Unica e vagamente misteriosa, italianamente mitteleuropea, meraviglia multiculturale da scoprire: così potrebbe essere descritta la città di Trieste. La città, antico porto marittimo dell’Impero Austro-Ungarico che costruì la sua fama e la sua fortuna tramite sia la decadenza di Venezia che l’incrocio, consolidatosi e intensificatosi nei secoli, di varie culture e gruppi etnici che ne hanno determinato la forma (oltre alle grandi componenti tedesca e slava, vanno accennate quanto meno le comunità ebraica, greca e armena), ha scoperto con la seconda metà dell’Ottocento la sua profonda radice italiana. Questa città, nonostante le grandi tragedie storiche del Novecento, ha avviato negli ultimi decenni un percorso di riscoperta della sua complessa struttura sociale, antropologica, economica e soprattutto culturale marcatamente mitteleuropea (seppure costituitasi in modo totalmente originale). E, quando necessario e con i mezzi a sua disposizione, ha contribuito ad arricchirla.
Tra i meriti, purtroppo poco noto per le sfortunate condizioni manifestatesi nel tempo e il quasi totale disinteresse di gran parte dei triestini, va ricordato la creazione ex novo di una Galleria Nazionale di Arte Antica italiana che andava ad arricchire il già ricco e variegato complesso artistico-culturale della città. In questo articolo non si offrirà soltanto un resoconto storico della nascita e degli sviluppi della locale Galleria Nazionale, ma si avanzerà anche una proposta di collocazione e allestimento che, date le componenti sperimentali qui proposte, ha carattere sì puramente teorico ma che avrebbe (se dovesse trovare attuazione concreta – stimolando chi ha i mezzi per portare a termine tale progetto) anche componenti di unicità e avanguardia. Si intende precisare, inoltre, che non saranno tralasciati anche aspetti meno edificanti, come occasioni sfumate di sviluppo e appunti critici verso una città che si è dimostrata, nonostante la sua secolare e complessa vocazione culturale, cieca e (purtroppo, si teme volutamente) di ostacolo a sé stessa con un’ostinazione preoccupante volta alla fossilizzazione di un passato non più ripetibile.
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Trieste, città situata a confine tra gli antichi domini friulani della Repubblica di Venezia e le terre slave, scoprì solo dal 1719 la sua grande vocazione commerciale e marittima, grazie all’attribuzione, da parte dell’imperatore Carlo VI d’Asburgo, dello status di porto franco. Assieme alla crescente prosperità economica, si aggiunse l’affermazione di un vivace fermento culturale e artistico che non ha conosciuto soste sino al tragico scoppio della Prima Guerra Mondiale. A ciò si aggiunse il fermento collezionistico, non limitato al locale ceto aristocratico, che portò alla creazione di importanti collezioni di arte sia antica che moderna da parte di mercanti e uomini d’affari arricchitisi e che hanno dato lustro alla città: ma, si precisa, la quasi totalità di queste collezioni prestigiose è andata purtroppo dispersa sul mercato con un ritmo crescente nel tempo, come è purtroppo evidente dalla presenza di importanti opere nei cataloghi di vendita delle case d’asta (come esempio, si vuole qui ricordare la grave perdita del San Francesco confortato dall’angelo di Caravaggio, ora ad Hartford, la cui vicenda è stata scrupolosamente indagata dal dott. Daniele D’Anza in “Ricche Minere”). Va inoltre aggiunto che, tra i meriti (veri o presunti) della politica austriaca a Trieste, non vi è nessuna iniziativa culturale e artistica promossa a livello centrale mirante alla creazione, nell’importante porto imperiale, di un museo pubblico di raccolte d’arte antica, ciò a testimonianza della scarsa considerazione che Vienna e la casa degli Asburgo-Lorena nutrivano per la città in tale ambito (fatta eccezione per la figura dell’arciduca Massimiliano). Se, dopo l’annessione di Trieste all’Italia, i fermenti nel contesto collezionistico locale sono continuati e sono stati paralleli agli sviluppi architettonico-urbanistici che hanno determinato in parte il volto attuale della città, lo Stato Italiano non ha immediatamente contribuito alla creazione di una Galleria Nazionale di Arte Antica nella città redenta (in quanto gli sforzi del regime fascista erano volti all’abbattimento del complesso contesto giuliano-triestino – creatosi, coi suoi pregi e i suoi contrasti, in secoli di sviluppo – a favore di un’italianità, forzatamente e strumentalmente artificiale, sostenuta dal regime a fini politici). La fase apertasi con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e conclusasi il 5 ottobre 1954 (caratterizzata da molteplici traumi, in parte non completamente sanati, che hanno interessato Trieste e tutte le terre – ora divise tra Italia, Slovenia e Croazia, secondo confini artificiali – dell’antica Venezia Giulia), creò di fatto le condizioni per la nascita della Galleria tramite le azioni dell’allora Soprintendente ai Monumenti, Gallerie e Antichità di Trieste, l’architetto Benedetto Civiletti.
