Diamoci del tu. Enzo Decaro: bisogna essere parte attiva della comunicazione

diamocideltuTutto si svolge in uno spazio freddo, dai toni scuri, con pochi elementi scenici, permettendo così di focalizzarsi sulla parola. Appena entrati in scena Enzo Decaro e Anna Galiena conquistano il pubblico de La Contrada di Trieste, facendolo sorridere con “Diamoci del tu”, commedia del drammaturgo canadese Norm Foster, diretta da Emanuela Giordano.
Dopo 28 anni trascorsi assieme, sotto lo stesso tetto, tra David Kilbride, scrittore di successo per i suoi romanzi di spionaggio, e la sua domestica Lucy Hopperstaad inizia a crearsi un rapporto comunicativo che matura durante i 90 minuti dell’atto unico. Una sera, su richiesta di David, Lucy, con l’aiuto di un bicchierino di whisky, inizia a raccontargli la propria vita, partendo dai primi ricordi per arrivare a un punto determinante, che andrà ad incidere sul finale dello spettacolo. Tra battute divertenti, spontanee, fresche e momenti di tenerezza e riflessione, i due protagonisti si aprono, rivelando parte di sé e del proprio passato.
Enzo Decaro con umorismo sottile e pungente anima la conversazione, aggiungendo gli ingredienti perfetti per far ridere e sorridere; mentre Anna Galiena scandisce il ritmo verbale, conferendo alla scena un’atmosfera calda e piacevole.
Ciò che lo spettacolo mostra o meglio trasmette, non è altro che l’importanza dell’ascolto e di conseguenza della comunicazione, perché solo se c’è qualcuno che ascolta, l’atto comunicativo può avvenire. Anche le piccole sfumature della vita, le banalità che a volte passano in second’ordine, meritano attenzione: sono parte di noi stessi, di tutto ciò che ci scorre davanti agli occhi. Non si possono ignorare i pensieri addormentati nelle mente che poco a poco si risvegliano, il bisogno dell’altro, di un interlocutore, il desiderio di lasciare un segno di sé, che cresce con il passare del tempo.
David, in crisi di identità e creatività, grazie a Lucy, al dialogo, allo scambio, riesce a trovare se stesso e il soggetto per il suo prossimo romanzo; Lucy, invece, di fronte all’”interrogatorio” di David, riesce a togliersi alcuni pesi, che si portava appresso da fin troppo tempo.
“Diamoci del tu” insegna, suscita domande, smuove le menti, accende i riflettori su quanto poco a volte si conoscano le persone che ci stanno accanto quotidianamente. È uno spettacolo che merita d’essere vissuto, così come la vita, senza tralasciare nulla, ma soprattutto ascoltando e comunicando con noi stessi e con chi ci sta vicino. La pièce resterà in scena fino a lunedì 28 novembre.

CentoParole ha intervistato per voi Enzo Decaro. 

Enzo DecaroLei è nato a Portici, una città di mare che presuppone uno scambio, un’apertura verso altre culture…

Sì, non a caso, per me, anche Trieste è casa. Ogni volta che ho la possibilità di venirci, ci vengo volentieri: sto molto bene, mi sento proprio a casa. Si vede che l’idea del mare, dell’apertura, con i suoi pro e contro, è rimasta. La difficoltà delle città di mare è che hanno più identità, mutuate anche dagli scambi, dagli incontri. È una cosa che un po’ ci influenza. Non a caso, anche in questo spettacolo teatrale che portiamo in giro, c’è un’influenza, uno scambio, un’apertura alla diversità, che magari qualche volta può portare dei problemi alle nostre città, ai nostri modi di vivere, alla nostra cultura, che è un valore irrinunciabile.

Lei che è laureato in lettere moderne, negli anni universitari che rapporto aveva con il teatro?

Conflittuale: spesso dovevo scegliere se fare teatro o frequentare l’Università (sorride), che non ho frequentato molto: mi accontentavo di dare degli esami. Comunque è stato utile, perché ho direzionato il mio piano di studi a quanti più esami avessero a che fare con il mondo del teatro, della comunicazione in generale, come quello di storia del teatro, di antropologia culturale. Materie che risultavano utili e più vicine agli interessi che avevo.

Ma lei ha frequentato una scuola di recitazione o è autodidatta?

