I cento anni della “Lost Generetion”: la generazione perduta degli scrittori espatriati che rinasce a Parigi negli anni 20′

Siete tutti una generazione perduta”.

È così che Gertrude Stein, inconsapevolmente, segnò in modo indelebile quella che sarebbe stata la partita più intensa degli scrittori che hanno segnato la modernità della letteratura e l’abbandono dei vecchi schemi stilistici, in un periodo storico di totale perdizione come gli anni ’20 e il proibizionismo in America.
Uno fra i primi fu Ernest Hemingway con il suo primo romanzo Fiesta: the sun also rises, pubblicato nel 1926 a Parigi, a fissare sulla carta la memoria di questa etichetta: “you are all a lost generation” è l’epigrafe del romanzo, che dimostrò lo svolgersi di tutta la storia del libro.
Ma non è dell’opera di Hemingway che parliamo oggi, bensì del luogo che la ospitò insieme a tanti altri capolavori d’avanguardia: la libreria Shakespeare and Company di Sylvia Beach.
Un’americana con il sogno di aprire una libreria a New York per pubblicare e vendere tutte le opere di avanguardia degli scrittori in nascita, si ritrova a dover realizzare il suo sogno a Parigi il 19 novembre del 1919 in rue de l’Odeon 12, dove gli affitti costavano pochissimo e si respirava un’aria di libertà e concessione.

Nel giro di poco tempo, la libreria di Sylvia Beach oltre a riempirsi di libri tra i più sconosciuti, divenne la casa di tutti gli scrittori d’avanguardia degli anni ’20 a Parigi, i cosiddetti “espatriati”: americani, inglesi e irlandesi allontanati dalla loro terra per cercare sollievo, fortuna, pace in terra straniera.
Quale posto migliore di Parigi per accogliere questi animi stanchi e “perduti”, che passavano le loro giornate producendo vita dentro fogli di carta, su tele da pittore, in scantinati per recitare e si riunivano, senza nessun preavviso, tutti negli stessi caffè parigini, ballando swing e bevendo fiumi di alcol, la medicina dell’epoca per assordare i ricordi dei bombardamenti e di tutti gli affetti persi.

Con animi così sradicati, era necessario il bisogno di trovare un posto al sicuro, e Sylvia Beach lo creò con tutta la sua determinazione, aiutata dall’amica Adrienne, anche lei libraia di libri francesi dall’altra parte della strada. In men che non si dica, la voce si sparse per tutta Parigi, fino ad arrivare negli Stati Uniti, e moltissimi scrittori accorsero per vedere questa libreria “straniera” per scrittori “stranieri”, espatriati, in cerca di qualcosa che non sapevano ancora distinguere, ma che li avrebbe eretti a maestri di tutte le generazioni future.

Ciò che rese Shakespeare and Company il luogo di culto che oggi migliaia di persone vanno a visitare a Parigi, è stata la possibilità che nessuno ancora aveva offerto ai suoi lettori: dare in prestito i libri abbonandosi alla libreria. In questo modo, centinaia di volumi furono presi e letti dai nomi oggi più grandi, come Hemingway, che ne prendeva tre o quattro di più del numero consentito, ma li riconsegnava sempre, oppure James Joyce che li riportava dopo anni, se si ricordava di averli ancora. Giovani pieni di talento riempivano i loro minuscoli appartamenti, presi in affitto per un bianco e nero, senza acqua calda e con il bagno nel pianerottolo del Quartiere Latino, di opere letterarie appena scritte, e altre già conosciute: “E invece di frequentare scuole di scrittura come i loro epigoni odierni, imparavano il mestiere sul campo, scrivendo nei caffè perché a casa non c’era il riscaldamento, e prendendo in prestito da Shakespeare and Company i racconti di Checov e i romanzi di Turgeniev, per riportarli indietro dopo aver capito tutto quello che c’era da capire sull’arte di scrivere, e avere ribaltato quelle regole per inventarne di nuove.” (Shakespeare and Company, Sylvia Beach, pag.6)

Ezra Pound e Gertrude Stein erano già nomi in vista e maestri da seguire, così come James Joyce aveva già fatto chiacchierare per il suo modo bizzarro di vivere.
Francis Scott Fitzgerald e Zelda, nella loro famosa generosità, andavano spesso a trovare Sylvia Beach e le offrivano in regalo nuovi volumi di scrittori, Sherwood Anderson, Paul Vàlery, Erik Satie, Andrè Gide e il grande amico Ernest Hemingway che non se ne andava mai prima di essersi assicurato che Sylvia non avesse bisogno di aiuto in qualcosa, pur essendo egli totalmente squattrinato.

