I PIGMENTI: PROPRIETA’ E ORIGINE
Il colore esiste in una duplice natura, fisica e chimica: se la prima è legata all’interazione tra la materia e la luce e ai meccanismi della visione; la natura chimica si spiega invece tenendo conto che la proprietà cromatica è conferita dalla presenza di determinate sostanze che conferiscono all’oggetto, e in particolare l’oggetto artistico, determinate caratteristiche dette colori.
L’uso di materiali colorati è stato, sin dall’origine delle civiltà umane (dalla Preistoria alla Storia sino ai nostri giorni), e in particolare nelle manifestazioni artistiche e figurative, un fatto imprescindibile per la definita rappresentazione della realtà e un arricchimento delle stesse immagini; tali materiali sono stati ricavati sia da fonti naturali dirette, minerali e vegetali in particolare, oppure ottenuti tramite opportuni procedimenti di sintesi partendo da sostanze presenti in natura. La disponibilità di sostanze colorate (distinguibili in pigmenti e coloranti) costituisce una condizione indispensabile per l’esistenza delle tecniche artistiche (pittoriche in particolare). La maggior parte di queste, a prescindere dalla particolare tecnica di realizzazione, ha una struttura che si articola in strati: sul supporto (murario, tessile, cartaceo o ligneo) è stesa una preparazione atta ad accogliere la stesura pittorica; questa è composta da un impasto di sostanze colorate, generalmente polveri dette pigmenti, di granulazione variabile a seconda del composto, e di un medium trasparente che ha la funzione di distribuirle omogeneamente, legarle tra loro e farle aderire alla superficie sottostante; per fini protettivi ed estetici, sullo strato pittorico viene generalmente steso uno strato di vernice protettiva che deve essere trasparente, incolore e inerte rispetto ai materiali dello strato pittorico.
I materiali colorati più usati nelle arti pittoriche sono i pigmenti e i coloranti, aventi comune scopo ma caratteristiche molto diverse. Si definiscono pigmenti tutte le sostanze che si presentano sotto forma di polveri più o meno fini, dotate di proprietà coloranti, insolubili nel veicolo disperdente col quale formano un impasto più o meno denso che, anche se steso in strato molto sottile, manifesta proprietà coprenti; i coloranti, invece, sono sostanze trasparenti, solubili, capaci di impartire la loro proprietà colorante ad altre sostanze non colorate per inclusione, assorbimento o attraverso la formazione di legami chimici stabili con esse. Quest’ultimi, per essere usati in pittura, devono essere convertiti in pigmento; generalmente, vengono fatti assorbire da polveri o gel di sostanze inerti incolori e a volte traslucide con lo scopo di ottenere, per mescolanza col medium, paste stendibili simili a quelle ottenute coi pigmenti. Quando il materiale che fa da supporto e conferisce il corpo alla tinta è un gel traslucido, il pigmento derivante è definito lacca.
I fenomeni che interessano il comportamento della luce sulla materia coinvolgono anche le componenti dello strato pittorico. Il colore del pigmento che conferisce la proprietà cromatica deriva dai coefficienti di assorbimento della luce bianca che agiscono selettivamente sulle diverse lunghezze d’onda (questo in relazione alla composizione chimica). Data la suddivisione in polvere più o meno fine del pigmento, la determinazione complessiva del colore si ha dai fenomeni di riflessione diffusa, della rifrazione e dell’assorbimento selettivo. Ciò determina anche il grado di opacità e il potere coprente della materia pittorica. La diffusione della luce è direttamente legata alla granulazione del pigmento (in generale, più esso è fine maggiore è la diffusione); ma è basilare anche il rapporto tra l’indice di rifrazione del pigmento e quello del medium (maggiore è il rapporto, più opaco risulta il film): in generale, più un pigmento è macinato finemente e ha un indice di rifrazione maggiore rispetto al medium, maggiore risulta la capacità del film pittorico di coprire la superficie della preparazione di fondo. Rilevante è anche la concentrazione del pigmento rispetto al medium. Quindi, in relazione al maggiore o minore potere coprente del film pittorico, una frazione del raggio luminoso, superando lo strato di pittura, può raggiungere più o meno il sottofondo della preparazione nei confronti del quale possono verificarsi ulteriori fenomeni di scattering e di assorbimento; solitamente bianche (rosse nel caso della stesura di foglia d’oro, verde nel caso delle pitture medievali), queste preparazioni servono, sotto il profilo ottico, a dare particolare risalto al film pittorico per contrasto o conferire particolari intonazioni sfruttando l’assorbimento selettivo del sottofondo: sullo stesso principio si basa la tecnica delle velature. Lo strato di vernice, oltre ad avere funzione protettiva, agisce otticamente sullo strato pittorico attenuandone fortemente lo scattering, facendo variare l’indice di rifrazione del pigmento; l’effetto è quello di diminuire o eliminare la diffusione biancastra e permetterci di apprezzare al meglio il colore di ogni pigmento. Ciò comporta comunque un lieve abbassamento dell’intensità di riflessione (detto abbassamento tonale), dovuto all’effetto leggermente filtrante della vernice per cui i colori risultano moderatamente più scuri rispetto al dipinto non verniciato. La vernice introduce inoltre una componente inevitabile di riflessione speculare della luce, provocata dalla superficie piana e otticamente omogenea che la distingue; per ovviare a tale effetto, che può disturbare l’osservazione sotto particolari angoli di visuale, si utilizzano vernici studiate appositamente. Analizzando il percorso di un raggio di luce bianca attraverso una superficie dipinta si osserva che: parte del raggio viene riflesso specularmente dalla superficie della vernice, mentre l’altra frazione, che ha perso parte della sua intensità ma non delle componenti incidenti, attraversa lo strato di vernice e subisce una rifrazione; questa porzione arriva allo strato pittorico e può essere in parte diffusa, in parte assorbita selettivamente, mentre una parte può attraversare tutto lo strato pittorico subendo una nuova rifrazione; quest’ultima può essere ulteriormente diffusa o assorbita. Tutte le componenti, che in tale percorso sono state riflesse o specularmente o per diffusione, ritornano all’occhio determinando l’effetto finale della percezione. Per alcuni pigmenti costituiti da granuli trasparenti una macinazione troppo fine aumenterebbe sì il potere coprente ma comporterebbe anche una perdita di colore, dato che lo scattering della luce bianca diventerebbe predominante sull’assorbimento selettivo; ciò può essere risolto controllando la granulazione in modo da raggiungere una situazione di compromesso: casi significativi sono quelli del Lapislazzuli, l’Azzurrite, la Malachite, e lo Smaltino. Importante nella preparazione della pasta è la grandezza del pigmento macinato, e la sua forma. Le particelle primarie sono quelle di più piccola dimensione e a seconda della forma si dividono in nodulare (come l’ossido di Titanio, o Bianco di Titanio), aghiforme (come il Bianco di Zinco), o laminare ossia a forma di scaglie (come il Caolino). Gli agglomerati sono accumuli più o meno grandi di particelle primarie riunite mediante strutture non compatte al cui interno sono presenti cavità piene d’aria. Infine vi sono gli aggregati, concrescenze cristalline dure e difficilmente disperdibili rispetto gli agglomerati.
