‘Tiepoleschi splendori tergestini’ : le opere dei Tiepolo al Civico Museo Sartorio di Trieste (II parte)

Come già accennato, a Trieste è conservata presso il Civico Museo Sartorio un’importante raccolta di disegni, opera di Giambattista (e alcuni attribuiti a Giandomenico Tiepolo) che, per qualità e quantità, risulta essere una delle più importanti a livello mondiale: la collezione triestina, infatti, integra quella londinese del Victoria & Albert Museum, il Kupferstich Kabinet di Stoccarda, le raccolte del Metropolitan Museum e della Pierpont Morgan Library di New York, la Collezione Horne di Firenze e i disegni del Museo Correr di Venezia. Essa si distingue per il buono stato di conservazione dell’elemento grafico-pittorico dei disegni, mentre il supporto presenta  alterazioni conservative che ne impediscono un’esposizione permanente e non accorta.

La storia della raccolta triestina sarebbe, se non fosse realtà storica, degna di essere la trama per un avvincente romanzo (e pertanto è degna della città in cui i disegni si trovano); il resoconto ci è stato tramandato da un’intervista rilasciata dal pittore Carlo Wostry, pubblicata sul quotidiano locale “Il Piccolo” del 19 aprile 1941. Nel 1893, presso la bottega dell’antiquario Giuseppe Zanolla in via dell’Acquedotto (attuale Viale XX settembre), lo scultore Luigi Conti trovò l’antiquario intento a rovistare in una cassa di carte, acquistata a Isola d’Istria dagli eredi dell’incisore veneziano Antonio Viviani (morto nel 1853-1854), il cui contenuto non era ancora conosciuto; aiutandolo, lo scultore scoprì tre fogli recanti dei disegni del Tiepolo e li acquistò immediatamente. Tornato il giorno seguente, il Conti scoprì che tra le carte vi erano altri 80 disegni e li comprò; nello stesso tempo, il Wostry venne a conoscenza di questa scoperta e, una volta che il barone Giuseppe Sartorio ne fu informato, quest’ultimo comprò i disegni del Conti. Ma l’antiquario Zanolla, venuto a conoscenza dell’acquisto dei disegni da parte del barone per una cifra generosa, aveva già recuperato dalla cassa e venduto separatamente i restanti disegni; il nobile triestino, quindi, si mise alla ricerca di tutti i fogli e riuscì, con l’aiuto di Wostry,  a riunire l’intera ex-raccolta Viviani (la cui origine è ancora oggi ignota – forse era frutto dell’unione di altre raccolte minori, come quella del conte e collezionista veneziano Bernardino Algarotti Corniani). Alla sua morte, nel 1910, la raccolta di disegni e quella di arte antica furono donate dalle eredi, la sorella Paolina e la figlia Anna coniugata Segrè (ultima esponente dei Sartorio), alle raccolte civiche (e pertanto trovarono una prima dimora a palazzo Biserini).

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, il conservatore del Litorale Antonio Gnirs fece evacuare alcuni dei tesori artistici cittadini; i disegni dei Tiepolo, custoditi in una cassa, partirono per Vienna il 18 agosto 1916 ma il loro viaggio si fermò a Lubiana (dove furono ricoverati presso l’allora Museo Rudolphinum). In seguito alla dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico, Trieste fu annessa all’Italia e Lubiana al neonato regno di Jugoslavia; tale situazione geopolitica si rivelò purtroppo d’ostacolo per la restituzione dei disegni alla città, in quanto il regno che si era da poco costituito non aveva sottoscritto il Trattato di Rapallo e ciò comportò gravissime difficoltà nelle trattative di restituzione. Si rischiò addirittura che, data la lunga sequela di richieste e solleciti italiani disattesi, le opere non tornassero più a Trieste, ma la città, al fianco dell’ultima Sartorio, Anna, e di suo marito, il conte e senatore Salvatore Segrè-Sartorio, non dimenticarono di tener viva la questione.

