Arvenié

Arvenié

[da; “Racconto d’inverno”, romanzo Fantasy] Nel grigio del giorno, il vento che soffiava da nordest, attraverso quella che gli abitanti della città chiamavano l’ ‘orrido Celeste’ e verso la baia di Darela e il grande oceano, portava con sé nevischio e gocce di pioggia gelida. D’inverno, per alcune settimane, mai per più di quatto o cinque giorni di fila però, il Vento d’Oriente – così lo chiamavano loro, che erano nati a Ostelar – soffiava molto forte, con raffiche improvvise, che giungevano senza avviso, e fischiavano, infilandosi nelle fessure della pietra, dentro i vestiti, sotto qualunque cosa, e poi silenzio.  ‘Oriente’ costringeva le guardie cittadine nelle loro garitte e infastidiva i capitani, che dovevano far ammainare le grandi bandiere e richiamare gli uomini al presidio, stando al freddo, perché solo loro era questo compito, oppure stringerle alle aste con forti legacci di cuoio e occuparsi delle vedette al mare.

Ai commercianti e ai marinai, ‘Oriente’ impediva di lavorare. Pochi, per lo più coloro che non potevano rinunciare al lavoro perché di pane avevano bisogno, o chi era mosso da affari importanti o dalla necessità d’un incontro irrinunciabile, scendevano in strada sfidando ‘Oriente’: i più si chiudevano in casa fino a quando il vento non passava, spazzando il cielo dalle nuvole e riportando sulla costa quell’azzurro limpido dal riflesso del quale l’orrido, che stava poco fuori le mura e che teneva imprigionato Vipa, il rapido torrente dalle acque nere che portava l’acqua ai pozzi di Ostelar, prendeva il suo nome. I cittadini di Ostelar odiavano ‘Oriente’, eppure allo stesso tempo lo amavano, perché era parte di loro: Arvenié capiva bene che cosa quel sentimento volesse dire, perché l’aveva sempre sentito dentro. Il freddo d’ Oriente, gli schiaffi del gelo sulla faccia e gli abiti che quasi le si strappavano da dosso mentre camminava, la facevano sentire viva. Le ricordavano che era ancora parte del mondo.

A tratti, il camminamento sopra il porto fortificato, fatto di quadroni di solida pietra portata dai Monti Gialli, era coperto da un sottile strato di ghiaccio, che mutava il suo colore da grigio chiaro a qualcosa di vicino al blu della notte; i gradini esterni, stretti, alti e, in alcuni punti. sbrecciati a causa dell’incuria e dell’inverno, erano pericolosi. Eppure, Arvenié, dopo il pranzo, non rinunciava mai alla sua passeggiata. Terminato il ricevimento degli ospiti e delle persone con cui era in affari – ricevimento che ormai, dalla fine della guerra, si ripeteva quotidianamente, seguendo un solito rituale, e con pochissime eccezioni, sempre gli stessi convitati e gli stessi argomenti – si cambiava d’abito, rinunciando alla seta orientale di Morija e alle gonne leggere e colorate per indossare la lana calda di Ashraf e pantaloni marrone che la fasciavano stretta. Indossava poi le sue scarpe robuste, adatte alla campagna, alle passeggiate fra i suoi vigneti e alle lunghe cavalcate in Alsarias, stringendole forte alle caviglie; prendeva i guanti e un tabarro rosso da soldato, e saliva sul fronte del porto.

Stringendosi nel cappuccio, al sopraggiungere di una raffica di vento si appoggiò al muro con una mano, fra un riparo e l’altro. Preferiva i muraglioni di Santosh, dove gli artigiani avevano intrecciato, attorno ai sostegni di legno, rami di rosa selvatica, che con il tempo erano cresciuti diventando quasi un tutt’uno con il legno stesso. In primavera i rami si ricoprivano di piccoli fiori viola pallido, che avevano un profumo delicato. Arvenié aveva voluto quegli stessi rami nella sua casa, Inzilädun: il giardino di Inzilädun era silenzioso, freddamente bello, così come l’aveva voluto sua madre e così come sua madre era stata prima della malattia. Le piaceva sedersi all’ombra delle due querce, ad ascoltare la voce della gente, i rumori della strada che dal porto conduceva al mercato; guardare il mare dai muraglioni nella stagione fredda, però, anche nel cuore dell’inverno, era la cosa che aveva sempre preferito. Le permetteva di pensare.

~

Ostelar non aveva partecipato direttamente alla guerra. La città si era ritrovata, dopo gli anni di conquiste a oriente e di espansione dei commerci, troppo legata agli interessi di entrambe le fazioni che l’avevano combattuta: l’oro del Nord riempiva i forzieri della città e il ferro del Darar le sue fucine e le officine degli armaioli, e in cambio la città assicurava accesso al porto per i convogli, ricovero durante la cattiva stagione e libero transito oltre il Capo Hjarnu. Mentre dalle regioni meridionali e orientali, nemiche del Nord, giungevano la seta e spezie persino più preziose dell’oro: il pepe e lo zafferano.

