Elegia per Hermann Nitsch: l’artista che fece della morte un’opera d’arte

Quando ci troviamo di fronte alle opere di Hermann Nitsch, si ha l’impressione di poterle comporre come pezzi di puzzle. O meglio, pezzi di una gigantesca scacchiera sulla quale il pittore e la morte avevano posato i loro sguardi in attesa della prossima mossa. Scacco matto. Ma quella di Nitsch è stata una bella partita. È durata ottanta tre anni e naturalmente si è conclusa nel mese più crudele. Crudele come la sua arte. Hermann Nitsch fu uno degli artisti austriaci più eclettici e sperimentali ad aver attraversato il Novecento. Come una freccia, la sua esperienza artistica e filosofica, ha terminato da pochi giorni la sua traiettoria per conficcarsi nel panorama odierno, penetrandolo tanto a fondo da lasciar intuire che la ferita rimasta aperta nel mondo dell’arte, non si arrenderà al normale processo di cicatrizzazione. Qui in Italia per lo meno sarà così. La sua voce, la sua poetica, tanto disprezzate fin pochi anni fa da animalisti e non solo – com’è noto, Nitsch usava spesso durante le sue performances cadaveri di animali – sono ora vittime del tipico elogio politico-mediatico che santifica tutti i grandi geni riappropriandosi e distorcendo le loro parole; ma rigorosamente quando questi sono già ridotti al silenzio. Dovremmo forse interrogarci più a fondo sul perché in Italia non sia concesso alle arti di entrare in dialogo con il quotidiano e con la politica, invece di spargere accuse (solo in alcuni casi fondate) verso artisti e intellettuali, di sterile e borghese elitarietà. Ma dopo tutto forse a noi italiani piace più la bellezza morta delle nostre antiche rovine, rispetto all’energia vitale dell’arte contemporanea.

Perché è proprio di vita che si parla quando si nomina Nitsch. Il suo famoso Teatro delle Orge e dei Misteri di fatto altro non è che una celebrazione trasversale di miti e religioni, dove il binomio vita-morte è ricorrente. In quest’ottica, lo smembramento degli animali è un richiamo al sacrificio ritualizzato che precede il momento della rinascita e della resurrezione. Basti pensare alla Passione di Cristo: narrazione che influenza profondamente l’opera del pittore, musicista e drammaturgo viennese. I Misteri citati nel titolo si rifanno d’altronde alla tradizione dei misteri medievali, sottogenere appartenente alla categoria del dramma sacro.

In breve, per mistero (dal latino misterium, “cerimonia”) si intende un dramma cantato che, esattamente come gli spettacoli di Nitsch, poteva durare più giorni. Vi partecipavano almeno un centinaio di persone tra attori e figuranti e la realizzazione di costumi e scenografie era sfarzosa, soprattutto negli episodi centrali delle pièces – il cui tema più comune era per l’appunto la Passione di Cristo – al fine di impressionare i fedeli che dovevano stupirsi nonché essere attratti dalla magnificenza della Chiesa.

Ma la vita non era presente solo a livello tematico nell’Opera di Nitsch. L’artista, tramite questo tipo di rappresentazione, voleva coinvolgere il pubblico in modo da ricreare la sensazione di catarsi del teatro greco, svegliando così le emozioni intorpidite degli spettatori che erano obbligati a uscire dalla loro (standardizzata e artificiale) comfort zone, alla quale il mondo occidentale, e l’Austria in particolare, li aveva abituati.

Per raggiungere tale scopo, il teatro di Nitsch mira ad agire sull’esperienza totale dei sensi (che vengono coinvolti tutti contemporaneamente). Ad esempio, le performances erano spesso accompagnate da musica composta da lui stesso; il sangue colpiva sia per il colore intenso, sia per l’odore imperniante e gli attori talvolta dovevano persino berlo. Attori attivi e passivi erano così uniti in un’esperienza che trascendeva i limiti del proprio sé, similarmente a ciò che accadeva durante il processo psicanalitico dell’abreazione, cui Hermann si ispirò. Per abreazione si intende la scarica di emozioni e affetti associati a ricordi difficili, esperienze infantili dolorose e traumatiche che è provocata generalmente mediante ipnosi. Ovviamente, già Freud e Breuer si erano accorti dei limiti di tale tecnica, ciò non toglie però che questo processo riscosse una certa fortuna in ambito artistico, soprattutto nell’Austria degli anni ‘60.

La scienza medica distorta e messa al servizio dell’arte; l’abuso dell’immagine della croce; i liquidi corporei sparsi sia sulla scena, sia sul pubblico; il corpo esibito nella sua nudità anche in fase di masturbazione, e infine gli animali squartati: sono i principali elementi di contestazione verso l’artista e il suo movimento da parte della società per bene che, come lo stesso Nitsch ricorda, è fatta di: “uomini che andranno in Vietnam per uccidere altri esseri umani, (ma che) non possono sopportare l’idea che in un’opera d’arte si usi una pecora morta”. L’unica parola che ci fa guardare a questa citazione come a una frase datata è “Vietnam”.

Il celebre azionista viennese è dunque un perfetto case study per mettere in relazione la complessità della scena artistica attuale con il diffuso sentimento misto di repulsione/attrazione per la violenza che abbiamo nella nostra cultura. Lo scalpore suscitato dalla sua Opera, che si è inutilmente cercato di censurare in vari modi, è paradossalmente ciò per cui sarà più ricordato dai posteri. Per dirla con Wilde: “Non importa che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli”.

Censura, scandalo, scalpore, sono termini che non dovrebbero più trovare posto nei vari periodici di carattere culturale. Sono parole che si addicono molto di più al contesto in cui Nitsch nacque – agli albori della seconda guerra mondiale – o al più tardi al contesto in cui l’artista da giovane esordì con le sue performances. Tuttavia, la situazione politica attuale sembra riportarci a quegli anni ‘40 scoppiettanti di morte e costrizione mentale. Quell’omologante ondata di ombre sembra fare adesso ritorno con ancora maggiore prepotenza. Sarà superfluo eppure simbolico aggiungere che un artista così vitale ed energico, è stato accolto e salutato per l’ultima volta dallo stesso rumore di spari e bombe. Tutte le sue rappresentazioni più eclatanti inscenavano direttamente la morte, il trauma che questa ha lasciato dietro di sé; ma lo fanno per denunciare, per dare una scossa alla “civiltà” che, bendata come molti suoi attori, sta scendendo a ritroso negli inferi da cui tentava di riemergere.

 

Giulia Gorella

 

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