Ma il cuore della giovane libraia e della sua libreria batteva forte solo per un’opera: l’Ulisse di James Joyce. Fu Sylvia Beach la prima a battersi contro ogni rifiuto, anche il più ostinato e spesso pericoloso, per pubblicare l’opera integrale di Joyce. E ci riuscì, ritrovandosi totalmente prosciugata economicamente, ma con la profonda soddisfazione di aver dato vita alla più importante opera letteraria che il mondo abbia mai avuto nell’era moderna.

Non ne ricavò nemmeno un soldo da tutte le copie vendute, ma nonostante la scorrettezza di Joyce e la poca attenzione ai suoi immensi sacrifici, Sylvia Beach non gli serbò mai rancore perché “fin dal primo giorno avevo capito che lavorare con o per James Joyce, il piacere era mio – ed era un piacere infinito – ma i profitti suoi.” Questo modo di agire, infatti, aveva quasi mandato in bancarotta Shakespeare and Company, ma nel tempo l’Ulisse portò a Sylvia Beach e alla sua libreria una grande notorietà internazionale, oltre che la fama di una editrice audace, al punto tale che in breve tempo si trovò assediata da scrittori desiderosi di offrirle i loro manoscritti (di genere erotico) e per far colpo le recitavano pezzi a voce alta. Lei fu costretta a rifiutare ogni altra proposta di pubblicazione, avendo consumato tutto per l’Ulisse e non accettando, soprattutto, che l’opera di Joyce fosse considerata da molti parte del genere erotico, quando di erotico non possedeva nulla.

In questo modo, si ritrovò a rinunciare e a rifiutare più volte le suppliche di D.H. Lawrence con il suo Lady Chatterley’s Lovers e, più tardi negli anni ’30, Tropic of Cancer del grande Henry Miller, accompagnato da Anais Nin e dalla sua leggerezza d’animo. Tutti stentavano a credere che l’editrice dell’Ulisse, opera in assoluta più letta in quegli anni di sradicamento sociale e di rivoluzione letteraria, non avesse tratto alcun beneficio dalle pubblicazioni.

Nel tempo, Sylvia Beach divenne anche una portavoce di riviste d’avanguardia come “transistion” e “Commerce”, quest’ultima fondata da Paul Valèry, diventato poi un suo grande amico e sostenitore, il quale, insieme ad Andrè Gide, accorsero in aiuto per salvare Shakespeare and Company dalla chiusura totale. Nel 1936, Gide, insieme a tutti gli assidui frequentatori della libreria di Sylvia Beach, creò un comitato che impegnava duecento amici a versare duecento franchi a testa per due anni: “Gli scrittori del comitato dovevano leggere a turno, in libreria, un lavoro inedito; le letture avrebbero avuto luogo circa una volta al mese, e vi avrebbero potuto assistere solo i sottoscrittori, membri del circolo degli Amici di Shakespeare and Company.” (pag. 254)

Ben presto, la libreria non poté quasi più accogliere tutti gli scrittori che avrebbero desiderato aderire all’iniziativa per questioni di spazio, ma grazie all’intervento di questi animi rivoluzionari, Shakespeare and Company non dovette abbassare le serrande per sempre e la tenacia e l’amore per la letteratura dimostrata dalla giovane libraia, diventarono il caposaldo di una generazione che colmò il proprio smarrimento con il proprio talento, divenuto parte salda tra gli scaffali della casa che accolse per sempre le loro opere. Shakespeare and Company.

 

Francesca Schillaci

 

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