L’aspetto di un film pittorico è influenzato dalla concentrazione del pigmento nel legante: se il legante è in forte eccesso rispetto al pigmento formerà una pellicola in cui la componente solida è ricoperta abbondantemente dando un aspetto lucido; al contrario, se il legante è appena sufficiente a tenere insieme le particelle di pigmento facendo sì che questo emerga si avrà una resa opaca; quando invece le due percentuali sono in equilibrio si ha un effetto satinato. Per ottenere una pittura lucida, bisogna usare un pigmento con un indice di rifrazione elevato perché non si avrà cambiamento dell’indice di rifrazione nel passaggio dall’aria al legante. Nel caso, invece, di una pittura opaca, i pigmenti impiegati possono avere un basso indice di rifrazione in quanto risultano parzialmente scoperti; quelli dotati di basso indice sono detti anche cariche o extender (o pigmenti secondari), impiegati per garantire maggiore possibilità di ancoraggio degli strati di pittura successivi, migliore pennellabilità e altri vantaggi pratici.
Sotto il profilo chimico, i pigmenti si distinguono in organici e inorganici. I primi sono composti costituiti essenzialmente da Carbonio e Idrogeno; nella tavolozza classica esistono coloranti organici fissati su supporto semitrasparente inorganico, in genere polveri, solitamente ossido idrato di Alluminio: esempi ne sono i vari tipi di lacche e i colori derivati dal catrame; e possono essere di origine sia vegetale che animale. I secondi, per lo più di origine minerale, sono costituiti da ossidi, carbonati, solfuri, solfati e altri composti derivati dai metalli, aventi di solito struttura cristallina. Le principali proprietà che deve possedere un pigmento sono l’insolubilità nel medium e nella prevalenza dei solventi, compresa l’acqua; la stabilità chimica (ossia la resistenza agli agenti chimici che potrebbero decomporli, in particolare durante le fasi di restauro); l’inerzia verso le sostanze con cui devono essere mescolati. Normalmente, un dipinto non viene sottoposto ad alte temperature né viene a contatto con acidi e alcali forti ma la luce, l’aria, e gli agenti inquinanti associati all’umidità possono modificare singolarmente o contemporaneamente le proprietà e la composizione di un pigmento. I pigmenti contenenti sostanze organiche sono meno stabili rispetto all’azione della luce che tende a scolorirli, insieme all’umidità che accelera il processo. I pigmenti inorganici, più stabili alla luce, possono però essere soggetti a reazioni chimiche che li alterano o degradano. Generalmente, l’azione della luce è più marcata quanto più le radiazioni che la compongono sono ad elevata energia, quindi quanto minore è la loro lunghezza d’onda (sono quindi pericolose le radiazioni blu, violette e le ultraviolette); a causa di ciò, nei musei si scherma la luce tramite opportune metodologie per ovviare o quanto meno ritardare gli effetti degradativi della luce sulle opere d’arte. Anche l’aria ha un ruolo di primo piano nell’azione di degrado delle opere; soprattutto l’Ossigeno tende a combinarsi con alcuni pigmenti causando una variazione di colore. Sono presenti anche altri agenti potenzialmente aggressivi, quali l’umidità e altri gas in forma di impurezze alle quali sono sensibili alcuni pigmenti. Luce, umidità e aria possono agire in concomitanza e provocare o uno scurimento, una perdita di colore o un’alterazione cromatica dei pigmenti; in particolare l’Ossigeno provoca reazioni di ossidazione con la conseguente trasformazione della natura del pigmento, in primis quelli di natura organica, ma anche quelli inorganici (ad esempio la Biacca e il Minio tendono a mutare in biossido di Piombo, bruno scuro, come si riscontra in alcune pitture murali). L’acido solfidrico (H2S) interagisce con tutti i pigmenti contenenti metalli formando solfuri neri (ad esempio il Piombo della Biacca, o l’Argento in foglia); l’anidride carbonica, associata all’umidità, è coinvolta in reazioni complesse che interessano soprattutto alcuni pigmenti costituiti da ossidi o carbonati (esempio ne è il degrado dell’Azzurrite in carbonati basici di colore verde). Inoltre, bisogna tener conto dell’azione degli ossidi acidi dello zolfo (SO2 , SO3) presenti nell’aria che, combinandosi con l’acqua portano alla formazione di acidi forti che provocano la solfatazione. Generalmente, lo strato protettivo della vernice impedisce o quanto meno rallenta l’azione degradativa degli agenti presenti nell’aria; alcuni pigmenti, invece, sia al momento delle mescolanze che nei momenti successivi, se il legante non è sufficientemente protettivo, possono interagire tra loro: ad esempio i pigmenti contenenti solfuri, ad eccezione del Vermiglione (solfuro di Mercurio, insolubile e quindi stabile) tendono a reagire coi pigmenti a base di Piombo e Rame formando solfuri scuri; i cromati possono ossidare vari pigmenti organici con catalizzazione della luce causando perdita di colore e trasformazione degli stessi in Verde Ossido di Cromo; mentre i bitumi, tendenti a non asciugare mai completamente, provocano coi loro movimenti e contrazioni le reticolazioni della superficie pittorica con larghe crettature coinvolgendo gli strati pittorici adiacenti.
Tra le altre proprietà dei pigmenti vi sono quelle legate all’interazione col legante; per essere usati, devono venir miscelati con un medium adesivo in modo da formare una pasta facilmente stendibile: le caratteristiche della pasta dipendono dalla natura del pigmento e del legante stesso, che deve essere usato in quantità specifiche a seconda delle caratteristiche del primo. Il medium, col tempo, può ingiallire e modificare l’aspetto cromatico del pigmento in esso disperso. Ciò è molto frequente se il legante è l’olio di lino, sostanza tendente all’ingiallimento. Alcuni pigmenti mostrano una spiccata affinità per un determinato legante, mentre risultano incompatibili con altri: ne deriva che alcuni pigmenti sono usati in funzione di una determinata tecnica pittorica. Il tipo di medium, dotato di un indice di rifrazione specifico (gli oli hanno un indice di rifrazione più elevato rispetto agli altri), gioca un ruolo di rilievo nel tono finale del pigmento, facendo risultare alcuni più trasparenti, meno riflettenti e più scuri rispetto ad altri: ad esempio, la Terra Verde risulta trasparente in olio, ma opaca se usata nella tempera; mentre le lacche rosse in olio risultano sì più trasparenti ma acquistano maggior calore. Si hanno non solo incompatibilità fisiche, ma anche chimiche in relazione alla tecnica usata: nella tecnica dell’affresco, in cui si fa uso di un medium alcalino (il Calcio idrossido), vengono esclusi di fatto molti pigmenti in quanto sensibili agli alcali; si usano pertanto ossidi minerali stabili (Terre e Ocre) o sostanze inorganiche inerti come silicati (come la Terra Verde), i neri a base di Carbone, il carbonato di Calcio (noto come Bianco di San Giovanni), e molti altri.