Dopo la stipula del Memorandum di Londra (ottobre 1954), col conseguente passaggio di consegne dell’amministrazione di Trieste dal Governo Militare Alleato alla Repubblica Italiana, era emersa la necessità di dotare finalmente la città, nuovamente riunita all’Italia (anche se fu necessario attendere il Trattato di Osimo, firmato nel 1975, per rendere ufficiale e definitiva la sovranità italiana su Trieste e i territori costituenti la sua provincia), di una Galleria pubblica e statale che riunisse capolavori di arte antica italiana. Ed è proprio il Soprintendente Civiletti che, in un resoconto redatto di sua mano (“Annali della Pubblica Istruzione”, IV, 10, 1958), ci ha lasciato la migliore spiegazione di tale necessità: “[…] È stata ravvisata da parte della Soprintendenza la necessità di dotare la città di Trieste di una Galleria d’arte antica essendosi notato che, sebbene ricca di una civica collezione d’arte moderna quale il Museo Revoltella, ben pochi esempi di pittura rinascimentale e barocca si potevano agevolmente vedere in città. Era questa una lacuna quanto mai evidente poiché, per poter ammirare qualche tela dell’epoca indicata, i Triestini dovevano recarsi almeno a Venezia. L’occasione si presentò quando si venne a conoscenza che una notevole raccolta privata, ben conosciuta agli studiosi, era sul punto di essere smembrata e dispersa. Furono intavolate trattative, fu interpellato il Consiglio superiore delle belle arti, e infine, con pronta intuizione e generoso gesto il Commissario generale del Governo per il Territorio di Trieste volle dotare la città di questa nuova ricchezza. Dal 14 dicembre 1957, la città ha la sua Galleria d’arte antica la quale, ricca di pezzi veramente importanti come di esempi di primo piano pur se non preziosi, può offrire agli studiosi ed ai profani un panorama di opere d’arte che abbracciano tre secoli abbondanti di pittura aulica italiana. […]”
La locale Galleria Nazionale d’Arte Antica nacque quindi con un duplice scopo: da un punto di vista meramente politico, riaffermare la profonda radice italiana della città, seppure sviluppatasi in modo originale, tramite un’iniziativa politica che era un primo passo concreto nel ritorno della legittima sovranità all’Italia; dal punto di vista artistico-culturale, invece, ciò aveva il pregevole scopo di colmare una grave lacuna nel contesto culturale triestino, tramite l’acquisizione pubblica di una collezione di pregio (anche se priva di capolavori assoluti – determinata dall’iniziativa di un privato). E l’occasione trovò attuazione concreta nell’acquisizione, nel 1955 e nel 1957, delle 49 opere della collezione di arte antica del senatore veneziano Pietro (o, secondo altre fonti, Piero) Mentasti: è questo il primo nucleo che costituisce la Galleria Nazionale di Trieste. Queste opere, in parte esposte alla “Galleria del Sole” di Milano nell’inverno del 1953, offrono uno spaccato generale delle diverse scuole pittoriche della penisola nell’arco cronologico compreso tra il tardo Quattrocento e il Settecento. Esse trovarono la loro prima sede presso il Castelletto di Miramare; l’inaugurazione della Galleria ebbe luogo il 14 dicembre 1957 dopo la riapertura, voluta dal Soprintendente Civiletti, del Parco e del Castello di Miramare il 2 giugno 1955, conclusi i doverosi restauri e le bonifiche necessarie dopo i drammi della Seconda Guerra Mondiale e dell’occupazione militare alleata. Ma, a causa degli spazi limitati e, forse, di un attaccamento radicato dei triestini più verso il Castello che verso una collezione, forse, sentita come estranea dalla città (a cui va aggiunto il mancato completamento del rilancio del comprensorio di Miramare, studiato da Civiletti), la Galleria Nazionale d’Arte Antica di Trieste chiuse al pubblico nel settembre 1960. Si cercarono immediatamente nuove soluzioni: il progetto di una nuova sede della Soprintendenza, da edificarsi nell’area vicina al Teatro Romano (sul sito dove oggi sorge l’ingresso del parcheggio sotterraneo San Giusto), con un’opera degli architetti razionalisti Umberto Nordio e Romano Boico, che doveva ospitare non solo la Galleria e i nuovi uffici della Soprintendenza, ma anche spazi per mostre temporanee e conferenze, non trovò esito a causa dell’esiguità di fondi. Nuove soluzioni si aprirono nel 1975, quando lo Stato acquistò il centrale Palazzo Economo ove, il 24 