Per paradosso, il drammatico trauma della Seconda Guerra Mondiale facilitò la risoluzione della questione (i cui fatti sono ricordati da Silvio Rutteri, direttore dei Civici Musei di Trieste). L’occupazione fascista di Lubiana e la conseguente annessione della slovena Carniola all’Italia nell’aprile del 1941 determinò l’estensione della giurisdizione del Ministero dell’Istruzione Nazionale (retto da Giuseppe Bottai) e della Soprintendenza di Trieste sui beni artistici dei territori appena annessi; il soprintendente Fausto Franco potè così ritrovare la cassa, rimasta dimenticata nei depositi del museo sloveno. Il 21 giugno 1941, protetta da una scorta militare, essa giunse in Soprintendenza e, dopo la stesura del rogito da parte del notaio del Comune, fu trasferita al Museo Civico per un’ispezione accurata del contenuto (per assicurarsi in primo luogo dell’integrità dei fogli). La consegna ufficiale avvenne il 24 giugno in Municipio ove fu allestita una mostra temporanea, affollata di cittadini curiosi e studiosi di rilievo (tra cui Giulio Carlo Argan), durata due settimane; nota dolente e critica, all’evento non poterono presenziare i coniugi Segrè-Sartorio, a causa delle aberranti leggi razziale promulgate da Mussolini proprio a Trieste. Nel 1942, la raccolta fu oggetto di uno studio ragionato e complessivo da parte di Giorgio Vigni, autore dell’unico catalogo scientifico completo dei disegni triestini (ristampato nel 1972, assoluto punto di riferimento per gli studi della collezione). In una lettera dell’11 dicembre dello stesso anno, Silvio Ruggeri informò il soprintendente che il Comune aveva messo a disposizione (già dal giugno 1940) la cassaforte del Palazzo Comunale per riporvi la metà dei disegni, mentre l’altra avrebbe trovato rifugio nella cassa blindata dei sotterranei del Museo; i disegni uscirono quindi indenni dalla catastrofe bellica che interessò la Venezia Giulia e Trieste.

Nel 1947, la contessa Anna Segrè-Sartorio, ultima discendenza della nobile famiglia dei Sartorio, con apposito atto testamentario lasciò in eredità al Comune la villa di famiglia e una parte considerevole delle sue raccolte d’arte ai Civici Musei: nacque così il Civico Museo Sartorio, una delle istituzioni culturali di spicco del panorama cittadino. Il 5 dicembre 1998, in memoria di Giorgio Costantinides, furono inaugurate due sale del secondo piano del museo, appositamente allestite per conservare i disegni triestini.

La raccolta triestina è costituita da 254 fogli, di cui alcuni disegnati su ambo i lati, per un totale di 279 disegni; di questi, cinque sono ricondotti dalla critica alla mano di Giandomenico Tiepolo, mentre i restanti sono opera del più noto Giambattista e coprono un arco cronologico che va dalla sua giovinezza (quindi datati intorno al 1730) sino al 1762, anno della partenza del maestro e dei figli per la Spagna (periodo del quale, in generale, non si conoscono disegni certi), e solo un foglio con Tre figure di nudi reca la data del 17 febbraio 1744, di probabile pugno dello stesso Tiepolo (e queste è un unicum nel complessivo corpus di disegni). Nel loro complesso, i disegni testimoniano anche la prassi esecutiva e, in alcuni casi, l’evoluzione dello stile grafico del Tiepolo padre. In generale, dopo un primo schizzo (eseguito a gessetto, matita nera o sanguigna), i tratti salienti della figura o della composizione venivano definiti con tratti a penna, cui seguivano i tocchi di inchiostro a pennello (più o meno diluito per rendere le mezze tinte e le masse d’ombra, e puro per accentuare la plasticità e il risalto di alcuni particolari). L’artista gioca nel contrasto tra le zone dipinte a inchiostro e le zone chiare, appena acquerellate od ottenute lasciando libere alcune parti di supporto cartaceo, creando quindi un articolato gioco tra piani tridimensionali ottenuti tra le zone scure e quelle chiare, che paiono investite da una luce intensa e dominante la composizione. Analizzando e comparando i singoli disegni, si riescono a distinguere le fasi evolutive della maniera grafica di Tiepolo: se nei primi (generalmente primi studi ed esercizi didattici) si distinguono per l’uso di un segno continuo, contorni precisi e la resa delle ombre tramite segni paralleli, nelle opere della maturità il segno si fa più nervoso, sintetico e fluido nella resa degli elementi essenziali della creazione (che è testimonianza della tempestività creativa dell’artista), seguito dalle acquerellature trasparenti che si intensificano  in autentici gorghi d’ombra. Col tempo, è variata anche la proporzione del disegno sul supporto cartaceo: se nelle opere giovanili i disegni tendono a occupare con la loro plasticità tutto il foglio, col tempo le sue creazioni tendono a occupare una superficie minore, come se il supporto rappresentasse uno spazio dominato dalla luce che diventa sempre più determinante nella composizione.