La scuola di recitazione (sorride) l’ho frequentata con il gran Maestro Massimo Troisi, che è stato il mio mentore. Eravamo tutti e due in un gruppo di teatro molto più ampio, dove ci riunivamo per fare teatro, musica e soprattutto pensiero. In quel periodo, verso la fine degli anni ’70, il Sud, e Napoli in particolare, era proprio un bollitoio di pensiero che in pochi anni ha visto emergere, a parte noi de La Smorfia, anche Pino Daniele, Roberto De Simone, la Nuova Compagnia di Canto Popolare e tutti i fratelli Bennato. Napoli era una fucina. Era un momento culturalmente molto stimolante e creativo.

Come si è formato il trio comico La Smorfia?

È una costola nata da questo ampio gruppo di appassionati di teatro; teatro…era una specie
di garage riadattato a teatro (sorride), viste le possibilità che c’erano. È stato molto importante che proprio all’interno di questo gruppo sia nata poi La Smorfia, che in seguito si è spostata in giro per l’Italia. Abbiamo sempre mantenuto fede ai nostri semplici principi di appassionati di teatro “dilettanti”, nel senso che proprio ci dilettavamo, ci piaceva farlo. La chance più grande è stata quella di poter trasformare in lavoro ciò che facevamo per passione. Fare il lavoro che ti piace, e farlo con i tuoi amici, è proprio il massimo!

Si ricorda il primo debutto a teatro di questo trio?

Ce ne sarà stata una serie, perché poi il gruppo si apriva, si estendeva, si riduceva di numero; alla fine è rimasto un trio. I vari debutti sono sempre stati legati al mio compleanno: è capitato che abbiamo debuttato a Napoli il 24 marzo, a Roma il 24 marzo. Ho portato questa data di nascita anche come portafortuna per i nostri vari debutti.

In un’intervista lei ha detto che questo trio comunicava i disagi di una generazione, la vostra, che non trovava una sua collocazione. Secondo me, è un tema molto attuale: anche le generazioni di oggi vagano alla ricerca di qualcosa, di una propria collocazione…

È un “sano” disagio generazionale che dovrebbe, pian piano, fare in modo che la generazione successiva, avendo il disagio di quella precedente, apporti dei cambiamenti, delle modifiche, che si evolva. Verso la fine degli anni ’70, nell’area culturale-teatrale di Napoli, c’era un’esigenza di discontinuità con un passato politicamente incapace e con una Napoli oleografica, anche teatralmente: c’era il monumentale genio di Eduardo che ha dato grandezza e lustro a questa città; il resto era soprattutto eduardismo, che tentava di ricalcare le orme di Eduardo, ma non ci riusciva. Per cui la cosa principale di quella generazione era creare una discontinuità, non sentendosi rappresentata da quelli della generazione precedente. Ciò che era importante, a differenza di oggi, era comunicare.
Quella volta non c’erano tutti gli infiniti mezzi di comunicazione che esistono oggi, però il lato positivo era che bisognava fare molta attenzione a che cosa comunicare: non c’era il come, ma ci doveva essere il che cosa. La differenza è che oggi c’è la possibilità infinita di come comunicare, ma a volte ci sfugge il cosa. Una persona può comunicare in tanti modi, in quanti caratteri vuole, però, poi, ciò che sta comunicando, a volte, sfugge. Credo che ogni generazione abbia le sue problematiche, per cui è anche difficile fare dei collegamenti con la generazione di oggi. Il collegamento più importante è proprio questo tentativo di non uniformarsi; infatti credo che le generazioni più giovani trovino una piccola identità quando non si identificano con quello che già c’è. E poi a ognuno tocca fare un pezzetto.

Viviamo in un mondo pieno di informazioni, di molta comunicazione superficiale, in cui tanti parlano, ma alla fine pochi ascoltano realmente il prossimo…

Questa è una scelta, più che generazionale, individuale. Trovo che ci sia, per fortuna, tanta possibilità di ascoltare, di sapere, anche se, ovviamente, le informazioni vanno verificate il più possibile, tenendo presenti le fonti. La grande rivoluzione telematica – e meno male che non si può tornare indietro – sta però arrivando ad una sorta di collasso, ad un eccesso di informazioni come numero e ad una certa esiguità per quanto riguarda la qualità. Ripeto, è una scelta individuale e sarà sempre più così, perché l’informazione e l’offerta aumenteranno sempre di più e bisognerà crearsi gli accorgimenti, i radar, per saperla valutare o approfittare delle opportunità che offre, rimanendo però sempre vigili e pensando con la propria testa.

Secondo lei, docente di Scrittura Creativa, che ruolo ha la parola tra i giovani?