Il colore nell’arte antica ha giocato un ruolo variabile. Se gli Egizi hanno affrontato sforzi incredibili e dimostrato abilità impensate nel preparare i colori per dipingere, i Greci e poi i Romani hanno dimostrato un gusto per la decorazione vincolato a una gamma ancora limitata di pigmenti; il Rinascimento avrà poi il compito di reinventare la pittura dell’Antichità: infatti, la Grecia classica è vista come l’età dell’oro dell’arte.
Ma già gli artisti del Paleolitico decoravano le caverne almeno 30000 anni fa e sapevano usare pigmenti opachi ricavati dalla terra, uniti intenzionalmente a olio vegetale come legante e altri additivi: si usano terre contenenti ossido di Ferro dall’Ematite per il rosso e il giallo, terre verdi dalla Celadonite e Glauconite, nero dal carbone vegetale, marrone dall’ossido di Manganese, e bianco dal Gesso o dalle ossa opportunamente trattate.
A dispetto di ciò che si può credere, gli antichi Egizi praticavano una chimica avanzata quasi quanto la moderna e la contemporanea. Ad esempio, crearono la cosiddetta Fritta Egizia nota anche come Blu Egizio, già dal 2500 a.C., ed esso fu il risultato intenzionale di un lavoro consapevole: ess0 consta di una miscela di Calce (ossido di Calcio), ossido di Rame, Quarzo (Silice) cotti a 800- 900 °C e poi ridotta in polvere. Il chimico antico aveva quindi a disposizione, come unico agente di trasformazione, il fuoco (per esempio, per creare l’antimoniato di Piombo giallo o la Fritta Egizia); si conosceva l’uso rudimentale degli acidi e degli alcali per la corrosione del Piombo e del Rame per ottenere rispettivamente la Biacca e il Verderame (finchè a inizio Medioevo gli Arabi non inventarono gli acidi forti, il solforico e il nitrico, l’unico acido era quello acetico, contenuto appunto nell’aceto); conosceva anche i meccanismi della fermentazione, della sublimazione, della precipitazione e della filtrazione. Le pratiche per ricavare i pigmenti erano fasi secondarie ad altre pratiche legate alla chimica, quali la fabbricazione del vetro, della ceramica e del sapone. Oggetti smaltati a imitazione del Lapislazzuli furono prodotti in Medio Oriente già dal 4500 a.C., tramite il riscaldamento di minerali di Rame come Azzurrite e Malachite. Nella produzione tessile, erano importanti l’allume, la soda caustica, e i coloranti blu Indaco e il Rosso Chermes ricavato da insetti. Ci sono giunti papiri scritti in greco, oggi conservati a Leida e Stoccolma, contenenti le ricette per ottenere i colori e le tecniche di tintura dei materiali. Gli Egizi sfruttavano un’ampia gamma di pigmenti: i minerali rameici della Malachite per il verde, l’Azzurrite blu, solfuri di Arsenico per il Giallo Orpimento, l’Arancio Realgar, ossidi di Ferro per le Ocre, il nero dalla fuliggine, e il bianco dalla Calce; creavano anche miscele, ad esempio quella a base di Fritta e l’Ocra gialla per creare alcune tonalità di verde. Scoprirono procedimenti per ottenere il carbonato basico di Piombo, ovverosia la Biacca, dal sale acetato di Piombo corroso con l’aceto, in ambienti destinati alla fermentazione del letame; analogamente si otteneva il Verderame, usando Rame al posto del Piombo. I Romani inventarono il Minio, riscaldando la Biacca.
I Greci ritenevano che la pittura dovesse basarsi su quattro colori (bianco, giallo, rosso e nero) escludendo gli azzurri in quanto rientranti nella categoria dei pigmenti neri; era opinione e pratica diffusa che i pigmenti non dovessero essere miscelati per evitare l’altrimenti inevitabile perdita di brillantezza degli stessi. Inoltre, ritenendo la nuda pietra priva di una pur minima sacralità, si eseguiva una pittura estremamente colorata come ci testimoniano gli sporadici esempi rimastici di frammenti pittorici e sculture dipinte; essi inventarono anche la prima pittura illusionistica tridimensionale. La conoscenza chimica beneficiò dell’incontro tra le culture dell’Occidente e dell’Oriente, già dall’epoca dell’Impero Ellenistico, con la conoscenza del Rosso Cinabro, il Blu Indaco e il Rosso Sangue di Drago. Ma al tempo stesso si criticava l’uso dei nuovi colori, considerati solo come vezzi esotici che intaccavano le buone tradizioni; la cultura ellenistica, invece, è stata meno rigida rispetto le precedenti riguardo l’uso delle miscele di colori. I Greci inventarono, e poi i Romani perfezionarono, la pittura con la cera (encausto); questi ultimi inventarono anche la tecnica dell’affresco. Data la vaga base linguistica nell’identificazione dei colori, gli autori classici e medievali, per trattare dei colori per la pittura, facevano riferimento alla sostanza di cui i pigmenti erano costituiti (ciò è testimoniato dall’incertezza attuale nell’identificazione degli azzurri dai gialli nel periodo medievale); le considerazioni sulla tavolozza limitata ai quattro colori della pittura greca, riprese da Plinio nella sua Storia Naturale, forniscono una lista, seppur vaga ed ermetica in alcuni punti, dei pigmenti usati nell’Antichità.
Col tempo, la chimica pratica si è ammantata di componenti filosofiche e mistiche: è la pratica dell’alchimia, branca eretica della chimica che ha fornito molte creazioni (soprattutto pigmenti) in relazione al tentativo quasi mitico di creare la pietra filosofale per la mutazione dei metalli. Essa era una disciplina mirante a svelare i segreti della natura del mondo ove le proprietà della materia e le sue trasformazioni erano inseparabili dalle qualità dell’uomo e la sua vita spirituale. Sino al Seicento, era una pratica nota e praticata: si pensi a Newton, Dürer e Parmigianino. L’alchimia è l’arte della trasformazione dei materiali, permettendo la creazione dei colori artificiali (si pensi, ad esempio, il Libro dell’arte di Cennino Cennini, 1398). Robert Boyle, nel suo Il chimico scettico (1664) distingue i ciarlatani e gli iniziati alla teoria alchemica. Nel Medioevo, i pittori compravano i materiali da speziali e apotecari, artigiani che producevano personalmente i pigmenti; in quest’epoca il colore assume la massima importanza, ed è ritenuto la manifestazione esteriore delle proprietà intrinseche della materia.
