Sifone.
5 maggio 1991. Isonzo, Slovenia, l’aria già tiepida, i fiori sbocciati, l’erba verde chiaro della primavera delle Alpi Giulie.
E l’acqua.
Tanta acqua.
Impetuosa, sonante. Pesante nello scorrere a valle tra gli enormi massi di calcare candido della “quarta gola”, leggera nel levarsi in spruzzi irregolari dalle creste delle onde e dai rulli. Opaca, di un lattiginoso azzurro ghiaccio dove a grandi masse gonfie scivola, pigra. Luccicante, di un bianco che abbaglia là dove l’aria, insinuandosi tra goccia e goccia, la rende instabile, mutevole schiuma.
L’idrometro di Caporetto segna novanta, un livello notevole ma frequente in questi periodi, quando l’Isonzo, alimentato dallo sciogliere dalle nevi e dalle piogge copiose, dà il meglio di sé: grazia e potenza in un paesaggio intatto. Cento metri cubi al secondo di selvaggia energia.
Scendiamo euforici, giocando nei buchi e surfando su grandi onde, godendo della violenza dell’acqua che scuote le nostre canoe, degli schiaffi di spuma sul viso, del sole negli occhi.
È bello sentire la forza del fiume che spinge sulla pagaia immersa nella corrente, è bello lasciarsi strapazzare dalla decelerazione che si subisce entrando veloci nelle morte, definite e poderose.
A poco a poco ci si sente parte del fiume, felice pallina in un flipper amico che ti riempie di coccole burbere e tremende ma a suo modo amorevoli.
Al cimitero di Trnovo qualcuno sbarca. Ermanno, Marino e io decidiamo di continuare fino all’abituale stop del “ponte crollato”: poco meno di un chilometro che con questo livello sfiora il quinto grado. La pendenza aumenta e onde e buchi assumono proporzioni ragguardevoli, la velocità della corrente impone manovre decise. Anche la nostra concentrazione si fa più intensa, soprattutto perché‚ al “ponte crollato” inizia il lungo e temuto tratto sifonato che a ogni stagione fa qualche vittima. Non l’abbiamo ancora mai percorso. Fino a lì però nessun pericolo, e poi conosciamo questo tratto come le scale di casa.
Giù. Una polka sfrenata. Entusiasmante.
Poco più di cento metri a monte dello sbarco Marino si rovescia in un rullo.
So cosa succede là sotto, quando sei a testa in giù in questi volumi d’acqua e la corrente sembra strapparti la pagaia dalle mani tanto è forte e indecifrabile.
La barca scende capovolta, veloce. Passano lunghi secondi. Lo vediamo tentare l’eskimo una, due volte. Alla terza finalmente riemerge, ma incappa in un grande cuscino che lo rivolta senza dargli il tempo nemmeno di capire dov’è. Rimbalza di testa su alcuni enormi massi sommersi, poi non ce la fa più ed esce dal kayak. Bagno! Dobbiamo essere veloci!
Ermanno gli è più vicino, lo raggiunge con qualche pagaiata e gli presenta la maniglia di coda, io, più a valle, mi sto già preoccupando di come recuperare l’attrezzatura. Ma un rulletto sprofonda Marino quando sta per aggrapparsi saldamente alla maniglia, Ermanno sente per un istante il peso in coda e credendo di trainarlo pagaia verso la riva sinistra. Si accorge subito dell’incidente ma Marino è già stato portato quindici metri a valle.
Tocca a me. Lo attendo pagaiando controcorrente, la prua a monte per tenerlo d’occhio, e finalmente azzanna la maniglia di punta del mio kayak, che all’istante si gira verso valle trascinato dall’amico che funge da ancora nel filone principale.
Non so descrivere l’espressione che ho visto negli occhi di Marino, non riesco a ripensarci senza sentire un brivido profondo. Il suo sguardo atterrito moltiplica le mie energie, pagaio in retro traghettando verso la riva destra, dove prima del ponte crollato c’è una grande morta. Mancano forse cinquanta metri. E due giganteschi rulli.
Spostarsi dal filone con questa portata e un uomo attaccato alla maniglia è un’impresa disumana, l’ho già sperimentato nell’88 su questo stesso tratto quando sono stato strattonato a valle per seicento metri da Caio. Ma Marino pesa quasi il doppio di Caio!