Ha un ruolo non fondamentale. Mi sembra che servano maggiormente l’esempio, l’azione, l’empatia perché, come dicevamo prima, siccome tutti dicono tutto di tutto, ad un certo punto può valere di più un silenzio attivo e comunicativo, un’azione nel fare qualcosa, oppure anche un tacere quando tutti stanno ad urlare. Secondo me, più che la parola, valgono la fiducia, un rapporto chiaro; e a volte una parolina finale può essere utile, ma non fondamentale.

Quindi il suo lavoro non è solo scrittura, è qualcosa di più…

Il lavoro che faccio non ha a che fare con una scrittura creativa in generale, bensì con una scrittura creativa personale, dove uno può accedere, il più possibile, alla propria scrittura creativa; dove ogni tanto anche si scrive, ma non necessariamente: si può scrivere in tanti modi, pure con delle immagini, dei suoni, dei pensieri. Il lavoro è sempre quello di riconnettersi alla propria natura essenziale.

Come vede la fotografia, tenendo conto che ormai oggi tutti sono fotografi e fotografano ogni cosa con i cellulari?

Allo stesso modo della parola: l’offerta e la produzione delle immagini continueranno ad aumentare e sarà sempre più difficile, ma anche interessante, poter fornire una parola o un’immagine creativa personale. Ad un primo livello, quello più superficiale, sarà facile trovare un’immagine, una parola, ma sarà un po’ più difficile arrivare al secondo livello, quello dove bisognerà fare in modo che da tutte queste parole, da tutte queste immagini di cui siamo bombardati, venga fuori un messaggio che abbia un senso e un valore non omologato. Anche in questo caso si tratta di una scelta personale.

Da studentessa di Scienze della Comunicazione mi viene da farle una domanda: lei che insegna alla facoltà di Scienze della Comunicazione all’Università di Salerno che cosa ne pensa di questa facoltà?

Come avrai visto, Scienze della Comunicazione è una meravigliosa facoltà che ti apre al pensiero e ti forma, ma ormai è evidente a tutti, che da sola non basta più. Io la chiamo una facoltà propedeutica, nel senso che ti apre, ti forma il pensiero e ti fa capire non tanto quello che vuoi fare o puoi fare, ma soprattuto quello che non vuoi fare e non puoi fare. E già non è male. Ma dopo ci vuole una sorta di auto-specializzazione in se stessi, per capire verso quale tipologia di comunicazione si vuole andare in questo nostro tempo, che è il tempo della comunicazione. Bisogna fare un grande sforzo per imparare a comunicare, ma come hai giustamente individuato tu, c’è una cosa che è imprescindibile dall’apprendimento della comunicazione, dall’apprendimento a fare comunicazione: l’apprendimento dell’ascolto. È necessario distinguere il superfluo dal contenuto; fatto quello, si può passare a scegliere la comunicazione come scienza. È una sfida molto interessante.

La funzione della televisione di una volta era quella di comunicare informando, mentre la comunicazione di oggi?

È una comunicazione diversa, di evasione. Una volta il campo di ricerca era affidato a Rai 3, specialmente dopo una certa ora; oggi, invece, la comunicazione è in continua evoluzione e grazie a internet c’è una grande facilità di accesso alle informazioni. Questo è un dato significativo, importante, che può essere un fatto positivo, un passo in avanti, a patto che poi uno sia parte attiva della comunicazione, che sia una persona che fruisce, ma che sia anche capace di filtrare tutto ciò che le viene comunicato.

In alcuni giovani manca la consapevolezza delle possibilità che hanno grazie a questi mezzi, che una volta non c’erano. Abbiamo una comunicazione immediata, vicina a noi, che non bisogna dare per scontata…

Sicuramente, sicuramente, ma c’è anche una responsabilità da parte della generazione passata che non ha saputo fornire i criteri, i limiti e le possibilità di accesso e filtraggio a tutta questa comunicazione. Ora questo compito, con la velocità che vi contraddistingue, tocca a voi…

Docente, attore e anche regista. Nel film “Prima che sia troppo presto” si è occupato della regia, della sceneggiatura, delle musiche e ha anche interpretato una parte. Com’è gestire tutti questi ruoli?

Male (sorride), infatti non l’ho mai più fatto. È stato molto interessante, perché ho imparato tante cose. Era un’opera prima, quindi volevo portarla a termine nel modo più autoriale possibile, però da quella volta in poi ho preferito condividere il lavoro. Ho fatto anche altre regie, ma non c’ero come attore, oppure ho fatto delle cose come attore, ma non c’ero come regista. Credo che siano due sguardi talmente differenti e nel mio caso richiedevano la totale dedizione a uno dei ruoli. Però è stato bello poterlo fare.