I disegni della collezione triestina presentano uno spaccato variegato dei principali soggetti affrontati dal Tiepolo, comprendendo sia studi su un tema che opere autonome e indipendenti (anche se, col tempo, ogni disegno acquisì una propria autonomia).

Uno dei nuclei principali è quello delle Figure allegoriche che, nel loro complesso, sono da ricondurre alla decorazione ad affresco della villa di Nicolò Loschi a Biron di Monteviale (1734): con queste opere, variazioni sulle indicazioni formulate da Cesare Ripa nell’Iconologia e meditazione sull’opera di Paolo Veronese, i disegni si distinguono per essere il punto d’arrivo della maniera grafica del veneziano, in cui la luce (tema costante delle riflessioni artistiche di Tiepolo) porta a una riduzione degli elementi segnici a favore del contrasto delle acquerellature con il supporto cartaceo.

Significativo anche il nucleo di disegni con tema i Grandi alberi (datati al 1740 ca): non si tratta di riproduzioni reali di spaccati paesaggistici, ma elaborazioni fantastiche frutto della fervida creatività di Tiepolo, a partire dalle suggestioni del paesaggio veneto. Questi studi, dettagliati e suggestivi, sono stati un punto di riferimento per i paesaggi inseriti nelle grandi scene ad affresco quali elemento decorativo. Notevole è poi il corpus di disegni con soggetto figure di orientali e le teste di fantasia: se i primi sono studi per le figure che, nelle opere pittoriche, fungono da comparse alle scene storiche e mitologico-allegoriche, le teste, tra le opere più originali dell’Europa del Settecento, rappresentano sia giovinetti ritratti con fogge fantasiose che vegliardi di decisa ispirazione fantastica orientale (probabilmente un ricordo delle opere, in particolare grafiche, del Rembrandt che Tiepolo deve aver avuto modo di ammirare nella Dominante), eseguite con un segno guizzante e veloci velature di acquerello che definiscono plasticamente la figura.