Le cose erano andate bene per Ostelar, per qualche anno, con la guerra. Naturalmente. I mercanti della Lega si erano arricchiti ancora di più; il Nord era diventato via via più forte, le famiglie del Sud avevano perso gran parte della loro potenza e del loro denaro, e assieme a esso l’influenza, e quindi i non Purosangue, come Arvenié, avevano ottenuto, prestando denaro, improvviso ascolto presso i principi, e assieme all’ascolto la possibilità di affacciarsi sul Bel Mondo. E di essere corteggiati, perché no: Ziminnath non mancava mai di farle trovare un dono di qualche tipo, al mattino – ogni giorno – e Arvenié gentilmente lo ringraziava con una delle lettere che aveva già fatto preparare in precedenza, la sigillava e la profumava per fargliela recapitare, e riponeva graziosamente il dono in un baule o lo regalava alle servette di Inzilädun, con la raccomandazione, se si trattava di qualcosa di più vistoso, che non l’indossassero pubblicamente e che evitassero comunque di venderlo, non in città, perlomeno.

La guerra. Non sempre tutto può accadere senza conseguenze – in situazioni come quelle che Ostelar aveva attraversato, quasi mai – e laddove occorra giustificare solo con il profitto e gli interessi commerciali primari il supporto dato a una fazione crudele e sanguinaria, anche il diplomatico più abile può trovarsi in difficoltà. Al termine della guerra, quando il Nord, distrutta l’Alleanza di Nindàmal, aveva trionfato, la fazione del Consiglio Ristretto che, all’interno della Lega, aveva sostenuto le famiglie orientali e meridionali era caduta in disgrazia. Arvenié era alta, bella – molto bella, con i suoi lunghi capelli bianchi, il petto pieno e fiero e i fianchi forti – piacevole, intelligente, a volte brillante, furba, capace di parlare e capace di amare quando era necessario: era rimasta facilmente sulla cresta dell’onda e ben vista in società. Eshe Far, sua madre, aveva parteggiato per l’est piuttosto apertamente durante il conflitto, così come aveva fatto, nelle risse di taverna e spaccando teste ai comizi degli oppositori – non senza buone ragioni – Aldor, il suo fratello più piccolo. E anche la famiglia Eshe, quindi, aveva perso a causa ma non per colpa di Far e Aldor, molta della sua influenza. Eshe Far aveva salvato la posizione della famiglia grazie ad Arvenié, alle grandi ricchezze accumulate e al suo carisma: anche da vecchia, quando si rivolgeva al Consiglio con la sua voce roca, profonda, Far era ancora capace di far annuire in suo favore più di qualcuno degli uomini potenti di Ostelar. Alcuni l’avevano amata e ancor oggi riuscivano solo con difficoltà a dirle di no; altri ancora l’avevano temuta, un tempo, quando comandava una delle flotte mercantili più grandi della regione ed era capace di controllare i suoi capitani come se fossero stati tutti perennemente stretti a lei con una cinghia di cuoio al collo. E questi ‘altri’ la temevano ancora adesso. La Lega avrebbe potuto opporsi agli Eshe senza che la famiglia potesse far molto per controbattere e a dispetto delle belle ciglia nere di Arvenié, ma temevano Eshe Far, e non volevano scontentarla, e ancor meno desideravano offenderla, non fosse mai che qualche lettera piccante potesse ricomparire all’improvviso o qualche pegno presentato in riscossione.

Eshe Far quindi, e Arvenié che Far aveva scelto come sua erede senza pur annunciarlo pubblicamente, avevano salvato la famiglia dalla caduta. Con un solo sacrificio: Aldor.

~

Lasciò i muraglioni, e riprese a camminare verso la torre della Meridiana, scendendo verso Inzilädun. Il vento soffiava meno forte, ora: in Ostelar, il mese di febbraio sarebbe stato freddo, quest’anno. Pensò a quanto freddo dovesse fare a Sama. A Vaisala, nella casa di Aldor.

Tanadas, il più vecchio dei capitani – il gentile Tanadas, discreto, educato: Tanadas che la salutava sempre per primo – era là, come ogni giorno. In piedi, nonostante il vento, vicino alla porta di casa.

“Fa freddo, signora.”

“Molto più del solito, quest’anno, Tanadas, vero?”

“Molto più del solito, signora. L’oroscopo però è favorevole per febbraio, e certamente presto queste giornate di vento lasceranno il posto alla calma e al sole d’oriente.”

“Il sole d’oriente scalda le mura della nostra casa, Tanadas. Che possa giungere presto. Non desidero altro. E che riscaldi il mio cuore, assieme alle mie braccia, e che porti allegria. Come sta mia madre?”

