotografo del film, che il regista Antonioni associa il proprio sguardo, annullando la distinzione tra visione della macchina da presa e visione del personaggio: quasi sempre la camera parte inquadrando Thomas e poi si allinea con il suo sguardo, e, nella sequenza centrale delle foto scattate nel parco le cose sono viste attraverso la macchina fotografica di Thomas.
In conclusione, “Blow Up” è uno dei film cardine non solo nel percorso intellettuale e artistico di Antonioni, ma in generale nel percorso di liberazione del cinema dalle catene strutturali della letteratura e del teatro. Un percorso verso lo specifico linguaggio cinematografico, e fotografico, che Antonioni ha portato ai livelli più alti sotto l’aspetto visuale (così come Robert Bresson aveva fatto sotto l’aspetto del commento sonoro), che evidenza il potere comunicativo delle immagini, le potenzialità dell’immagine, della fotografia nel generare significato. Nei film di Antonioni i dialoghi sono spesso superflui, molto è silenzio senza quasi neppure musica (in “Blow Up”, la colonna sonora è spesso usata in funzione del personaggio, inserendola nei suoi momenti di distrazione per poi sfumarla in quelli di concentrazione), perché tutto è stato già espresso dalle immagini.
“Arrivo a dire: la crisi del personaggio del film è stata un po’ anche la mia, so di essere diverso da prima, proprio nel modo di stare di fronte alla realtà. Nei miei precedenti film, avevo tentato di esaminare le relazioni tra gli individui, le loro relazioni amorose, la fragilità dei loro sentimenti e così via. Ma in questo film, la relazione è tra un singolo individuo e la realtà, le cose che lo circondano. Non ci sono storie d’amore in questo film. L’esperienza del protagonista riguarda la sua relazione con il mondo, con le cose che si trova di fronte”.
“Vorrei, caro Antonioni, che tu mi prestassi per un attimo qualche tratto della tua opera per permettermi di fissare le tre forze, o, se preferisci, le tre virtù che ai miei occhi costituiscono l’artista. Le dico subito: la vigilanza, la saggezza e la più paradossale di tutte: la fragilità”. (Roland Barthes)
Autore di riferimento del cinema moderno, con le sue opere negli anni fra il 1960 e la fine del 1980 Antonioni segnò la fine del neorealismo e la nascita di una nuova stagione del cinema.
Serena Bobbo, Roberto Srelz © centoParole Magazine – riproduzione riservata