Quasi esclusivamente colore: Mattia Pelizzari

Mattia Pelizzari. Nato a Palmanova, il 19 ottobre 1981.

 

Un uomo energico. Un uomo pigro. Sempre rimasto qua, nato e vissuto a Carlino. Pigro perché cerco di dormire quando posso, perché quando torno a casa dal lavoro mi metto davanti al computer e sto alzato fino alle due, poi dormo cinque ore e torno a lavorare.
Mi piace occuparmi d’arredamento, lo faccio in qualche modo anche per professione.

Come hai iniziato ad avvicinarti all’arte?

Arte, arte. Non direi di essere un artista. Sono andato in viaggio, a Londra, in quel periodo avevo sempre con me una compatta digitale. Ho fatto una serie di foto. Un’amica che faceva anche fotografia, su pellicola – avevo posato per lei – mi ha chiesto di mostrargliele. ‘Però hai occhio. Perché non vieni a fare un corso?’ Una macchina fotografica, a pellicola, ce l’avevo, la Pentax P30 di mio fratello, ce l’ho ancora a casa. E così è cominciata.

Hai fatto il modello!

Si, è capitato. Un paio di volte.

Com’è stare dall’altra parte dell’obiettivo?

Dipende sempre dal rapporto che hai con il tuo fotografo. Se lo fai per professione, e di fronte a te hai una persona che non conosci, devi essere molto preparato, distaccato. Se lo fai per una persona che conosci bene, anche per un fotografo che conosci magari più superficialmente, solo di vista, è molto più facile ma è diverso. Sono due atteggiamenti completamente diversi.

Il modello è una chiave fondamentale per il fotografo, posare per una foto ti aiuta a capire molte molte cose. Se c’è un rapporto fra fotografo e modello, il modello ha un livello di malleabilità, di posizioni ed espressioni estremamente più profondo. C’è fiducia, confidenza. Gli richiedi l’espressione buffa e lui te la fa, non si sente ridicolo. Ecco, se hai di fronte un professionista o una professionista vera lo vedi da quello, dalla sua capacità di assumere proprio quell’espressione che altrimenti ti farebbe vedere solo se tu avessi un rapporto molto stretto con lei. Se invece ti trovi a lavorare con una persona che di fronte a un fotografo con cui non ha un rapporto è molto rigida, posata … ecco, appunto, è: posata.

 

Ti guardano come per chiederti: ‘Beh? Cosa facciamo?’ – non va. A quel punto puoi metter via la macchina fotografica e stare lì, perché un modello che approccia in quel modo ti blocca. C’è il contro, naturalmente, a lavorare con chi conosci bene: se lo si conosce troppo bene, il modello, il lavoro del fotografo diventa molto più difficile – col modello che ti manda a quel paese o esce dal set, cose del genere. Ma magari, un altro giorno, c’è ‘chimica’ come si dice, e allora vai dritto come un fuso e fai delle foto bellissime.

Allora, la fotografia. Ti ha preso subito.

Si, si. Dipende comunque da cosa intendi, all’inizio mi interessava di più l’ìnstallazione fotografica. Nel 2008, ho esposto alla Spac, Spazi Pubblici d’Arte Contemporanea, a Buttrio. “Si può fotografare un pensiero”. Va bene, è stato usato molto in pubblicità, come slogan … però, però, se riesco ad aumentare il concetto di fotografia, riesco magari a spiegarmi meglio … io avevo pensato a una installazione fotografica con dei cubi che tenevi in mano, per dare alla fotografia una tridimensionalità. ‘Lifetouch Cube’. Quattro cubi da venticinque per lato, pendono da un filo da pesca attaccato al soffitto. Avevo fotografato delle persone da davanti, dietro, sotto, sopra, destra e sinistra mentre succede qualcosa e creato uno storyboard, una meta-immagine, e a seconda di come prendevi in mano il cubo, lo giravi e guardavi la fotografia toccandola con le tue mani, la storia si modificava, sotto le tue mani, soprattutto perché gli scatti non erano stati fatti tutti nello stesso momento, ma in un arco di diversi minuti. I cubi così là da soli, fermi, non raccontavano niente, ma nel momento in cui tu li prendi in mano puoi partire da che lato vuoi.

E’ stata la tua unica installazione?