Nel primo rullo arrivo di traverso e mi rovescio in una frazione di secondo. Tento l’eskimo ma c’è sempre Marino attaccato alla mia maniglia e non mi riesce. Forse se ne accorge, forse perde la presa, non so, ma al secondo tentativo sono su e lui è a un paio di metri da me, ancora in centro al fiume. Gli porgo di nuovo la punta e riprendo a tirare verso riva. Il secondo rullo non mi rovescia ma ci sbatte ancora verso il centro, verso la prima rapida sifonata.
Ho paura. Finora tutto mi sembrava normale, un recupero come un altro, con la sola preoccupazione di ritrovare canoa e pagaia nel dedalo di massi a valle. All’improvviso mi rendo conto che ci sono in ballo le nostre vite, perché stiamo scivolando verso l’ignoto, verso rapide che con quest’acqua sono sicuramente mortali per un canoista a bagno.
Il tratto di Trnovo, conosciuto come “tratto dei sifoni”, è la parte centrale della quarta gola dell’Isonzo: due chilometri di quinto grado disseminati di massi immensi disposti caoticamente e traforati da una moltitudine di sifoni spesso invisibili. Per scenderlo è indispensabile un livello medio-basso e una conoscenza assoluta delle traiettorie. Incidenti vi si ripetono ogni anno, e spesso hanno esiti drammatici.
La paura non mi toglie lucidità e determinazione per lottare ancora, e urlando “A destra, a destra!” continuo a pagaiare in retro, mentre Marino vibra terribili sforbiciate di gambe per aiutarmi.
Passiamo tra i due antichi piloni abbattuti e sifonati del ponte ed è come oltrepassare una soglia netta tra il conosciuto e l’insondabile, tra la vita e la morte. Cosa sta pensando Marino? E io?
Immagini, più che pensieri coerenti, si affacciano alla mia mente rapidissime mentre pompo pagaiate disperate verso una morta enorme che so si distende dietro il pilone destro. Impreco. Stiamo scendendo troppo veloci, manchiamo la morta e già imbocchiamo il canalino centrale della prossima rapida, l’ultima prima che l’Isonzo si infili in un labirinto orrendo. Arrivarci sarebbe la fine per entrambi.
In questo punto la riva destra tende una sorta di promontorio di rocce verso il centro del fiume, ed è contro questo muro di rocce che riusciamo ad arrestare la nostra corsa, sfiniti. Ci guardiamo negli occhi ancora sbarrati e scivoliamo piano indietro verso la riva, verso la fine dell’incubo.
Mi accorgo che la roccia su cui mi appoggio non fa nessun cuscino, lo noto senza alcuna emozione, senza alcuna reazione, intorpidito dalla stanchezza e dal calo di tensione.
E improvvisamente Marino scompare.
Vedo per un istante ancora i suoi occhi smarriti, poi soltanto la mano stretta alla maniglia, e mentre capisco con orrore dove ci siamo fermati il mio kayak si incandela di punta e inizia a sprofondare. Adrenalina!
Uno sparo di adrenalina. Non so come, con una velocità che non credo umana ma di animale, sguscio dal pozzetto ed arpiono due appigli sulla roccia, mentre la canoa si inabissa nel sifone dietro a Marino. Una forza enorme, inimmaginabile mi tira per i piedi verso il basso, e sento con una gamba la coda della barca che si è evidentemente incastrata sotto di me. È fatta. Stavolta è toccata a noi. Non ho la forza per tirarmi fuori e le braccia presto cominciano a cedere. Cedono. Inesorabilmente. Prima bevuta. Respiro a fatica, tento di sollevare un piede alla ricerca di un appoggio ma l’acqua è troppo potente, non riesco ad alzare il ginocchio di un centimetro. Scivolo in basso, bevo ancora, ma stringo la roccia con le dita nonostante non senta più gli avambracci contratti spasmodicamente. Ho la certezza che sto per morire, che potrò tener duro ancora per poco prima di lasciarmi andare senza forze a incastrarmi assieme al mio kayak nel sifone. Ma per quanto abbia già accettato, con incredibile serenità e facilità, l’idea della morte, per quanto ne sia rassegnatamente consapevole, non mollo. E ancora brevi immagini frenetiche mi impegnano la mente. Marino che nuota stremato verso altri sifoni (non so perché credo, sento che sia passato attraverso questo, prima che la canoa lo occluda). I miei, il dolore che darò loro. Emanuela. Devo vivere! Mi ascolto emettere un ringhio gorgogliante di dolore e di rabbia, di bestia ferita, come se fosse un altro a emetterlo.
