Negli ultimi anni si è potuto notare un crescente successo di pratiche sperimentali di composizione, registrazione e distribuzione della musica: con l’avvento del digitale, l’abbattimento dei costi dei macchinari (dal magnetofono al computer, per intenderci) e il mutamento delle pratiche di promozione (dalle majors ai social) hanno permesso una sempre più florida proliferazione di ciò che si potrebbe definire “nuova” musica, dalla trap al djent fino alla più recente Lo-Fi (letteralmente “bassa fedeltà”). Tutte queste nuove forme musicali mirano allo stesso obiettivo: portare l’ascoltatore verso nuovi orizzonti. Ed ecco spiegato perché non ci si stupisce più se in un brano da top ten, oggi, compaiono glitch acustici o varie dissonanze (come nel caso della Lo-Fi, dove si impiegano spesso accordi “intonati” per quarti o sesti di tono nel corso di una scolastica progressione armonica). Stiamo forse varcando le soglie di una nuova era dell’ascolto e della percezione musicale?
Sì, o perlomeno in parte: se quello che facevano i Rockets negli anni Ottanta era paragonabile a vera e propria fantascienza musicale, oggi gli stessi risultati denotano la prassi. Così come la società, anche il gusto personale cambia e si assesta su nuove forme musicali o, per essere più generalisti, sul “progresso”. La nozione di “progresso” in musica, nonostante sia un concetto abbastanza relativo, è proprio questa: sfruttare linguaggi e mezzi esistenti per crearne di nuovi altrettanto validi. Quando Charlie Christian nel 1932 decide di amplificare la propria chitarra attraverso un microfono a pick-up per poter competere col volume degli strumenti a fiato delle big-band jazzistiche (creando di fatto la primissima chitarra elettrica), non ci si sarebbe mai aspettato di veder nascere nei decenni a seguire repertori come quello di Jimi Hendrix o Eddie Van Halen; senza i due cantori medioevali che decidono di cantare la stessa melodia gregoriana contemporaneamente partendo da note diverse (creando di fatto la pratica polifonica), non avremmo mai avuto sistemi polifonici complessi come quello del contrappunto o tutta la teoria armonica di Rameau; senza i canti popolari africani non avremmo mai avuto il blues o il jazz, senza il blues non avremmo mai avuto il rock e così discorrendo: ogni contesto storico, culturale e locale crea sfumature diverse dello stesso linguaggio di partenza, creando qualcosa di completamente diverso. Non solo: ogni nuova declinazione della prassi musicale apre le porte a una maggiore popolarizzazione e comprensione di quelle precedenti (anche nel caso in cui siano antitetiche), poiché, implicitamente, esiste fra tutte loro un filo conduttore. Per fare un esempio, al giorno d’oggi, anche l’ascoltatore non acculturato sarebbe capace di “sopravvivere” a un brano di Ligeti, Stockhausen o Berio (ossia quelle composizioni indecifrabili per il grande pubblico della loro epoca) poiché riuscirebbe a ricondurre quelle composizioni, fatte di rumori e suoni più che di accordi da Canzoniere, ad altre musiche che si ascoltano oggi, come la dubstep o l’elettronica hardcore.
Ovviamente, tutto questo non è un percorso che è avvenuto in poco tempo: il giungere a una nuova era del gusto musicale non è mai sinonimo di fare un salto, di creare un distacco netto fra due entità, ma di contribuire a un lungo e laborioso processo di mutamento estetico collettivo. Tuttavia oggi, ascoltando attentamente, ci stiamo rendendo sempre più conto di come, in questi pochissimi anni, abbiamo imparato a interiorizzare una sostanziosa moltitudine di “nuove” musiche: qualche studente non disdegna l’ascolto di ore e ore di rumore rosa per concentrarsi nelle ore di studio, qualcuno ascolta frequentemente la famosa playlist Lo-Fi della ragazza col maglione verde e la sciarpa rossa, qualcuno comincia a sperimentare con l’integrazione di strumenti musicali distanti fra di loro (storicamente e culturalmente). In altre parole: stiamo attraversando un confine abbastanza importante, dove noi tutti stiamo imparando conoscere a fondo ciò che fino a pochi anni fa era “musica per pochi”. Avrete notato come spesso mi sia riferito alla musica Lo-Fi. Pensateci bene: certi artisti hanno incominciato a sfruttare questo genere per cambiare completamente il nostro tanto amato sistema tonale, creando musica non più con dodici ma con ventiquattro note, spezzando il semitono (l’unità musicale più piccola nel contesto tonale) in due, sfruttando i quarti di tono. È un passo rivoluzionario, musicologicamente e culturalmente significativo. A distanza di quasi un secolo, possiamo collettivamente (gente del mestiere e non) comprendere la musica elettronica colta degli studi di Colonia o dello studio di Fonologia di Milano, così come le musiche cinematografiche di Bernard Hermann al di fuori del contesto filmico o “Revolution 9” dei Beatles: si apre quindi una nuova era, nel senso che finalmente capiremo, grazie alla sensibilità dei nuovi artisti, cosa è stato davvero il secondo Novecento o, citando scherzosamente Raf, «cosa resterà di questi anni Ottanta».