Dai manuali dell’Antichità si capisce che la frode era pratica esplicita: il papiro di Leida spiega, ad esempio, la modalità di creazione dell’oro dal Rame senza venir scoperti. Il Vermiglione, ovvero solfuro di Mercurio sintetico, sostituisce il Cinabro naturale usato sin dall’Antichità; tra i primi a formularlo vi fu l’alchimista arabo dell’ottavo secolo noto come Geber: Zolfo e Mercurio sono ritenuti i principi elementari da cui provengono tutti i metalli e sono alla base del Cinabro; è quindi usato come base di partenza della creazione della pietra filosofale in alcune delle ricette alchemiche. Il Vermiglione è una delle innovazioni più importanti del Medioevo e il principale pigmento rosso del tempo (basti pensare a quanto afferma Teofilo nel 1122 circa nel suo Taccuino delle varie arti). In seguito la sintesi fu perfezionata in Olanda, al punto di diventare il principale centro di produzione del pigmento in Europa nel Seicento, partendo dal nero Minerale Etiope polverizzato e scaldato a temperature elevate facendolo diventare solfuro di Mercurio rosso: è il procedimento detto a secco. Fu poi scoperto il procedimento a umido, scaldando il minerale con solfuro ammonico o potassico: si trattava di un metodo meno costoso e laborioso di quello olandese. Il rosso è quindi la tinta primaria della chimica e dell’arte medievale. Arsenico e Piombo sono alla base di composti semplici di volta in volta rossi, gialli, bianchi o neri, alcuni dei quali usati in pittura; l’Arsenico era a volte confuso con lo Zolfo (il solfuro di Arsenico giallo è noto come Orpimento, considerato una variante dello Zolfo puro; preferito dagli artisti nella forma sintetica rispetto il minerale naturale, Cennini raccomandava di lasciarne la produzione agli alchimisti data la velenosità del materiale). Il Piombo, manipolato col calore, genera vari colori: nero, bianco (ovvero la Biacca), giallo (il Massicot), e rosso (il Minio).
C’è contrasto tra le ricette degli scritti alchimistici e quelle di Teofilo e Cennini; ma vi sono anche legami di parentela. Tra i vari testi esistenti, il libro di Teofilo si distingue per la chiarezza e l’immediatezza che paiono insolite per l’epoca, in quanto egli stesso era un’artista di professione, e le sue ricette non si ammantano di segretezza: per lui, l’arte è un’attività devota volta a glorificare Dio. Tra l’Undicesimo secolo e il Trecento, la pratica della pittura si sposta dai monasteri alle città, con l’affermazione di professionisti laici a pagamento, con inevitabili conseguenze sulle tecniche di lavorazione. Nascono le Corporazioni delle arti, e come professionisti i nuovi artisti erano disposti a compromessi con altri soggetti, ad esempio usufruivano dei forni dei fornai per la preparazione del pigmento nero. Per entrare in una corporazione bisognava seguire un lungo e duro apprendistato, partendo dalle pratiche di macinazione dei colori e la preparazione della colla (si pensi alle ricette di Cennini): questo spirito prefigura il Rinascimento.
Il Medioevo ha ereditato dall’Antichità il Minio e il Cinabro rossi, il Blu Oltremare derivato dai Lapislazzuli (importati dall’Oriente, dalle miniere del Badakshan in Afghanistan in primis) e l’Azzurrite (carbonato basico di Rame, prodotto in Francia orientale, Ungheria, Germania e Spagna; noto ai Romani come Lapis Armenius e poi, in Inghilterra, come Azzurro d’Alemagna). Il termine medievale “azzurro” è usato ambiguamente per ogni pigmento blu. Il Lapislazzuli era un materiale costoso, mentre l’Azzurrite è usata per la sua economicità e varietà a seconda del grado di macinazione. L’Oltremare Naturale prevede la macinazione del minerale in granitura non eccessivamente fine (in realtà è un miscuglio di minerali, tra cui la Lazurite, ossia alluminosilicato di Sodio contenente gruppi di due o tre atomi di Zolfo che conferiscono la tonalità blu; Pirite, ossia un composto di Zolfo e Ferro; Calcite e altri silicati che conferiscono la colorazione grigiastra al materiale polverizzato). La tecnica di produzione di questo pigmento è medievale, forse importata in Europa dall’Oriente; il procedimento per ottenerlo è complesso e richiede più fasi di lavorazione per eliminare le impurezze, come ci tramanda Cennini: si ottengono così un Oltremare puro (ricavato dal primo lavaggio in lisciva) e uno impuro (detto Cenere di Oltremare e qualitativamente inferiore). L’introduzione della tecnica ad olio costituì una sfida alla superiorità dell’Oltremare, che qui perde la sua maestosità; per ovviare a ciò, si addizionava Biacca, ma in pieno Umanesimo l’idea di corrompere la purezza del pigmento era impensabile. Tale esigenza col tempo è scemata, preferendo puntare sulla bravura tecnica degli artisti (si pensi a Tiziano); usato frequentemente in Italia, questo pigmento era più raro nel resto dell’Occidente. Non essendoci una valida alternativa per la tecnica dell’affresco, era ritenuto un articolo di lusso per i pittori (come in generale tutti i pigmenti azzurri).
È l’età di scoperta e ricerca sulle lacche: Chermes, Gommalacca, Radice del Brasile (prima importata dall’Asia, poi dalle Americhe), Robbia (dal Nord Europa), Cocciniglia (dalla Polonia); si utilizza la Sinopia dal Mar Nero (termine usato nel Medioevo sia per identificare il colore rosso che quello verde), Orpimento dall’Arsenico, Giallorino dall’Antimonio, Giallo di Napoli da materiali delle pendici del Vesuvio, Lacca Arzica e Zafferano per i gialli usati a imitazione dell’oro; Verderame, Verde Ramno e Verde Iris come verdi.
Il Rinascimento, nonostante miri a far risorgere gli ideali dell’epoca classica, non ne condivide la presunta austerità cromatica e testimonia il piacere ricavato dalla ricchezza del colore puro e splendente, che rimarrà quasi sempre immutato sino al Novecento. Gli artisti mutano i modi di organizzare la gamma dei colori, in continua espansione; si mira poi alla riproduzione fedele della natura. La scienza chimica non è mutata di molto rispetto all’epoca precedente. La tridimensionalità, introdotta nuovamente in pittura da Giotto, capovolge l’ortodossia artistica medievale, ove il colore è il mezzo di un simbolismo mistico legato al culto di Cristo; si pensi ai dettami de La pittura di Leon Battista Alberti. Fino all’introduzione in Italia della tecnica ad olio, che determina un ampliamento della gamma dei pigmenti, i colori a disposizione erano poco più numerosi rispetto quelli usati dall’artista medievale, ma se ne faceva un uso più raffinato, con la ricerca di sfumature e armonie fino ad allora inedite.