No, dopo ne ho realizzata una seconda, che si chiamava ‘Happy Plastic’: oggetti, mollette di plastica, molto pop. Ho continuato a scrivere i miei appunti e i miei progetti per delle nuove installazioni, ce n’è una che mi piacerebbe tantissimo riuscire a costruire. Vorrei ricreare un momento di vita reale camminando attraverso le fotografie. Non se ne fanno tante, di installazioni fotografiche, comunque, perché se non sono veramente ben realizzate, se non hanno quel tocco di genio, non si capiscono. Lo spettatore non riesce a comprendere che cosa tu stia cercando di dirgli. Ed è un peccato, perché a un artista l’installazione da’ molta libertà.

Quindi un percorso inverso … arte prima attraverso la tridimensionalità, e poi il bidimensionale della foto.

Senza volerlo, comunque. Mi interessava di più, perché sentivo la fotografia come limitante. Erroneamente facevo un paragone. Invece sono due cose completamente diverse, l’approccio e lo scopo sono diversi.
Ho iniziato a fotografare con delle compatte, bridge, anche macchine a pellicola, non badavo molto all’aspetto tecnico della fotografia quanto all’inquadratura; nei momenti in cui ti avvicini alla fotografia per la prima volta sperimenti tantissimo. Ero a livello amatoriale, per quanto mi interessassero molto l’espressione e l’inquadratura a livello di conoscenza della tecnica, delle luci, non sapevo quasi niente. Ho preso in mano la macchina fotografica nel 2007 quindi sono quattro anni, adesso; seriamente, in ambito fotografico, faccio fotografia da un anno.

Aberrazione cromatica! Ti colpisce particolarmente.

Ah, ah. Si, è un tema ricorrente- ma c’è un motivo! Più di uno. Intanto come prima cosa devo dirti, se cominci a fare foto a livello perlomeno professionale e mandi a un concorso, o su iStock, una foto con aberrazione, te la scartano in un secondo, te la rimandano indietro subito … inoltre non mi piace l’idea di portare in una foto colori e luci che non fanno parte della visione naturale dell’occhio umano e che non sono inventate neanche da me ma dal processore della macchina. Molte volte sono molto evidenti, fra parti molto contrastate della foto, maglione nero e cielo bianco a esempio. Nelle foto a colori ti trovi questi bordini magenta, verde … noi non vediamo, attraverso i nostri occhi, con aberrazione. Con Lightroom e Photoshop molte volte sono facilmente correggibili, quando applichi la correzione della lente alla fotografia l’aberrazione quasi sempre se ne va – ma non sempre, ecco. Da qualche parte spunta sempre fuori. La primissima cosa che faccio è passarla al cento per cento per vedere se ci sono macchie nel cielo o da altre parti. Se vedo che eliminare le aberrazioni richiede troppo tempo preferisco abbandonare la fotografia e passare ad altre, per ritornarci poi quando ho un po’ più di tempo e solo se vale la pena. Chiaro, per avere meno aberrazione cromatica dovresti avere ottiche fisse e di buona qualità, con gli zoom le ritrovi quasi sempre. E anche su ottiche costose, con il 24-105mm Canon ad esempio – da quel punto di vista, è terribile; non bisogna pensare quindi che sia sempre solo una questione di soldi, è anche una questione di qualità della fabbricazione e di materiali. E’ molto comodo, niente da dire, io ho solo due ottiche, quello e il 50mm Macro; il 24-105mm mi basta, lo uso molto, non è un’ottica che dovrebbe stare nella serie ‘L’ però.

Ottiche fisse allora.

Possibilmente, si. Alcune sono molto costose, purtroppo: l’85mm, il 14mm. Il 135mm della Canon. Da una parte ti tolgono, ti vincolano; dall’altra ti spingono a creare, a spostarti, a cercare la giusta composizione. Non sempre però sono alla portata di chi non è un professionista.

Quasi esclusivamente colore.

Guarda, non so se ti è mai capitato di andare a vedere il mio portfolio su iStock, dove tengo quasi tutte le mie foto. Se vai a vederlo, rimani un pò disturbato dalla quantità di tipologie di fotografie … ti viene da chiederti: “Di cosa sta parlando, questo?”. Paesaggi? Still Life? Persone? Humour? In verità penso di aver scoperto la mia dimensione da poco. Persone. Sicuramente. Riesco a creare delle situazioni diverse con più semplicità, sfruttando momenti, attimi di vita comuni. Anche di cose già viste, quotidiane, come la persona che pensa al tavolo, però basta l’espressione del modello o una piccola variazione per renderle nuove e particolari.

Costruisci la scena, quindi; non cogli l’attimo.

