In un afoso mese, com’è agosto, non ci si aspetterebbe di trovare proprio in una calda metropoli, com’è Milano, la prima personale, in uno spazio pubblico italiano, di uno dei protagonisti dell’universo artistico mondiale. Invece è proprio qui a Palazzo Reale che fino al 7 settembre sarà possibile ammirare uno degli ultimi lavori di Takashi Murakami: il Ciclo di Arhat, nella mostra curata da Francesco Bonami.
Takashi Murakami, classe 1962, un artista nipponico che ha creato nella sua decennale carriera un ponte artistico tra le tradizioni culturali e popolari del suo paese natale e la produzione artistica occidentale della Pop Art del suo maestro Andy Warhol.
Nato a Tokyo da una famiglia di modeste origini, Murakami si laureò in pittura tradizionale giapponese all’Università delle arti di Tokyo, iniziando proprio negli anni 90 ad addentrarsi nel settore artistico a livello mondiale.
Il 2000 segna una svolta nella sua carriera: egli concepì il Superflat che divenne manifesto teorico, estetico della sua poetica creando un vero e proprio movimento. Nel decennio successivo Murakami iniziò a compiere un’operazione artistica di notevole interesse e rilievo, diventando nientemeno che la personalità più rappresentativa della cultura nipponica. Attraverso un recupero di arte “elevata” e arte “popolare”, divisione sconosciuta alla culturale giapponese, egli riuscì ad elaborare un’estetica nuova e finalmente autonoma dall’occidente. I personaggi che irrompono nelle sue opere come se fossero spinti da un’esplosione cromatica, sono diretti discendenti dell’ibridizzazione della centenaria tradizione artistica degli Ukyo-e (xilografie) e della più giovane cultura di massa degli anime. Alla capacità nipponica di assumere istanze esterne e farle proprie, egli aggiunse un pizzico di fetish della produzione di massa di Andy Warhol: ma se nel maestro americano i prodotti commerciali vennero utilizzati con l’intento di criticare la mercificazione di massa, nelle opere di Murakami questa fu celebrata.
L’influsso di Warhol ritorna anche nell’esperienza della Factory, con la creazione di una vera e propria fabbrica d’arte (la Kaikai Kiki Company) a New York e Tokyo, che supporta l’ideologia estetica di ripetitività e di creazione opera-prodotto commerciale. Tale concezione di prodotto artistico fa sì che Murakami non sia l’artista tradizionale bensì un vero e proprio imprenditore, capace di costruire attorno a sé un fenomeno commerciale producendo oggetti artistici per tutti i gusti e tutte le tasche: dai gadget firmati dall’artista, fino alla collaborazione con il marchio Louis Vuitton.
La puerilità che fino a tale momento caratterizzò tutto il lavoro di Murakami ora assume una profondità maggiore, come conseguenza della riflessione sulla catastrofe che colpì il paese nel Marzo 2011. Il “Ciclo di Arhat” è il risultato di tale meditazione; la maturazione improvvisa non si ritrova nella scelta di soggetti diversi, bensì in una spiritualità ritrovata sempre sotto l’insegna del suo stile contemporaneo.
Il centro ponderante della mostra, costituita appunto dai tre dipinti monumentali, viene presentata ai fruitori nella Sala delle Cariatidi, affascinante ambiente volutamente segnato dal suo doloroso passato: la sala danneggiata dai bombardamenti nel secondo conflitto mondiale e ne porta ancora i segni. E proprio in questo troviamo un legame con l’artista presentato, la sua riflessione sulla fragilità dell’uomo davanti alla natura e l’evoluzione artistica nata da essa.
Agli Arhat rimane il compito di vegliare e sostenere nelle fasi principali della fragile vita umana. La misticità del percorso viene accresciuto anche grazie alla posizione delle opere: queste grandi composizioni sono collocate strategicamente al centro della sala, formando un’ulteriore stanza illuminata, come a creare uno spazio a sé totalmente separato dal mondo circostante. Lo straniamento viene amplificato dall’uso della luce che permette di ammirare tutti i minuziosi dettagli dei numerosi personaggi sacri e poter apprezzare la piattezza delle opere colme di stridente cromatismo.
Questo ciclo simbolico non solo rispecchia la situazione psicologica nel quale troviamo il paese del sol levante, ma può esser associato ad uno scostamento dell’intera umanità contemporanea da sé stessa e dalla sua precarietà.
Barbara Leone © centoParole Magazine – riproduzione riservata
Barbara Leone nasce a Trieste, laureata in Scienze dei Beni Culturali, iscritta al corso magistrale di Storia dell’arte all’Università di Udine; oltre la lettura i suoi interessi lambiscono gli ambiti della storia dell’arte contemporanea, della fotografia e del mondo culturale nipponico sia passato che presente.