Leonardo da Vinci fu forse il maggiore naturalista tra i pittori fiorentini, e uno dei più metodici: l’arte è intesa come processo razionale e la natura come manifestazione da riprodurre concretamente in tutti i suoi aspetti. Compì anche studi sul colore e capì la falsità del concetto di colore intrinseco, arrivando vicino alla distinzione tra le due sintesi, additiva e sottrattiva. Il suo principale contributo è la scoperta della teoria tonale in associazione allo sfumato e al chiaroscuro (portato poi a esiti estremi da Correggio e Caravaggio): è la cosiddetta ‘maniera scura’ del Rinascimento; Raffaello applicò i suoi principi usando però colori brillanti, tramite un accorto bilanciamento dei colori (simile alla maniera veneziana). Michelangelo applicò invece la tecnica dell’unità eliminando i contrasti tonali e usando il metodo del cangiantismo, con esiti di un uso non naturalistico del colore. Jan Van Eyck fu invece, secondo la tradizione iniziata da Vasari, l’inventore della tecnica dei colori ad olio, che in realtà era una pratica usata anche in Italia, già nell’Antichità e nel Medioevo; la pittura ad olio è usata anche per dipingere sui metalli, ad esempio si usava dipingere con una vernice gialla lo Stagno per imitare l’Oro. Van Eyck salva la reputazione dei colori ad olio perfezionando la tecnica, specie il metodo dell’uso delle velature: ad esempio, si applicava un velo di lacca rossa sul fondo blu per ottenere il porpora. Tale tecnica divenne pratica tipica dell’area olandese e fiamminga. Alcuni dei pigmenti disponibili all’epoca non sono adatti alla tecnica: per citare alcuni casi esemplari, l’Oltremare Naturale scurisce, il Vermiglione perde brillantezza e a tale scopo si usano le lacche. Dal Verderame si è ottenuto il resinato di Rame, primo dei nuovi pigmenti, corrispondente a una grande varietà di miscele di sali verdi di Rame e resine, usati dagli artisti del Quattrocento e Cinquecento. Tale varietà di verdi è forse legata all’aspirazione umanistica di riprodurre la varietà dei colori della natura. È l’età dei nuovi azzurri, in sostituzione al Lapislazzuli e all’Azzurrite, che erano all’epoca piuttosto cari: tra i primi ad essere creati l’Azzurro Rame sintetico, imitazione artificiale dell’Azzurrite e in realtà carbonato basico di Rame; il Bice o Blu Mare artificiale; il Verdeterra verde e azzurro; lo Smaltino, ottenuto in relazione alla fabbricazione del vetro.
Il fattore economico è fondamentale nella ricerca dei nuovi colori; le corporazioni dovevano far rispettare, con regolamenti e statuti, standard qualitativi prefissati riguardo i colori. I pigmenti gialli, verdi e neri erano relativamente economici; ma si sperimentarono tecniche per l’imitazione pittorica dell’oro, e questo fu possibile in relazione alla perdita del valore simbolico dei materiali. Gli artisti viaggiavano per procurarsi i pigmenti, e tali viaggi erano specificati nei contratti di lavoro. Alcune città, tra le quali Venezia, diventano centri d’importazione dei pigmenti per tutto il continente: questo ha favorito la vocazione coloristica dell’arte veneta (si pensi all’opera di Tiziano, che usava una gamma di pigmenti vastissima tra cui Orpimento e Arancio Realgar). Il colore diventa, coi pittori veneziani praticanti la tecnica ad olio, il soggetto dell’opera e suo mezzo costruttivo, con elaborate architetture di strati di colore sulla tela. I colori sono tra i più ricchi: Verde Malachite, Terra Verde, Verderame e derivati; Oltremare Naturale; Vermiglione disponibile in più graniture stese in strati; Arancio Realgar.
L’età barocca risulta essere una fase ambigua nella storia della creazione dei colori e del loro uso in arte. Si punta alla sobrietà e a una scelta controllata dei colori; inoltre, le idee vasariane e delle diverse accademie miranti alla supremazia del disegno sul colore ha trovato diffusione europea: si pensi alle opere di Nicolais Poussin, Claude Lorrain, Frans Hals, Anton Van Dyck, e Rembrandt Van Rijn. Il Cinquecento è stato una fase di transizione tra il cromatismo rinascimentale e l’austerità barocca. La Riforma e la conseguente Controriforma hanno catalizzato il processo, tramite accorte propagande; i continuatori dell’Umanesimo rinascimentale rischiavano così seri problemi o addirittura la vita: esempio chiarificatore è la vicenda che ha riguardato il Convito in casa di Levi di Paolo Veronese. Gli eccessi manieristi erano visti come fattore decadente dell’arte, in un clima di soffocante intolleranza religiosa, e surriscaldato dalla passione devota. Venezia rimaneva il principale mercato di pigmenti più o meno preziosi, usati dai maestri lagunari con attenzione più o meno fedele all’esperienza di Tiziano (basti citare i nomi di Veronese e Tintoretto), esperienza ripresa a approfondita da Caravaggio in chiave tenebrosa. Il chiaroscuro, se per Cennini e Alberti consisteva nello schiarire o scurire i pigmenti puri con bianco o nero, in epoca tardo rinascimentale e barocca è una pratica in cui dominano ombre profonde, neri cupi e lumeggiature violente: appunto, si pensi alle opere di Caravaggio e Rembrandt. Questa è l’età di sviluppo dei pigmenti gialli, ocra e bruni, usati per realizzare effetti dorati: le Ocre, ossidi di Ferro, usate dalla remota Antichità, e le Terre usate dal Rinascimento (usate sia al naturale o bruciate, ottenendo tinte dal giallo al rosso al bruno); la Terra d’Ombra si caratterizza per una maggior presenza di Manganese nell’ossido di Ferro (e può essere sia al naturale che bruciata). Si sperimenta la Terra di Cassel o Colonia (nota anche come Bruno Van Dyck), ricavata da materiale organico dalla torba o dalla lignite; trasparente in olio, è adatta per le velature. Si usano anche marroni ricavati dal Bitume, derivato dal petrolio. Dalla fuliggine di legno di faggio o dalla corteccia di betulla si ricava il cosiddetto Bistro. Erano tutti, generalmente, pigmenti poco costosi; in età barocca si scoprono le loro versioni artificiali, in modo da controllarne le sfumature: sono materiali a base di Ferro e i suoi ossidi, e ad esempio si citano il Giallo e il Rosso di Marte. Diventano più frequenti gli usi di lacche e tinture da legni.