Per ultime (ma la collezione comprende, in verità, molti altri soggetti tematici, come la serie di Cani – coevi ai Grandi alberi – o gli studi di figure scorciate, o le opere sacre generalmente eseguite come autonome…), vanno citate le creazioni caricaturali e comiche: forse, il nucleo più pregiato e consistente della raccolta triestina. In generale, queste opere, databili dal quarto decennio, si distinguono da analoghe produzioni lagunari del primo Settecento (come quelle di Anton Maria Zanetti il Vecchio e Marco Ricci) per la peculiare carica di amara ironia: le sue Caricature di rado generano un riso spontaneo e privo di malinconica profondità (si veda, a riguardo, il catalogo della mostra Tiepolo. Ironia e comico, tenutasi presso la veneziana Fondazione Giorgio Cini e curata da Giuseppe Pavanello, in cui ci sono offerti interessanti saggi desunti dall’opera di studio di Adriano Mariuz sulle figure dei Tiepolo). Esse sono uno spaccato privo di illusioni di gloria, mettondo in luce i difetti fisici e/o morali dei soggetti (generiche tipologie umane) ritratti per esaltarne l’umanità, in un momento in cui la Repubblica della Serenissima si avvia al suo tramonto definitivo, con un “canto del cigno” che si risolve in un’epoca di assoluto splendore artistico e culturale. Nello specifico, i disegni si distinguono per un’essenzialità nell’uso dei tratti a penna a cui si aggiungono lievi acquerellature, nella resa di un mondo di maschere grottesche che evocano un sentimento di amara ironia e solitudine (che pare anticipare analoghe opere di Goya e Daumier). Nel complesso delle opere comiche, spiccano due disegni con soggetto la maschera di Pulcinella (tema ripreso poi da Giandomenico), la più popolare delle maschere della Commedia dell’arte (così facendo, Tiepolo – che ha creato nel tempo la sua personale versione della maschera – introdusse una carica irrisoria inedita, emblema di quel mondo plebeo che raramente, e solo come elemento decorativo, è ammesso nelle grandi storie): Omaggio a Pulcinella incoronato e Pulcinella che defeca. La maschera diventa emblema di un’umanità tutt’altro che idilliaca e nobile. Anzi, l’anonimato conferito dalla maschera permette ai Pulcinella di vivere liberamente gli impulsi naturali (compresi quelli erotici) con una libertà impensabile per le opere maggiori; probabilmente, i primi disegni con questo soggetto risalgono agli anni Quaranta, in un momento in cui Tiepolo è in contatto con l’amico ed erudito veronese Scipione Maffei (da cui deriverebbe la suggestione del carnevalesco “Venerdì gnoccolare”, ripreso nel disegno triestino) o, secondo una parte della critica, in prossimità dell’impresa a palazzo Canossa.

Presso il museo triestino è presente anche l’unica opera pittorica di Giambattista Tiepolo presente sul territorio cittadino: la pala della Madonna della cintola e santi, facente parte, con le altre opere istriane salvate durante la Seconda Guerra Mondiale (e come riportato in un altro articolo), della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Trieste.

La tela, datata dalla critica al 1730 ca, proviene dalla chiesa della Madonna della Consolazione di Pirano ove ornava l’unico altare del luogo di culto; essa fu probabilmente oggetto di un intervento di restauro già nell’Ottocento, ad opera di un artista della regione (sono stati avanzati i nomi del veneziano Cosroe Dusi, l’istriano Bartolomeo Gianelli o i triestini Giuseppe Rossi e Domenico Acquaroli), che però compromise la pittura originaria. Il successivo e necessario restauro del 1922, operato dalla Soprintendenza ai Monumenti di Trieste, non fu ritenuto però soddisfacente dato il rilievo dell’opera; a questa data, risale anche la prima attribuzione dell’opera al maestro veneziano, avanzata da Alberto Riccoboni. Allo scoppio della guerra, i beni d’interesse culturale del Friuli e della Venezia Giulia furono oggetto della campagna di messa in sicurezza in località sicure: la pala, imballata in una cassa (n. 114) sotto la supervisione di Nicolò Rota, giunse alla villa Manin di Passariano tra il 18 e il 20 giugno del 1940, e qui vi rimase sino al 1943; da qui, fu trasferita assieme ad altre casse in altre località imprecisate del Friuli, sino al 1948. Sempre nel 1948, essa fu trasferita a Roma ove rimase dimenticata prima nei depositi del Museo Nazionale Romano (sino al 1972) e poi a Palazzo Venezia (dal 1972 sino al 2003). In seguito alla mostra di riscoperta, avvenuta a Trieste dal 23 giugno 2005 al 6 gennaio 2006 al Civico Museo Revoltella (Histria. Opere d’arte restaurate da Paolo Veneziano a Tiepolo), questa pala, assieme alle altre 21 opere istriane, confluì nelle raccolte della Galleria Nazionale triestina; data l’impossibilità di esporre l’intera collezione statale in un’apposita e permanete sede, questi tesori sono stati posti in esposizione (in un paradossale “deposito”) presso il Civico Museo Sartorio.