novembre 1984, al piano nobile dello stesso fu nuovamente aperta al pubblico la Galleria Nazionale: il resoconto, in merito, è stato redatto dall’allora Soprintendente Luigi (o, secondo alcune fonti, Gino) Pavan. Se nel 2001 essa fu oggetto di un nuovo allestimento, curato da Fabrizio Magani (autore del primo catalogo scientifico completo), nel 2004 la Galleria Nazionale fu nuovamente chiusa e disallestita dal secondo piano di Palazzo Economo. La sfortunata sorte di questa collezione, accresciutasi nel tempo, è compensata da una strategia messa in atto dalla Soprintendenza per valorizzarla (se non a Trieste in altre località della penisola) tramite l’itineranza della collezione, con le mostre di Pavia (2011 – Cranach Tintoretto Bernini e i capolavori della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Trieste) e Gorizia (2012 – Rivelazioni. Quattro secoli di capolavori). Pur non essendo questa la sede appropriata per un’analisi completa delle singole opere, è però necessario porre l’attenzione su alcune di esse, esemplari per la qualità e le caratteristiche di rarità: ad esempio, la piccola tela attribuita a Jacopo Robusti detto il Tintoretto col Ritratto di gentiluomo con barba databile al quinto decennio del Cinquecento; il Profeta Geremia di Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone eseguito tra il secondo e il terzo decennio del Seicento; la Natura morta con frutta candita e frutta di stagione di Pier Francesco Cittadini detto il Milanese, del sesto o settimo decennio del Seicento; la Gloria di san Nicola (databile agli anni Settanta del Seicento) e l’Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre di Francesco Solimena; e il pregevole Gonfalone (dipinto su ambo i lati – rarità che compensa la perdita delle altre decorazioni, frange e bordure, tipiche di questo genere di opere) dipinto da Giovanni Antonio Guardi verso la metà del Settecento con tema san Nicola (Benedicente sul recto, In estasi sul verso).
A questo primo nucleo (dei tre che compongono attualmente la Galleria Nazionale), se ne è aggiunto in tempi più recenti il secondo, costituito da 22 beni: si tratta di opere quasi tutte originarie di contesti sacri salvate dallo Stato italiano, durante il secondo periodo bellico, da Capodistria e Pirano (città, all’epoca, facenti parte dello Stato italiano) e riscoperte dagli studiosi e da un più vasto pubblico solo in anni recenti (con coronamento la mostra tenutasi a Trieste, presso il Museo Revoltella, Histria. Opere d’arte restaurate: da Paolo Veneziano a Tiepolo – a cavallo tra il 2005 e il 2006). La drammatica storia di queste opere non è disgiunta dai drammi bellici e post-bellici che hanno segnato profondamente le terre dell’antica Venezia Giulia. Dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e in seguito alla promulgazione della Legge 1089 del 1 giugno 1939, volta alla tutela dei beni culturali), lo Stato, con apposita legge del 6 luglio 1940, ordina la messa in sicurezza di tutte le opere di interesse culturale presenti entro i propri confini per salvarli dai possibili disastri bellici (memore delle gravi perdite avvenute nel corso del primo conflitto). Tale legge, in realtà, conferiva legittimità normativa alle opere preventive di messa in sicurezza, attuate nei precedenti mesi, delle opere del Friuli e della Venezia Giulia intesa nella sua unità storica, sino all’Istria e Fiume (considerata area ad alto rischio in caso di scontri bellici). Così, nel 1943, in seguito al crollo militare italiano, presso la Villa Manin di Passariano erano riunite, sotto la supervisione del Direttore all’accentramento delle opere Carlo Someda de Marco, 248 casse contenenti preziosi e inestimabili capolavori giunti dalle due regioni; non essendo più un luogo sicuro, fu deciso di spostare le casse in altri ricoveri segreti (in particolare a San Daniele del Friuli), mentre una parte di questi tesori fu restituita ai proprietari a precise condizioni. Successivamente, nel 1944, una parte delle casse ancora sotto custodia fu portata a Venezia; da qui, le opere subirono strade diverse. Una nuova fase si aprì con la fine della guerra: la storia delle opere oggi parte della Galleria Nazionale si caratterizza per decenni di esilio nell’oblio della memoria. Ricoverate presso il Museo Nazionale Romano (11 aprile 1948), esse furono spostate a Palazzo Venezia il 28 luglio 