L’imperialismo nascente favorì la disponibilità dei materiali per le arti, e ne permise una miglior conoscenza: come esempio chiarificatore si ricorda il Giallo Indiano o Puri, ricavato dall’urina di mucche nutrite solo con foglie di mango; il colore si deve a un sale di Calcio o Magnesio di un acido organico rilasciato dal mango, attraente cromaticamente in quanto è un giallo oro profondo. Altro pigmento frequentemente usato è la Gommagutta, resina solidificata e poi macinata di piante del Sud-Est asiatico, dal colore giallo-arancio; questa tende però a sbiadire alla luce, come tutti i coloranti organici. Si riscopre l’uso dell’Orpimento, in particolare per creare tonalità di verde in combinazione col Blu di Prussia. Nel Seicento i Paesi Bassi (e Anversa in particolare) diventano un importante centro di fabbricazione di pigmenti (Biacca, Smaltino, Giallo di Piombo o Stagno, Vermiglione). Gli azzurri tradizionali sono sempre più difficili da reperire, a causa dell’esaurimento delle miniere dei minerali o delle guerre. Rubens fu un colorista abile secondo solo a Tiziano; per ottenere i blu usava delle miscele, come quella di Biacca, nero e lacca rossa su fondo bianco. Il nero sostituisce in molti casi, e nella pratica di molti pittori (tra cui Tiziano, Rembrandt, Van Dyck e Rubens), il blu. L’età barocca è l’epoca d’oro della sperimentazione delle miscele, in opposizione all’ortodossa purezza dei pigmenti promossa durante il Rinascimento da Alberti. Rembrandt usava una tavolozza limitata di colori e pigmenti sapientemente uniti: neri, bruni, rossi e gialli; usava anche lo Smaltino e l’Azzurrite con particolare parsimonia; il Gesso, che risulta trasparente usato nella pittura ad olio, per dare corpo. I suoi colori risultano durevoli, in quanto stabili alle alterazioni del tempo.
Il cinquantennio che ha inizio nel 1770 è stato importante per la scienza chimica, che è avanzata notevolmente fino ad assumere i caratteri e il gergo attuali; diventa anche una professione lucrosa. In relazione a ciò, vi è un’esplosione di nuovi pigmenti per artisti, anche se ci volle tempo per scoprire il loro comportamento nel tempo.
Il periodo del 1704-1705 è importante perché segna il primo risultato concreto nella ricerca di pigmenti blu sostitutivi dell’Oltremare Naturale. Il produttore di colori berlinese Diesbach, mentre preparava della Lacca Rossa di Cocciniglia con prodotti di recupero, concentrò la pallidissima lacca ottenuta in un composto blu scuro, derivato dalla reazione del solfato di Ferro con la potassa usata e contaminata da del grasso animale che aveva portato alla formazione di ferrocianuro di Potassio, ottenendo il ferrocianuro di Ferro: nacque così il Blu di Prussia, usato anche come prodotto per la cosmesi. Il pigmento era ormai conosciuto in tutta Europa nel 1750, ed era prodotto a Berlino e Parigi. Si pensò di usarlo come fondamentale nella triade di colori primari, ma non poteva competere con la purezza dell’Oltremare. I chimici ambivano quindi alla creazione dell’Oltremare Artificiale, ma era necessario a questo punto conoscere la composizione della Lazurite, che nella realtà è complessa e variabile. Bisogna attendere il 1806, quando i chimici Dèsormese e Clèment offrirono la prima analisi accurata della composizione dell’Oltremare: era un composto di soda, Silice, allumina e Zolfo; nel 1814 Vaquelin analizzò il materiale azzurro prelevato dai forni di soda di una vetreria e scoprì che la composizione di questi residui era simile a quella formulata per l’Oltremare. Nel 1824 la Società d’Incoraggiamento all’Industria accolse i suggerimenti di Tassaert di seguire questa strada per la produzione di un Oltremare Artificiale; questo fu prodotto a partire dal 1828 ad opera di Guimet, analogamente a quanto stava facendo negli stessi anni Christian Gmelin dell’Università di Tubinga. Entrambi i procedimenti (francese e tedesco) prevedevano la cottura degli elementi in miscela (Caolino, soda, carbone di legna, Quarzo, sabbia, e Zolfo), la successiva macinazione e lavaggio del materiale per privarlo delle impurità solubili; nuovamente scaldata, la sostanza da verde diventava azzurra: ora deve essere lavata e macinata nuovamente per ottenere il pigmento.
I pittori erano abituati a lavorare con sostanze pericolose, che però ironicamente sono quelle che hanno i colori più intensi. Il Piombo non era di per sé tanto tossico, ma la massiccia esposizione in seguito alla rivoluzione industriale ne ha accresciuto la pericolosità; la Biacca era l’unico pigmento bianco usato largamente, sia per i colori delle belle arti che nelle vernici domestiche, ma questo portava a rischi di intossicazione in ambienti domestici. Nel 1782 Guyton de Morveau propose un’alternativa, l’ossido di Zinco (o Bianco di Zinco): non è tossico, non scurisce in presenza di gas solforosi; ma è costoso, ha scarso potere coprente e asciuga lentamente se miscelato all’olio. Fu usato come pigmento per la tecnica dell’acquerello (noto come Bianco Cinese). Addizionato con un siccativo, dal 1845 fu prodotto vicino a Parigi, col contributo del fabbricante Le Claire e il chimico Barruel; nel 1909 un decreto abolì l’uso della Biacca in Francia a favore del Bianco di Zinco, ottenuto tramite il metodo indiretto, dallo Zinco raffinato. In America fu ideato il metodo diretto dallo Zinco grezzo, ricavato dalla Sfalerite. Ci volle però del tempo prima che gli artisti abbandonassero la Biacca. Guyton sperimentò anche bianchi al Bario ricavati dalla Barite (noto anche come Bianco Permanente), adatto agli acquerelli o come eccipiente. Dal 1817 Friedrich Stromeyer lavorò allo studio degli ossidi gialli sottoprodotti dalla lavorazione dello Zinco, scoprendo l’elemento Cadmio e i nuovi pigmenti giallo e arancio da esso ricavati (il cui colore si deve al grado di granulazione), ricchi, coprenti e stabili; l’alto costo ne ritardò però la diffusione: tra i primi ad usarli vi furono Monet, Manet, e la Morisot. Lo svedese Carl Wilhelm Scheele studiò i composti di Cloro e Piombo (scoprendo l’ossicloruro di Piombo giallo noto come Giallo Brevettato di Turner, 1770), e Arsenico (Verde di Scheele). Nel 1814 Wilhelm Sattler e Friedrich Russ scoprono l’acetoarsenico di Rame o Verde Smeraldo, economico da produrre (e questo ne decretò la popolarità) ma estremamente tossico. La scoperta del Berillio (ricavato dal Berillo e dalla Crocoite siberiana) nel 1797 da parte di Vauquelin permise di ottenere un nuovo pigmento; si ricavò anche il Cromo, in associazione al Piombo: il cromato di Piombo giallo noto anche come Giallo Cromo; combinato al solfato di Piombo assume sfumature più o meno scure. Il fascino della nuova gamma portò all’esaurimento delle miniere della Var in Francia, e lo sfruttamento della Cromite delle miniere inglesi, presto esaurite, e americane, nonostante l’alto costo iniziale. Nel 1838 Pannetier elaborò la ricetta per un Verde Smeraldo (da non confondere con l’acetoarsenico di Rame) dall’ossido di Cromo (e noto come Viridian): è ossido di Cromo idrato; Guignet ne sviluppò la ricetta nel 1859 per la produzione su larga scala. Nel 1802 Thènard sintetizzò, dai sali di Cobalto e allumina, l’alluminato di Cobalto, adottato subito come pigmento col nome di Blu Cobalto, costoso ma popolare: egli sapeva che la manifattura di Sèvres usava sali contenenti Cobalto, ed esso è l’agente colorante dello Smaltino medievale, perciò aveva seguito una strada non nuova. Camaleontico come il Cromo, il Cobalto è usato per lo stannato di Cobalto, disponibile dal 1860, dotato di una sfumatura verdastra; a fine Ottocento si ottiene un verde con l’ossido di Zinco al posto dell’allumina: il cobalto nitrito di Potassio o Giallo Aureolina.
