Quante pagine si leggono sul ‘Caffè triestino’? Tante, troppe notizie e descrizioni sul celebre espresso dai mille nomi e dalle infinite caratteristiche; pochi però immaginano questa particolarità della zona dal punto di vista di un barista fuori sede.
Dopo un po’ di mesi passati a Trieste, volenterosa e piena di energia comincio a mandare curriculum a diversi bar della città, nella speranza di trovare un lavoro stagionale durante le vacanze. Dopo un po’ di giorni di ricerca arrivano delle risposte, tra cui quella di uno Stabilimento Balneare vicino al Castello di Miramare.
Mi presento al colloquio e, una volta superato, non resta altro che passare dalla teoria alla pratica.
La mia prima prova lavoro è un autentico disastro: le direttive che mi vengono impartite appena arrivata sono poche: ‘Vai dietro al bancone e comincia’.
Corro in postazione e mi ritrovo davanti alla maestosa macchina del caffè, grande il doppio di quella a cui ero abituata. Subito sento la voce del mio responsabile che, senza nemmeno presentarsi e con poca pacatezza, mi assegna il primo compito: ‘Come prima cosa prepara un capo’.
Mi guardo intorno, nella disperata ricerca di aiuto, senza trovare però alcun appiglio. Se la mente non mi inganna il capo corrisponde al macchiato italiano: perché solo a Trieste troverete questi nomi per i caffè. Comincio quindi a prepararne uno: non appena immergo la bocchetta della macchina nel latte il responsabile, con occhi iniettati di disapprovazione, mi chiede se avessi mai lavorato in un bar, visto che in meno di un secondo il bricco era incandescente e la schiuma formatasi era di circa un millimetro.
E se si pensa che il culmine sia questo ci si sbaglia perché il secondo peccato capitale arriva senza farsi attendere: oso, a ripensarci non so con quale coraggio, prendere il cucchiaio per versare la schiuma nella tazza.
Un sacrilegio.
La prova caffè finisce in tragedia, ma fortunatamente la prova in sala e il resto delle preparazioni risultano più soddisfacenti e, con molta fortuna, inizio a lavorare come barista a Trieste.
Nei tre mesi a venire imparo come montare il latte, come renderlo lucido e, per la gioia di tutti, come versarlo nella tazza senza il cucchiaio.
Capo, Capo in B, Caffellatte, gocciato: finalmente imparo questi nomi fino a poco tempo prima sconosciuti.
Voglio dare un consiglio ai fuori sede, ai turisti e a tutti coloro che passeranno per Trieste: se volete, a mia detta, tenere tra le mani l’emblema della caffetteria triestina ordinate il classico e mai scontati capo in B, per la gioia vostra e del barista che lo preparerà.
La mia avventura non termina però con il fine della stagione: infatti le vicende da barista a Trieste continuano in un nuovo bar, questa volta locato in zona Viale XX Settembre. Acquisisco sempre più dimestichezza con la macchina del caffè e osservo sempre più tutto ciò che mi circonda, compresi i clienti che mi trovo davanti; infatti il triestino ‘medio’ regala sempre nuove impressioni, perché nessuno è uguale all’altro e ognuno ha qualche caratteristica, o spesso stranezza, che lo rende unico nel suo genere e degno di nota: ma questa è un’altra storia.