Parlare di musica è sempre molto complesso, come più volte dimostrato da questa rubrica. Ci sono numerosi registri, numerose sfumature e gradi culturali che non permettono di fatto un’analisi obiettivamente completa (come direbbe Berio) di tale fenomeno artistico. L’esempio forse più significativo è l’incapacità di riuscire a conoscere e riconoscere sistemi musicali “alieni”, “esotici”, quella che volgarmente si potrebbe definire come “la musica degli altri”. Quali sono quindi le cause di tale incapacità? È possibile giungere a una universalità di fondo della musica, su cui tutti possiamo essere d’accordo?
Sarebbe imprudente non precisare che ogni popolo ha la sua musica e che quest’ultima si svolge anche grazie alla disponibilità “tecnica” degli elementi che la compongono. Infatti, soprattutto oggi, dove il mondo della produzione musicale è facilmente accessibile a chiunque, non si è mai vista così tanta musica diversa in circolazione. Non solo: si sta assistendo a un fenomeno di re-interpretazione dei generi, dove l’Occidente prende in prestito sonorità dell’Oriente e viceversa (ad esempio, il reggaeton nel primo caso è il J-Pop o il K-pop nel secondo). Questo fenomeno, che potrebbe essere volgarmente inteso come “globalizzazione musicale”, è di fatto presente e sta modificando profondamente il mercato culturale e le nuove forme artistiche. Eppure, non è un caso isolato nel corso della storia, bensì ciclico: senza fare numerosi esempi, basta guardare alla più recente storia culturale americana per comprendere come questa sia di fatto frutto di una commistione di generi, di culture diverse. Il jazz e il blues, infatti, provengono dalle cantilene degli schiavi, il musical di Broadway dall’operetta europea e così via. Volendo risalire questa tradizione musicale quasi filologicamente, verrebbe da pensare che esista una musica “originaria”, universale, madre di tutto quello che oggi siamo in grado di conoscere. O forse non è così?
Purtroppo no, non esiste una musica “originale”, archetipica. O, perlomeno, non siamo in grado di comprenderla, perché riscritta, decifrata o tramandata in maniera sempre più corrotta, sbagliata. Su una cosa, però, possiamo essere tutti d’accordo: la musica è un fenomeno rituale. Sappiamo che esiste una spiritualità di fondo del fare musicale: dal canto propiziatorio della buona caccia in epoche primitive al canto sacro delle chiese e profano delle osterie, dalla ritualità quotidiana dei monaci tibetani (dove la musica scandisce il tempo) alla “musica da ascensore” dei palazzi di New York. Eppure, nonostante anche questa affermazione sia un fatto assodato, non si è in grado di comprendere questa “musica degli altri”. Perché? La chiave di fondo sta sempre nella consapevolezza dei contesti, siano questi storici, culturali, antropologici o artistici: la globalizzazione musicale rompe di fatto il quadro contestuale in cui vive un prodotto artistico. Prendendo a prestito le parole di Luigi Nono, l’incapacità di giudizio porta a un “rincretinimento generale”, dove si alzano delle vere e proprie barriere nei confronti di ciò che non si comprende fino in fondo. Allo stato attuale, geopolitico e sociale, può essere infatti rassicurante poter vedere nella cultura a tutto tondo una possibilità di crescita personale e contemporaneamente globale. Un consiglio, in tal senso, è quello non solo di sforzarsi di ascoltare ciò che non comprendiamo o che non ci piace ma anche di riuscire a dare una motivazione del perché non ci piace, senza etichettare un intero movimento culturale come “insensato” o “inconcludente”. Non esiste una musica “degli altri” ma esiste la musica come fenomeno e le sue interpretazioni: sta a noi essere più consapevoli di questo equilibrio.