Si, sicuramente si. Preferisco costruirla. Non sono proprio un fotografo da reportage. Ho un paio di scatti da reportage, però andare in giro con la macchina fotografica non mi riesce molto bene. Sicuramente la mia foto è la foto creativa, piuttosto che quella narrativa. Poi la narrazione, nella fotografia, è molto difficile, secondo me: in uno scatto non costruito, raccontare quel qualcosa in più, capire la persona, quello che sta facendo e magari anche perché lo sta facendo, è difficile. Lo spazio della narrazione è un’area molto limitata all’interno del rettangolo della fotografia. Devo anche dirti, comunque, che mi piacciono le cose bislacche, preferisco trovarmi di fronte a un fotografo che crea composizioni bislacche piuttosto che vedere scatti tutti uguali che seguono un cliché.

Aspetta, però, ripetiamo: colore o bianco e nero?

Colore. Colore! Il colore per me è la chiave fondamentale in una buona fotografia. Un richiamo a un colore bello, forte, oppure delicato cambia completamente la lettura di una fotografia. Non è comunque un: ‘bianco e nero o colore’. Dipende sempre dal progetto, naturalmente. Però nella mia idea, la foto è molto colorata, il colore da’ quel qualcosa in più.

Passi sempre in post-produzione?

Sempre. Vado da un minimo di tre, quattro minuti per foto, a otto ore.

Otto ore! Quindi la foto senza post-produzione tu non la concepisci.

No, senza non la concepisco. Aspetta, dipende sempre da come scatti: se scatti in jpeg, la foto l’hai già post-prodotta, elaborata, l’ha fatto la macchina fotografica. Se scatti in raw, devi lavorarla, la tua foto: la post-produzione è la tua camera oscura. Compreresti mai un negativo? Tutti i fotografi, comunque, anche in passato, andavano in camera oscura e sviluppavano, mascheravano, bruciavano, aggiungevano e toglievano pezzi. Quindi non è cambiato niente, solo lo strumento, il mezzo. Il flusso di lavoro è sempre lo stesso.

Ma quanto è lecito alterare, secondo te?

Dipende dall’idea che si vuole seguire. Non c’è limite. E’ logico, superata una certa soglia si arriva all’arte digitale più che alla fotografia, però comunque la soglia è così sottile che si sta un attimo a saltare di là. E l’arte digitale parte sempre da un concetto fotografico. Quindi, non c’è limite. Perché puoi anche creare una situazione surreale con uno scatto, se sei bravo, e quella non è arte digitale, quindi … qualche volta mostro le mie immagini alla gente e mi guardano spaventati, ‘Oddio, che cos’è successo a questa foto?’, ma è sbagliato secondo me darsi un limite. Darsi un limite potrebbe bloccare un’ottima idea, un’intuizione, qualcosa di tuo.

Devi investire molto tempo e studiare molto gli strumenti, il software, però, per essere in grado di arrivare al livello che fai intuire tu.

Si, devi farlo. La post-produzione della quale ti ho parlato prima, quella di otto ore, è stata una cosa fatta partendo da cinque scatti, complicata. Una post-produzione dev’essere fatta bene, non è ammissibile vedere uno scontorno sbagliato, o degli effetti messi lì, colori che non corrispondono … l’immagine deve risultare reale. Usi il computer come tuo strumento ma non è il tuo fine.

La tua immagine preferita?

Mia?

Tua, e non tua.

La mia foto preferita fra le mie non lo saprei proprio. Io metto su Flickr, tolgo, cancello, sono molto ciclico, dipende molto dal periodo che ho. Non ne ho una per la quale mi sento di dire: ‘Questa è la miglior foto che io abbia mai fatto!
Parlando invece degli altri, c’è una foto che ho trovato un po’ di tempo fa, di un artista americano, Ryan J. Lane, su iStock. Foresta, cacciatore in primo piano in basso a destra con la testa da cervo; dietro, un uomo che scappa via nudo. E’ bellissima. E poi, i portfolio e le immagini di Luca Di Filippo. Le silhouette con filtro blu, in particolare.

E il futuro?

Chissà. Mi piacerebbe fare un periodo all’estero, con uno studio. Adesso mi sto avventurando più seriamente nel mondo dei flash, sono convinto che bisogna provare tutti i generi, capire. Non conoscere qualcosa di un genere ti può precludere il raggiungimento di un risultato in un altro genere. Le cose che impari in uno Still Life, ad esempio, possono aiutarti molto anche in un ritratto. ‘Ho provato una volta e non mi è piaciuto’ non è un’atteggiamento positivo, non è qualcosa che ti porta lontano, devi insistere un po’. Semplicemente per essere più completo.

Quindi?

Quindi vedremo. Dublino. In Irlanda. Quando si apre il cielo, è bello.

di Roberto Srelz

 

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