1972; solo il 2 aprile 2002 il Sottosegretario di Stato per i beni culturali di allora, Vittorio Sgarbi, destinò le opere di Capodistria e Pirano alla Soprintendenza di Trieste. Con tale atto ha avuto inizio il percorso di riscoperta di questo tesoro: il 2 aprile 2003 il ministro Giuliano Urbani ne finanzia il restauro; il 3 dicembre il ministro concede i finanziamenti per la mostra triestina organizzata per offrire nuovamente al pubblico questi capolavori. Dopo l’evento espositivo, le opere confluirono dal 2006 nella Galleria ma, a differenza del nucleo originale (rimasto in deposito, ora a Miramare), queste 22 opere hanno trovato collocazione temporanea (di paradossale “deposito”) presso il Civico Museo Sartorio. Tale corpus di opere si distingue per meriti e caratteristiche molteplici: oltre a essere una testimonianza palese del duro e sempre costante lavoro di tutela messo in atto dalla locale Soprintendenza per la conservazione di un patrimonio che ha una valenza esemplare (sia storico-artistica che puramente storica), racchiude al suo interno opere che vanno a integrare gravi lacune dell’originaria Galleria Nazionale, quali l’assenza di opere medievali e di opere di scultura. Anche in questo caso, ci si limiterà ad accennare a qualche pregevole esempio: il dossale con Madonna col Bambino e santi di Paolo Veneziano e aiuti dalla collegiata di San Giorgio a Pirano, datato al 1355; la Madonna col Bambino e angeli musicanti di Alvise Vivarini dal Museo Civico di Capodistria, del 1489; il busto di Cristo dolente di Francesco Terilli (uno degli esempi di scultura – in questo caso lignea), del 1590-1610 ca e giunto da Pirano; l’Annunciazione di Matteo Ponzone dalla chiesa di Santo Stefano di Pirano e datata intorno al 1638; la Madonna della cintola e santi di Giambattista Tiepolo dalla chiesa della Madonna della consolazione di Pirano, eseguita intorno al 1730 ca. Un meraviglioso spaccato dell’arte di scuola veneziana, sia della capitale che delle province dell’antica Repubblica, comprese in un arco cronologico che va dal Trecento sino al Settecento: così si può riassumere la descrizione del secondo nucleo della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Trieste.
A questi due nuclei, va aggiunto un terzo gruppo di opere, frutto dell’accrescimento della Galleria Nazionale nel corso degli anni e dovuto ad alcune campagne di acquisizioni e confische di opere effettuate dallo Stato e dalla Soprintendenza, in un arco cronologico iniziato nel 1951 e continuato sino al 1996. Una riflessione su questo nucleo deve iniziare sull’unica opera donata alla Galleria: il Ritratto di Anna Lucy Lamb Hermann di Tito Agujari, donato dai discendenti Oscar e Bruna Armani nel 1982, ed eseguito verso il 1879; si tratta di una delle tre opere ottocentesche divenute parte della Galleria Nazionale. Importanti furono anche le acquisizioni, non solo opere acquistate regolarmente da collezioni private dallo Stato o dalla Soprintendenza, ma anche opere salvate da esportazioni illegali. Nel primo caso si vogliono ricordare i fogli coi disegni di Canaletto, acquistati dalla collezione di Tito Miotti nel 1973, o le due tele di Nicola Grassi (La Maddalena e l’Annunciazione) acquistate nel 1996 da una collezione veneta. Altrettanto importanti le opere salvate da vendite illegali, quali la Venere dormiente con amorini di Daniel Seiter (con alle spalle una complessa vicenda, conclusasi nel 1970) e Venere e Adone di Lucas Cranach il Vecchio e bottega, in origine, parte della collezione triestina di Anna Segré-Sartorio (non facente parte della donazione alla città, e per questo destinata a una vendita clandestina) e giunta nella Galleria Nazionale nel 1977: due opere importanti per la qualità e per l’ambito di competenza (ossia quella che può essere definita la scuola pittorica europea – rispettivamente del Settecento e del Cinquecento). Una menzione a parte spetta alle opere provenienti dal Castello di Miramare, parte delle antiche collezioni di Massimiliano: se il Ritratto virile di scuola veneta e la Testa di vecchia attribuita a Bernardo Strozzi sono diventate parte integrante della Galleria Nazionale, le due tele di Johann Heinrich Schönfeld facenti un tempo parte della serie dei Cinque sensi (Il gusto e L’odorato), seppure comprese nel percorso espositivo concepito da Magani, non fanno più parte della Galleria Nazionale.
