Luca Puglia, artista ontologico

Luca Puglia è un artista romano. Si dedica alla pittura fin da giovanissimo, approcciandosi alla tela da autodidatta e seguendo un percorso di ricerca artistica del tutto innovativo, incentrato più su una formazione filosofico-teologica che di apprendimento delle tecniche pittoriche. Artista estremamente prolifico, Luca Puglia ha sviluppato un personale modo di dipingere incentrato sulla rivelazione dello spirito. La sua pittura astratta si contraddistingue per il particolare uso del colore. Nella tavolozza cromatica dell’artista, infatti, troviamo anche il suo stesso sangue, che dona alle sue opere una forte carica vitale. Dopo la sua prima personale, che si è tenuta a Roma nel 2005, Luca Puglia ha partecipato a numerose mostre sul suolo nazionale ed internazionale, ricevendo svariati riconoscimenti tra cui il Premio Biennale per le arti visive “Oscar dell’arte”, che gli verrà conferito per la seconda volta proprio oggi a Montecarlo dalla direttrice artistica dell’ArtExpò Gallery, Mariarosaria Belgiovine.

Hai seguito un percorso didattico molto particolare, quali sono i motivi che ti hanno spinto a preferire una formazione umanistica ad una strettamente artistica e come credi che questa tua scelta possa aver influenzato la tua pittura?

Ho deciso di dedicarmi allo studio della filosofia e della teologia per cogliere l’ontologia delle cose. Infatti, questo tipo di formazione mi ha permesso di acquisire una forma mentis tale da consentirmi di scavare nelle profondità della vita e indagarne l’essenza. Sono sempre stato attratto dalla dimensione spirituale, ecco perché fin da subito ho pensato che lo studio artistico ‑ nello specifico quello relativo alle tecniche pittoriche ‑ non avrebbe aggiunto nulla alla mia arte. Da ciò deriva la mia scelta di applicare la ricerca della verità ontologica alla pittura. Proprio questa decisione, infatti, mi ha reso libero da tutte quelle sovrastrutture che poco hanno a che fare con l’arte, consentendomi di concentrarmi piuttosto sulla ricerca continua dell’invisibile per renderlo visibile.

Il motivo di questa tua scelta formativa è dettato dal fatto che l’arte è per te un mezzo e non un fine?

Non direi, la mia pittura è al contempo mezzo e fine, è un percorso di ricerca che ha come scopo l’illuminazione delle coscienze.

Come raggiungi questo obiettivo?

Sono nato come pittore figurativo, ma ben presto ho capito che questo approccio non si confaceva alla mia ricerca, così ho deciso di eliminare il tratto figurativo dalla mia pittura, non ritenendolo utile né come mezzo né come fine per aprire le coscienze. Ho dunque deciso di abbandonarlo per abbracciare nuovi orizzonti di sperimentazione e ricerca.

La tecnica che utilizzi è quella della pittura ad olio, quali sono i motivi di questa tua predilezione; i vantaggi e gli effetti che essa ti permette di ottenere?

Per me un’opera comincia con la scelta del supporto e dei materiali da utilizzare. Essendo io un pittore ontologico, ai fini della mia ricerca, prediligo l’utilizzo di materiali pregiati, come ritengo siano i colori ad olio e i pigmenti, che mi consentono di ottenere superfici corrusche, dove il colore si coagula in un magma di sfumature e ritmiche increspature – per citare le parole con cui il critico d’arte Marco Cagnolati ha descritto la mia pittura all’interno del suo saggio critico a me dedicato. Un materiale come l’acrilico, ad esempio, è ontologicamente basso e non credo si addica al tipo di indagine cui le mie opere tendono. La pittura ad olio mi permette, invece, di sprofondare nell’infinito, che è lo stesso motivo per cui ho deciso di utilizzare sulla tela anche il mio sangue. Credo che esso sia ontologicamente la materia suprema.