Ed Ermanno?
Ermanno è saltato a riva al ponte, sperando giustamente di essere più utile dalla riva che nella corrente con noi. È corso come un pazzo sui massi giganteschi della sponda, incespicando, cadendo, sbattendo la testa, ed è ora a pochi metri da me ma non può raggiungermi. Lancia la corda. Il filo di nylon rosso che mi sbatte davanti alla faccia mi scuote. Tento di afferrarlo ma se mollo la presa sulla roccia vado giù. Ingoio ancora acqua, forse sto per piangere. Ermanno urla parole che non distinguo, frasi che non possono essere rivolte a me. Sto esaurendo le forze, penso, forse per questo non capisco.
Non capisco nemmeno quando sento due forti mani che tentano di sollevarmi tirando per il salvagente e che poi afferrano il paradenti del casco e lentamente mi strappano dalla presa dell’acqua.
Marino!
Marino, dannazione, tirami su anche per le narici ma tirami su, penso mentre il casco incredibilmente non cede e le braccia possenti di Marino, stirandomi le cervicali come a un pollo, mi riportano all’aria.
Ce ne stiamo come sacchi vuoti sui massi levigati dell’Isonzo, troppo esausti per parlare. Tossiamo e respiriamo come mantici l’aria finalmente senz’acqua. Gli occhi si posano ancora sugli alberi, sui fiori, sui prati verdi. Com’è azzurro il cielo, com’è tiepida l’aria.
Marino è passato attraverso il sifone senza quasi accorgersene. Chiaro – scuro – chiaro, racconta, un lampo. Ha agganciato con le dita una sporgenza della roccia ed è rimasto a mollo, sbatacchiato dalla corrente, finché ha avuto la
forza per issarsi sul masso e distendersi a prendere fiato e ricercare se stesso, ignaro di me che a due metri da lui digrignavo i denti per non seguirlo. A questo punto l’ha visto Ermanno e gli ha urlato di venire a ripescarmi.
Abbiamo recuperato tutta l’attrezzatura, con molta fortuna. La maniglia di punta della mia Mountain Bat è quasi strappata.
Abbiamo continuato ad andar per fiumi, forse un po’ più cauti, forse un po’ meno disposti a osare. Io certo faccio più trasbordi, me la prendo più comoda, saranno forse anche quei capelli bianchi sulle tempie. La paura ovviamente si è dissolta, ma è rimasta la sorpresa per l’accettazione senza emozioni, senza drammi dell’idea della Morte. A pensarci adesso mi riempio d’orrore, ma lì, appeso a due scaglie di roccia a un passo dal nulla, ero pronto a inchinarmie a porgerLe sottomesso i miei omaggi, mentre il mio corpo continuava a dibattersi nella lotta istintiva per la sopravvivenza.
E l’acqua dell’Isonzo, le rocce, le montagne, le poiane, il vento dolce della primavera non se ne sarebbero nemmeno accorti.
Franco Bulli
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Franco Bulli non è solamente uno dei due ideatori/fondatori di “Sciampo”, ma anche una presenza fissa sulla poltrona rossa, alcune volte con cose da lui scritte, di cui questo racconto è un esempio… Spesso quando introduce la serata e si assume il ruolo di maestro di cerimonie descrive “Sciampo” come una sintesi tra Speaker’s Corner ed il lettino dello psicanalista.
Questo racconto pende un po’ di più verso il secondo dei due versanti. È una narrazione fedele, non romanzata, di un avvenimento realmente accadutogli. Un bell’esempio di un piccolo voler esorcizzare un momento, non solo scrivendo, ma leggendo e condividendo, per poi sdrammatizzare bevendo qualcosa in compagnia di tutti i lettori, ed ascoltatori.
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