Non ne fanno parte anche le tele del Ciclo del progresso, che un tempo decorava lo storico Caffè alla Stazione di piazza Libertà (smantellato nel febbraio 1955): acquistato dalla Fondazione CRTrieste nel 1979, è conservato in deposito presso la Soprintendenza di Trieste ed era parte del percorso espositivo della Galleria Nazionale quando si trovava a Palazzo Economo. Gli otto teleri (dipinti da Eugenio Scomparini, Antonio Lonza, Giuseppe Barison, Guido Grimani e Giuseppe Pogna) arricchivano quindi la collezione con opere di tardo Ottocento (eseguite entro il settembre 1897 – periodo di inaugurazione del Caffè) ed espressione delle diverse maniere di alcuni dei pittori più importanti operanti a Trieste in quegli anni.
Un ultimo cenno va rivolto al pregevole Salone piemontese, un tempo parte integrante del percorso espositivo della Galleria Nazionale a Palazzo Economo e una delle pochissime testimonianze del Rococò presenti in città. Acquistato presso l’antiquario Pietro Accorsi di Torino (quale tramite della famiglia Agnelli) dal barone Demetrio Economo per il suo palazzo di Trieste, il Salone finì in eredità al conte Giovanni Trauttmansdorff. Questi si era rivolto nuovamente, il 9 settebre 1967, all’antiquario Accorsi per vendere gli arredi che costituiscono il Salone ma, fortunatamente, il vincolo posto dalla Soprintendenza e il successivo acquisto del palazzo da parte dello Stato permise di mantenere in città questo prezioso ambiente. Probabilmente frutto della moda dei “riallestimenti d’epoca” (ovvero l’unione di elementi decorativi di provenienza diversa in un contesto unitario), esso è costituito da preziose boiseries intagliate e dorate alternate da specchiere; si può affermare che la parte più cospicua degli elementi sia originale, mentre poche sarebbero le componenti messe in opera in occasione dell’allestimento triestino. Il confronto con analoghi interventi superstiti nei palazzi torinesi induce a datare il complesso agli anni Quaranta del Settecento, epoca dominata dalla figura di Filippo Juvarra e animata dall’ascesa di Benedetto Alfieri: domina il sapiente uso di linee morbide per i profili delle incorniciature di specchiere e sovrapporte e il modulo di impianto delle lesene intagliate. Il tutto è animato da opere di alcuni artisti tra i più significativi della scuola partenopea del Settecento (quali Corrado Giaquinto e Sebastiano Conca), usate come sovrapporte in sostituzione degli originali specchi; sono presenti anche una copia da un’opera non rintracciata di Giovan Battista Gaulli detto il Baciccio, un Ritratto di dama di pittore franco-fiammingo e il grande Ritratto di Carlo Emanuele III di Savoia della pittrice torinese Maria Giovanna Clementi detta Clementina. Meno appariscenti gli ultimi due dipinti che decorano questo storico ambiente: la Scena di caccia con veduta di Moncalieri attribuita ad Angelo Antonio Cignaroli, e la grande tela a decoro del soffitto con l’Allegoria della Pace e della Nobiltà, ispirato alla maniera di Giambattista Tiepolo, che ha determinato lo sviluppo della decorazione del soffitto della sala (originariamente più sobria, con un dipinto monocromo o un rilievo a stucco, come si intuisce dalle poco leggibili foto d’epoca).
Marco Rago © centoParole Magazine – riproduzione riservata
[foto: Serena Bobbo e Marco Rago]