Si è conclusa ieri pomeriggio, al Politeama Rossetti di Trieste, l’ultima replica dello spettacolo “L’anatra all’arancia”, diretto da Luca Barbareschi.
La commedia è stata scritta nei primi anni ’70 da William Douglas Home e poi adattata dall’autore teatrale francese Marc Gilbert Sauvajon. «È una commedia inglese a tutti gli effetti: ha un umorismo inglese, un umorismo in levare, è molto sottile, fatto di sottotesti. Sauvajon ne ha fatto un adattamento francese, con dialoghi veloci, fitti, serrati» – ha affermato Barbareschi durante la conferenza di sabato 3 dicembre, al Caffè San Marco, condotta da Maria Cristina Vilardo.
Nel 1973, a portare sul palcoscenico questa brillante commedia, è stato Alberto Lionello a fianco di Valeria Valeri. «Nell’anatra all’arancia, Lionello ha fatto un lavoro legato molto al suo stile comico – ha commentato Barbareschi. Io l’ho vista trentacinque anni fa a Milano, ero un ragazzino».
Ad aprire la scena è la calda voce di Mina con la canzone “Estate”. Una sera, tra le mura domestiche, la situazione di equilibrio inizia a sgretolarsi: Lisa Ferrari (Chiara Noschese) si fa spazio tra le parole del marito Gilberto Ferrari (Luca Barbareschi), confessandogli il tradimento. Attorno a loro solo una pulita geometria che disegna la scena. Linee, forme secche e uno sfondo che cambia colore, seguendo il fluire narrativo. Il lampadario, i pochi oggetti scenici e i vestiti di Lisa rimandano agli anni ’70, con uno sguardo verso l’arte Pop.
Luca Barbareschi nei panni di Gilberto, un uomo dall’aspetto piacente, rende il dialogo con la moglie ritmato e divertente, grazie alla sua pungente e pronta ironia. Gilberto «è un narciso, molto colto – ha detto Barbareschi. Ho deciso che doveva essere un ebreo come lo sono io, con quella capacità di battuta veloce, a volte un po’ cinica, a volte tardiva che è meravigliosa, perché non è politicamente corretta».
Da uno sfondo blu che introduce un apparente quiete domestica, si passa ad uno sfondo grigio perlato, ad una situazione di transito, di cambiamento, di incontro, che spezza l’armonia familiare: Volodia Smirnov (Gianluca Gobbi), un russo benestante amante di Lisa, raggiunge l’abitazione dei coniugi, su invito di Gilberto. Dopo un po’, al trio si unisce Chanel Pizziconi (Margherita Laterza), la segretaria di Gilberto.
A legare le varie scene è il cameriere Gennaro (Ernesto Mahieux), che per tutta la pièce cerca di fare “L’anatra all’arancia”. «Ho cercato di trasformarlo in una specie di anima nera, napoletana, che gestisce un po’ tutto: conosce la sua vittima, la moglie, ma soprattutto osserva. È una specie di maggiordomo cechoviano, però in salsa napoletana» – ha sottolineato Barbareschi.
In una sola giornata si susseguono una serie di vicissitudini scandite da alcuni momenti allegri e briosi e da altri pieni di spunti di riflessione. Nel punto centrale della narrazione, lo sfondo cambia nuovamente, facendosi arancione, caldo, scandendo l’azione scenica.
Chiara Noschese interpreta Lisa con particolare attenzione all’instabilità e alle nevrosi del personaggio, non lasciandosi sfuggire nulla. Dà vita ad una donna annebbiata dalla voglia di cambiare, di spezzare la quotidianità, ma che alla fine apre gli occhi sulla realtà della vita.
«Ho avuto questa grandissima opportunità di fare della moglie una meravigliosa bipolare che, secondo me, è la malattia del secolo – ha affermato il regista. È un personaggio difficilissimo da fare, perché è costantemente in dieci mondi paralleli; sta parlando, e in quel momento le viene in mente un’altra cosa».
Il personaggio di Lisa esiste perché a fianco c’è quello di Gilberto che la completa, rispettando il suo gioco. La coppia Noschese e Barbareschi funziona, così come il personaggio di Gianluca Gobbi, dall’accento russo, che da amante si fa vittima, o quello di Margherita Laterza, una segretaria esagerata in tutto: dall’abbigliamento al modo di porsi, alla voce, ma con una genialità di fondo.
Le pareti domestiche, nella scena finale, si fanno limpide, azzurrine. L’equilibrio iniziale è ritornato a splendere. «È una commedia sulla forza dell’emozione. Quello che mi piace tantissimo è che ha un finale di elaborazione affettiva strepitosa – ha raccontato Barbareschi. La coppia ritrova l’equilibrio, anche se aiutata da qualche psicofarmaco: “Noi due non saremo mai perfetti ma saremo noi due”. Questa è una frase molto bella: saremo noi due nelle imperfezioni».