Scoppiò così il dibattito sull’uso dei nuovi pigmenti per le belle arti, con la lotta tra i tradizionalisti contro gli innovatori (come Turner). Nacquero gli specialisti nella produzione dei colori, come George Field, fornitore di Turner, Lawrence e Constable, famoso per le prove di resistenza da lui eseguite sui suoi colori, come lo Scarlatto di Iodio, attraente ma tendente a decadere in tempi brevi. Il suo Cromatografia (1835) è fondamentale per lo studio del comportamento dei colori nel tempo.
Anche Johann Wolfgang von Goethe offrì importanti contributi allo studio sui colori e i pigmenti: al 1791 risale il Contributo all’ottica; al 1810 la Teoria dei colori. Goethe ripropone l’idea aristotelica del colore come miscela di chiaro e di scuro; non conoscendo le due sintesi, riprende l’obiezione che la luce bianca non è composta dai colori dell’arcobaleno perché la miscela dei pigmenti dà un risultato opposto; non riconosce il rosso come fondamentale, ma è legato al chiaro (giallo) e lo scuro (blu). Le sue idee rinforzano il clima del Romanticismo, in Inghilterra dominato dai Preraffaelliti e da William Blake. I primi richiedevano colori brillanti usati in modo scandaloso rispetto i canoni del gusto dominante, basato sulla lezione della Royal Academy e del suo presidente Joshua Reynolds (con modalità simili al futuro scandalo suscitato dagli Impressionisti). Riprendono la lezione dei maestri veneziani e di Rubens, con colori stesi su un fondo bianco opaco, in più strati di colori appena mescolati, sfruttando tutte le combinazioni dei nuovi materiali (come l’Arancio di Marte).
Tra le scoperte dell’Ottocento vi è quella dell’artista come genio solitario e incompreso. Dal 1800 dipingere è una professione, materia accademica e non più artigianale, disciplinata da regole e standard di pratica e gusto: tale prassi era rispettabile ma stantia, si necessitava quindi di una nuova rivoluzione artistica. L’artista povero non è una novità (basti pensare a Rembrandt); gli Impressionisti gettarono però le basi di una nuova struttura e pensiero, in opposizione a ciò che rappresentava l’Accademia e l’École. Si rafforza la prassi di esercitare la pittura fuori dall’École, in un atelier privato che fungeva da scuola d’arte. La tradizionale formazione mortificava l’innovazione e l’invenzione, sia per lo stile che per i soggetti. Altra istituzione che ostacola il rinnovamento è il sistema dei Salons, ovvero le mostre annuali dell’Accademia, che fungevano anche da mercato. La prima sfida fu gettata da Eugène Delacroix, in opposizione al classicista Jean-Auguste-Dominique Ingres, decretando il rinnovo della querelle sul colore e il disegno; egli anticipa l’Impressionismo nel desiderio di catturare i giochi della luce.
Nel 1860-1870 il fisico e fisiologo tedesco Hermann von Helmholtz dichiarò che era vano per l’artista tentare di ricreare gli effetti di luce e colore del mondo reale perché i pigmenti disponibili sono troppo limitati. Con gli Impressionisti si rivaluta la pratica dell’en plein air, anticipati da Camille Corot e Gustave Courbet che tentarono di ricreare visivamente la luminosità della scena reale (grazie ai contributi dell’empirismo, dell’intuizione e dei principi scientifici del colore, come teorizzati, ad esempio, da Michel-Eugène Chèvreul). A ciò va aggiunta la serie dei nuovi pigmenti sintetici usati a profusione dagli Impressionisti con audacia inaudita, senza preoccuparsi della stabilità di questi, non essendo ancora collaudati. A volte, pagarono il prezzo della loro audacia abbandonando di colpo la tradizione tecnica precedente, e se ne resero conto loro stessi dopo poco tempo (si pensi a Monet), ma non si impegnarono coi mercanti di materie prime per trovare una soluzione.
Nel tempo, i pigmenti erano stati paragonati alle spezie e alle droghe, e come tali erano stati venduti; con la fabbricazione delle vernici su ampia scala, e il conseguente intervento massiccio della chimica, nasce un’industria specializzata in pitture già pronte: Biacca, Bianco di Zinco, Giallo Cromo, Blu di Prussia, Oltremare Sintetico. Il boom della pittura amatoriale crea un mercato remunerativo per i fabbricanti di colori, che si specializzano in colori di qualità per gli artisti. Londra diventa una delle capitali dei colori, ove gli addetti ai lavori dovevano conoscere nozioni di chimica e tecnologia. Ne deriva una sempre maggior distanza tra l’artista e i materiali, portando all’uso di materiali scadenti a scapito delle opere stesse. Per ovviare a ciò, molti artisti cercarono di creare buoni rapporti con mercanti di fiducia per assicurarsi la qualità dei loro materiali: come esempio, basti quello di Julien Tanguy, che era fornitore di Pissarro, Cèzanne, e Van Gogh; questi macinava personalmente i colori ed eseguiva anche prodotti su ordinazione. Solo Degas era interessato alla composizione effettiva dei colori. La pittura impressionista è la prima che applica concretamente le nozioni dei colori e della luce alla pittura. Il bianco ritorna a scomporsi nei suoi colori, il nero è inteso come la somma di colori e non come colore a sé, mentre il marrone è ottenuto da amalgame di rossi e blu al posto di Terre e Ocre. A fine Ottocento, grazie all’opera e le osservazioni di Signac e Seurat si arriva a una tecnica pittorica che applica concretamente i principi della sintesi additiva per esaltare i colori: il Pointillisme (o Puntinismo); forse si deve il contributo a La scienza moderna dei colori di Odgen Rood. Con Cèzanne, Gauguin, e Van Gogh l’arte tendeva ormai all’astrazione, non solo nelle forme ma anche nell’uso dei colori; di questi, facevano uso dei più moderni prodotti dell’industria.