Entrambi, sia i colori ad olio che il mio sangue, se usati con la semplicità del principio divengono concetto finale universale.

Puoi spiegare più nel dettaglio da dove deriva la tua decisione di mescolare i pigmenti al tuo sangue e che significato assume questo gesto?

Le ragioni che mi hanno spinto a sperimentare l’utilizzo del mio sangue sulla tela sono molteplici. La prima è da ricercarsi nella forte carica vitale e colorante del sangue, nelle proprietà pigmentanti dei globuli rossi. Negli anni, ho sperimentato e studiato un’apposita tecnica per impedire l’alterazione del materiale biologico e consentire di preservarne la colorazione. Una seconda ragione è insita nel significato profondo che assume per me l’‘emopittura’, strettamente legata ad un piano emotivo, passionale ed intimo. Il sangue ottenuto attraverso un prelievo diventa un medium storico-pittorico, materia prima e pura delle mie opere d’arte, strumento per evidenziare la contrapposizione tra spirito e materia, infinito e finito.

Hai dichiarato che le tue opere nascono da una spinta interiore che ti conduce davanti alla tela non sapendo cosa realizzerai, dunque si potrebbe definire il tuo approccio molto istintivo. Credi che questo abbia uno rapporto stretto con l’utilizzo che fai del colore?

L’animo umano è sempre in lotta con molte forze: istinto, travaglio emotivo, disagio, desiderio di ricerca assoluta del vero, del buono, del bello. Quando, con una giusta meditazione introspettiva, tutto ciò si placa, lasciando la mente priva di forme, idee, cose, ecco che per me giunge il momento della creazione. In quell’attimo mi sento improvvisamente spinto verso la tela in uno stato di vuoto mentale e so che la creazione di un’opera è cominciata. A quel punto i colori saltano alle mie mani da soli, non vi è scelta da parte mia. Mi sento rapito e non ho percezione dell’atto in corso, non mi interessa nemmeno quale colore sto usando. La mia missione è essere un medium, portare alla luce il nascosto. Dunque, assicuratomi di avere gli strumenti necessari, agisco come in estati. Una volta terminato l’atto divengo io stesso spettatore dell’opera e ascolto il suo messaggio universale. Come ho già detto, so quando l’atto comincia e quando finisce e non rimetto mai mano ad un’opera. Non c’è spazio per errori o correzioni. Allo stesso modo, si noti che non ho mai dipinto, anche quando usavo il figurativo, basandomi su un’idea di forma. Non lo farei mai, lo percepirei come un inganno e non genererei più.

 Jackson Pollock diceva che dipingere è azione di auto scoperta e che ogni buon artista dipinge ciò che è. Ti ritieni d’accordo?

Certamente, ogni vero artista dipinge ciò che scopre e che diventa parte di sé.

Più in generale, potresti dirmi qual è per te la funzione dell’arte?

Nel tentativo di giungere alla verità, l’artista si ritrova in continuo equilibrio-squilibrio sul confine della pazzia, della malattia mentale. Un artista genera per necessità ed il messaggio intrinseco dell’opera è il suo scopo. Onestamente, non credo che la funzione dell’arte interessi davvero all’artista. Sembra una contraddizione, ma non lo è. Però per rispondere alla tua domanda, aggiungo che sicuramente l’arte serve a sconvolgere, a rompere gli schemi, a eliminare tutte le barriere che impediscono all’individuo di essere libero.

Hai esposto parecchio, da Londra a Miami a Milano e nel 2018 arriverai in Giappone. Quali sono le tue speranze per il futuro?

Il mio rapporto con l’arte è quotidiano, dipingo quasi ogni giorno. La mia speranza per il futuro è più che altro quella di continuare a farlo, di avere la capacità di generare sempre. Ogni volta che realizzo un’opera, infatti, mi chiedo se riuscirò mai a farlo ancora. 

[Luca Puglia: www.lucapuglia.com]

Giulia Zorat © centoParole Magazine – riproduzione riservata

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