“Ci sono giornate buone, signora, e giornate meno buone. Questa è una giornata di quelle meno buone. Non ha dormito molto. I suoi occhi hanno perso molte volte lucidità. Ha chiesto di voi. Sente i giorni trascorrere.”

“E non ne rimangono più molti. Lo so, Tanadas. Lo so bene. Dovrei lasciar perdere tutte queste cose, il Consiglio, la Lega, i nostri affari.”

“Non potete, Arvenié. Vostra madre non è sola. La servitù è sempre accanto a lei. Anche se foste sempre a casa, accanto a lei, vostra madre non si accorgerebbe comunque della vostra presenza, continuerebbe a chiedere di voi come se voi foste lontana. La sua mente non vede; la sua anima è distante, ormai. La medicina del farmacista Tiedra: la cannella, sapete.”

“Lo so. Certo. Lo so.”

Salutò Tanadas. Salì fino in casa, fino alle sue camere; congedò le serve, e si spogliò davanti al camino, lasciando che il caldo del fuoco l’asciugasse, poi indossò la sua vestaglia di seta, e si sedette. La bottiglia di Tiedra, quella col liquore che sapeva di cannella, il suo liquore speciale, mandò un riflesso.

Il viso di Aldor le tornò in mente. Le mancava. C’era qualcosa, a Inzilädun, nel vuoto della sera, quando i servi chiudevano le cucine per ritirarsi nelle loro camere e tutto diventava silenzioso, che le faceva rimpiangere le lunghe serate trascorse da sveglia nel salotto, ad ascoltare Aldor, che stava nelle stanze a pianterreno impegnato a giocare chiassosamente a carte e a intrattenere i suoi amici e le sottane che li accompagnavano.

Poi Aldor era stato mandato via. Era trascorso più di un anno dalla sua partenza, oramai. Su decreto del Consiglio Ristretto della Lega Mercantile, l’organo che, in tempo di pace, sovrintendeva alla politica della città, occupandosi del suo governo e di quello dei Domini Settentrionali dei Vàldali. Non formalmente, naturalmente; il Consiglio, che era eletto in base al censo e all’età, e composto dai rappresentanti delle sette famiglie mercantili più ricche, in capo alle quali veniva nominato a maggioranza un Primo Consigliere, non avrebbe voluto offendere Eshe Far, non avrebbe voluto offendere Arvenié e una famiglia così influente come quella Eshe. Ma si trattava, in tutto e per tutto, di un esilio politico. Avevano colpito lui perché non potevano colpire lei. Prima Aldor, poi, a poco a poco, in altre parti dei Domini, i suoi amici. Quegli amici, pochi, che gli erano rimasti fedeli, naturalmente, perché gli altri si erano rapidamente allontanati dalla famiglia prima di essere coinvolti nel suo momento di sfortuna.

E alcuni a questa sfortuna avevano apertamente contribuito, versando veleno nelle orecchie dei consiglieri e denigrando Aldor e le azioni ingenue che aveva compiuto. Non avevano potuto salvarlo. Troppo giovane. Da molti – e forse, da sua madre Far stessa, più di una volta questo Arvenie aveva pensato – considerato uno sciocco incapace di vedere altro che vino, donne e serate di musica e festa. Aldor aveva pestato più piedi del lecito e mangiato nel piatto dolce di più di qualcuno. Arvenié era riuscita a proteggere il fratello a lungo: per la precisione, fino a quando lui, ubriaco, non aveva reagito violentemente alla provocazione di Muzabar, figlio di Milazor, altro mercante di zafferano molto vicino alla famiglia di Valandor Hamina, il vecchio vizioso. Muzabar aveva offeso Arvenié, pesantemente e sfacciatamente: Aldor aveva picchiato Muzabar a sangue, spaccandogli naso e sopracciglia, umiliandolo e infilandolo a testa in giù in un barile di birra mezzo pieno dal quale gli avventori del bordello l’avevano tratto solo un attimo prima che soffocasse. Aldor era stato incaricato ‘di una missione diplomatica nella terra di Sama, una missione dalla durata non definita’; una sorte assolutamente migliore della morte per assassinio o del dichiarato esilio politico. Per lui e per la famiglia. Soprattutto perché la famiglia, su Aldor, aveva potuto riversare anche molte altre colpe. Non sue.

La guerra era finita. Eshe Far si era ammalata di tisi. Valandor Hamina era stato nominato Primo Consigliere. I primi bandi d’esilio per gli oppositori politici delle famiglie che si erano opposte a lui erano apparsi nella piazza del Mercato e nelle strade. Prima che il nome di Aldor fosse esposto su quelle liste, Arvenié aveva fatto intendere a Valandor di essere pronta a rivedere la politica della famiglia in suo favore, in cambio di clemenza. Concessioni, in cambio di altre concessioni.

 

(da: “Popolo senza Sogni”, racconto Fantasy)

 

 

 

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