La scelta dello sfondo che cambia, seguendo il fluire narrativo, incuriosisce. Viene da chiedersi come sia nata questa idea e se sia stata una scelta pensata o un po’ casuale. A risponderci è stato Barbareschi: «Se fossi in malafede direi che mi sono rifatto molto alla teoria dei colori di Leopardi – la studio insieme allo Zibaldone quasi ogni mattina (sorride) – e poi ai vari libri di Storaro sull’evoluzione del colore e l’impatto neuropsichiatrico. Io, invece, preferisco essere molto più sincero: quando lavoro sul testo è una cosa, quando lavoro sulla scenografia, sull’impostazione visiva del testo, è un’altra: cerco di trovare delle situazioni; lo faccio a livello molto istintivo. Mi piaceva in quella notte tenere quelle tonalità. La scelta dei colori non è una scelta del tutto casuale, segue un po’ la drammaturgia, però senza troppi pensieri».
È uno spettacolo visivamente molto essenziale, semplice. «Sì, sembra poco costoso: c’è una pedana, ci sono due fari, però poi ci sono anche 170 riflettori di tonalità diverse e un pvc che costa più di qualsiasi altra cosa al mondo (sorride)».
Un grande lavoro dietro le quinte, per arrivare a questo risultato. «La poesia del capomacchinista e del direttore di scena è proprio quella di riuscire a restituire la bellezza di uno spettacolo e di far sì che questi effetti, apparentemente molto semplici, siano fatti con grandi grazie».
“L’anatra all’arancia” non è una solamente una commedia: Barbareschi la porta ad un livello più alto, facendola diventare non solo risata, ma anche un insegnamento che raggiunge il pubblico. Rialzarsi dopo essere caduti, rendersi conto che la perfezione non esiste, sono alcuni dei messaggi che la commedia lascia trapelare tra le righe. Come ha ricordato il regista: «L’avventura del matrimonio è una partenza e non un arrivo; è un viaggio complicatissimo, ma anche affascinantissimo. Io l’ho capito al mio terzo matrimonio – meglio tardi che mai – però oggi so cosa vuol dire elaborare un rapporto a due. E questa commedia fa queste cose».
Anche se “L’anatra all’arancia” molti l’avranno già vista nella versione di Lionello o in quella cinematografica con Monica Vitti e Ugo Tognazzi, vale la pena andare a teatro a rivederla per chi l’ha già vista, o a scoprirla per chi, come le nuove generazioni, non l’ha assaporata.
La maggior parte dei giovani, però, preferisce il cinema al teatro: è di facile fruizione, non bisogna impegnarsi e pensare più di tanto. «È una scelta: se tu decidi che è meglio non pensare nella vita, hai deciso di suicidarti. Se decidi di non stimolare la parte più bella di te, che è il cervello, è una tua scelta. Il teatro è parola. Questa è la sua grande forza. Mi auguro che si ripensi molto al teatro: per Trieste, la sera, camminando dopo lo spettacolo, vedo tanti ragazzi bere. È terribile. Penso che se i ragazzi ritrovassero il piacere di ascoltare le parole, si drogherebbero di cose sane, berrebbero da una fontana molto più sana». Come si potrebbe convincerli ad avvicinarsi al teatro e far capire loro che ogni tanto bisogna pensare e che le cose belle vanno coltivate? «Sono compiti che spettano alla scuola e ai genitori. La figura dei genitori è importante». E se queste due realtà mancano? «Io cerco di farlo tutti i giorni, parlando».
Siamo invasi da immagini, però le immagini vere, come può esserlo un tramonto, pochi le sanno cogliere. «Il tramonto lo fotografano, che è peggio (sorride). Oggi, una cosa meravigliosa non la si guarda, mentre davanti ad un incidente ci si ferma. Abituarsi ad elaborare è un esercizio. Questo, per me, è il teatro, il cinema, la fiction. È un atto di responsabilità che molto spesso chi gestisce la comunicazione non ha. È una responsabilità grandissima».
In particolare le nuove generazioni faticano ad assaporare le piccole cose della vita in prima persona: hanno bisogno di uno schermo. «Hanno bisogno di un device che medi quello che vedono, invece l’unica mediazione dovrebbe essere la tua emozione, non un altro schermo». E la tecnologia? «La tecnologia è un mezzo, non è un fine…».
Dal 13 dicembre all’8 gennaio 2017 potrete gustare “L’anatra all’arancia” al Teatro Eliseo di Roma.
Nadia Pastorcich ©centoParole Magazine – riproduzione riservata.