La pala rappresenta l’apparizione della Madonna, comodamente seduta su un trono di morbide nuvole che emergono in una luce ambrata e contornata da angeli e cherubini, a sant’Agostino in abiti vescovili (a cui porge la cintola), a santa Monica in preghiera e san Nicola da Tolentino (col saio nero, il giglio e l’astro sul petto quale allusione alla cometa apparsa in cielo il giorno della sua nascita). Questi santi sono raggruppati su un podio marmoreo a gradoni in cui è incastonata una targa marmorea recante un’iscrizione latina (SANCTI ISTI INCLITI ORENT – DEUM PRO NOBIS); il gruppo è chiuso a sinistra dalla figura di san Michele arcangelo che schiaccia in demonio atterrito (origine dello sguardo sereno – fonte di ‘consolazione’ – della Vergine). Al centro della pala, tra il podio terreno e il trono di nuvole celesti, Tiepolo ha realizzato un piccolo inserto paesistico che testimonia l’attenzione per i particolari realistici e plausibili, quali il libro  e il rosario che spiccano sull’abito della santa e l’articolato bastone pastorale retto dal santo vescovo (che richiama la coeva e preziosa gioielleria veneziana). Il pittore volle innovare il genere studiando ed elaborando una composizione monumentale in cui il podio su cui sono raggruppati i santi (e non la Madonna, come è tradizione nelle pale veneziane – si vedano la Pala Pesaro di Tiziano ai Frari o la pala con la Madonna e santi di Sebastiano Ricci della basilica di San Giorgio Maggiore a Venezia – che Tiepolo tiene in conto quale riferimento colto) è posto su una pedana di terra che conferisce un movimento ascensionale marcato alla composizione (sensazione accresciuta dalla collocazione della tela sull’altare settecentesco della chiesa). Il veneziano tenne in considerazione anche la statuaria classica per la creazione della figura di san Michele, in particolare gli esempi di eroe classico qui sviluppati per creare una figura eroica cristiana. Nel complesso, Tiepolo riuscì a concepire un’opera monumentale e teatrale al tempo stesso, che si rifà non solo all’opera di Ricci ma anche agli esempi della pittura di Francesco Solimena (in particolare, le opere che si conservavano in casa Baglioni, ove Tiepolo aveva lavorato in giovane età).

Il recente restauro (2003-2004 – propedeutico all’esposizione triestina) ha restituito le originali qualità pittoriche che erano state celate dallo sporco e dai restauri precedenti e che avevano offuscato le notevoli qualità di questa opera, rimasta a lungo poco o punto conosciuta. Il colore, intenso e gustosamente materico, è steso senza velature in masse di materia preziosa e ricca di valori cromatici: un esempio, è il manto di santa Monica, ottenuto da un amalgama preziosa di pigmento nero, blu di Prussia e blu oltremarino (ottenuto dalla macinazione dei preziosi lapislazzuli) che ha restituito una gamma cromatica e tonale sofisticata, ricca di riflessi che vanno dal nero profondo ai grigi sino ai cangianti riflessi bluastri; o il sapiente uso dei pigmenti gialli e delle ocre per creare l’illusione del tessuto dorato del manto del santo vescovo. Proprio la sapiente costruzione cromatica della veste della santa pone l’opera triestina in relazione al San Francesco di Paola della chiesa di San Nicolò in Piove di Sacco, datata al 1735 ca; la pala della Galleria Nazionale deve essere stata commissionata dalla chiesa piranese verso il 1730 e, data l’importanza dell’opera nel contesto della stessa, Tiepolo deve aver eseguito quasi interamente di sua mano (anche se alcune incertezze nelle teste di san Michele e della Madonna inducono a pensare all’intervento di un collaboratore di fiducia del veneziano, per aiutarlo nel sostenere il ritmo crescente delle commissioni) questa splendida opera sacra, in cui ci restituisce un sentimento di profonda devozione che, nelle opere profane, giunge a esiti di ricerca emozionale e fantastica esuberanti e senza pari nel contesto della pittura veneziana del Settecento…

Marco Rago © centoParole Magazine – riproduzione riservata

foto: Serena Bobbo, Marco Rago

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