Nella storia, alcuni pigmenti e coloranti valevano più dell’oro stesso (si pensi alla Porpora di Tiro, emblema della regalità imperiale in epoca romana). Nell’Antichità, la Porpora era un concetto cromatico non preciso, e la sua colorazione andava dal bluastro al rosso cupo; la sua produzione in Asia Minore era nota dal XV secolo a.C., e deriva da due specie di molluschi tipiche del Mediterraneo (più precisamente da una ghiandola di questi detta ‘fiore’, contenente un fluido chiaro che, esposto al sole e all’aria, da bianco passa al giallo, al verde, al blu e infine al porpora). Ogni mollusco forniva una goccia di colorante, e da qui il suo costo astronomico; in epoca romana, l’uso era severamente regolamentato, diventando un’esclusiva imperiale. Il metodo per prepararlo fu perduto dall’Occidente con la caduta di Costantinopoli (1453), e riscoperto dallo zoologo francese Lacaze-Duthiers (1856). Nel 1909 il chimico austriaco Friedlander ricostruì la sua struttura chimica completa, quasi identica all’Indaco, pianta leguminosa proveniente dall’India: si distinguono perché il composto organico della Porpora ha due atomi di Bromo al posto dell’Idrogeno (che è presente nell’Indaco). I Romani usavano l’Indaco solo per creare vernici e non per tingere, senza essere trasformato in lacca. La tintura all’Indaco, non frequente, è comunque antica, praticata già nell’Egitto del 3000 a.C.; tale pratica tornò in Occidente, dopo la scomparsa del suo uso nel Medioevo, nel Cinquecento, per gareggiare con l’Asia nella produzione dei tessuti, e ciò vale per l’Inghilterra in primis. Il tessuto scarlatto o cremisi era ricavato dal Chermes, colorante delle lacche pigmento Carminio.
Fu il settore tessile a favorire lo sviluppo e la ricerca di nuovi coloranti (e di conseguenza,alcuni pigmenti), sfruttando anche la vanità umana e le potenzialità tecnologiche dell’industria tessile. Tutti i principali produttori di coloranti di inizio Ottocento cominciarono ad assumere coloristi di professione, esperti di chimica teorica e applicata alla produzione di colori e alle tecniche tessili. Uno dei primi coloranti nati dall’unione di chimica e industria tessile fu il colorante giallo noto come Acido Picrico, scoperto a fine Settecento, ricavato trattando il fenolo prima con acido solforico e poi quello nitrico, prodotto come tintura dal 1840-1850: era il primo esempio di come si potevano ricavare potenziali materie prime di composti colorati dai residui di lavorazione del catrame e del petrolio. Altra tintura sintetica di metà Ottocento era la Muresside (Porpora) ricavata dall’acido urico estratto dal Guano del Perù. L’alternativa era la Porpora Francese, estratto naturale indelebile ed intenso ricavato da alcuni licheni europei: nota in Francia come Malva, nel 1857 il nome identifica una sfumatura di colore. Crace Calvert studiò un altro derivato del catrame di carbone, l’Anilina, trattandola con agenti ossidanti per ottenere coloranti rossi e porpora; ma la tecnica non fu perfezionata perché era più conveniente usare l’estratto di Robbia. Ma non si abbandonarono le ricerche sull’Anilina: Perkin ne ricavò coloranti porpora; Verguin la Fucsina (o Magenta) combinando anilina e cloruro di Stagno.
La coltivazione della Robbia, fonte del colorante Cremisi, e usata per le lacche pigmento Robbia ebbe origine in India, e in altre aree dell’Asia in età antica, così come in Grecia; in età medievale vi erano coltivazioni anche in Francia e Italia. Nel 1820 i chimici Colin e Robiquet isolarono dalla radice un composto rosso, ingrediente base per la tintura: è l’Alizarina. Isolarono anche la Porporina, dalle sfumature arancio. Progressi nella produzione in scala dell’Alizarina si ebbero nel 1868 con l’identificazione della formula esatta (C14H8O4), scoperta da Graebe e Liebermann. Rispetto al Malva e al Magenta, tinture sintetiche, l’Alizarina era un prodotto naturale razionalmente producibile da materie prime facilmente reperibili. Da questo momento si iniziarono a ricavare da composti chimici noti coloranti sintetici (come l’Eosina, color rosa vivo ricavata dalla Fluorescina, sottoprodotto del catrame di carbone; o il Giallo Anilina, il primo azocolorante noto), parallelamente usati anche per altri fini: l’Anilina e alcuni idrocarburi erano usati anche per scopo medico.
A fine Ottocento, si lavorò per ricavare un composto sintetico equivalente all’Indaco, che era un prodotto sotto monopolio inglese. Bayer scoprì la struttura chimica dell’Indaco nel 1883 e nel 1890 si scoprì il procedimento per ottenerlo su larga scala ad opera di Heumann, mettendo irreversibilmente in crisi le coltivazioni indiane di Indaco.
Riguardo i colori per artisti, si ricavarono ulterior colori dai derivati del catrame di carbone; ma questi si deterioravano rapidamente decretandone la pessima reputazione. Nel 1907 i fabbricanti di colori sintetici si accordarono per sottoporre i loro prodotti a test di stabilità per anni prima di immetterli sul mercato, su esempio della Lacca di Robbia. Nel 1911 vennero introdotti i pigmenti Hansa, affini agli azocoloranti: ad esempio, il Giallo Hansa è più stabile della Lacca di Alizarina. Verso la metà del Novecento i pittori scoprirono che le loro decisioni nella scelta dei colori da usare non erano facilitate dalla discutibile denominazione dei colori da parte dei produttori, dato l’uso degli equivalenti classici. Nel 1935 furono scoperti i Blu Monastral e quello di Manganese.
(fine seconda parte)
Marco Rago © centoParole Magazine – riproduzione riservata
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