Ma le musiche del film le ha scelte o le ha composte?

Un po’ e un po’: alcune le ho scelte, alcune le ho composte.

Quindi è anche un musicista e che strumento suona?

Sì. Suono quello che capita, anche il clacson e il citofono. Me la cavo benissimo! (sorride)

Com’è dirigere un’opera lirica?

Mi è capitato di farlo anche recentemente partendo dalla musica come guida alle emozioni degli interpreti, che sono i cantanti. Ho cercato di fare una sorta di ponte teatrale, che spesso manca nelle opere, tra la musica e i cantanti, ai quali, ho scoperto, piace molto imparare e darsi all’interpretazione.

E che cosa si potrebbe fare per avvicinare i giovani all’opera lirica?

Fare in modo di tirarla fuori dai salotti di naftalina e in questo il web potrebbe essere di aiuto in maniera decisiva. L’opera va rinnovata nei luoghi, nei modi, nei costi; soprattutto andrebbe fatta conoscere, perché credo che non sia conosciuta abbastanza e siccome ha in sé delle caratteristiche, delle basi molti importanti, quando poi uno la conosce, ne viene in qualche modo catturato.
Generazionalmente bisognerebbe toglierla ai vecchi e riappropriarsene, come è successo quando è nata. Oggi le cose vanno diversamente: le opere sono le web series o altre cose simili. Nonostante ciò andrebbe valutato un po’ meglio il contesto artistico, letterario e musicale della nostra grande opera che è, italianamente parlando, un tesoro enorme.

Qual è l’ingrediente di una serie così longeva come “Provaci ancora prof”?

Se lo sapessimo ne faremmo dieci (sorride), il fatto è che in realtà non lo sappiamo. Facciamo parte della ricetta e quindi continuiamo con divertimento, passione e dedizione a proseguire una ricetta di cui in realtà non conosciamo benissimo gli ingredienti, perché non è nata come una ricetta a tavolino. È stata una serie la cui longevità e successo sono stati decretati solo dal pubblico. Noi possiamo solo continuare a farla con lo stesso slancio. Il prossimo mese cominciamo le riprese della settima serie e lo facciamo sempre come se fosse la prima. Nel tempo si è creato anche un bell’ambiente tra le persone, gli attori, i registi. È come ritrovarsi a consumare un buon pasto di cui ognuno fa un pezzetto e cerca di farlo nel miglior modo possibile.

È una bella serie perché riesce ad unire più generazioni…

Forse perché ha varie letture: c’è chi si appassiona al giallo, c’è chi si appassiona alla famiglia, c’è chi si appassiona alla commedia. Ha una serie di livelli di lettura e di fruizione sicuramente ampi.

Come mai è nata la sua collaborazione con la collana di Audiolibri?

Perché mi sembrava interessante portare all’ascolto i classici del pensiero e della letteratura. A un libro classico, soprattutto se di pensiero, di evoluzione spirituale, come quelli di cui ci siamo occupati, è importante dare un taglio di racconto non solo verbale, ma pure un po’ emozionale.
Anche se in Italia stenta un po’ a prendere piede, l’audiolibro è uno strumento assolutamente vecchio: è come la favola della nonna; ma anche nuovo perché, attraverso la possibilità di scaricarlo in tanti modi, è assolutamente al passo con i tempi.

Che cosa mi può dire di “Diamoci del tu”, lo spettacolo che state portando in scena?

Che è un momento molto bello, perché portiamo in teatro un pensiero di un grande autore, un genio del teatro contemporaneo. Noi ci abbiamo messo un po’ del nostro, teatralizzando una scrittura molto letteraria e dando vita ed emozione ai personaggi. Il pubblico ne sembra contento: siamo infatti già alla seconda stagione; ce ne sarà anche una terza e quindi è un modo per far vivere il teatro e viverlo ogni sera.

Lo spettacolo si svolge in uno spazio scenico di 90 minuti, in un atto unico…

Sì, tutto inizia sulla porta di casa, dove una sera succede una specie di sliding doors: la domestica, che da 28 anni svolge il suo lavoro, invece di andarsene, rimane a parlare con il suo datore di lavoro, uno scrittore di successo in crisi. I due si raccontano e si svelano le loro vite, come non avevano mai fatto prima.

Com’è nata la collaborazione con la protagonista femminile, Anna Galiena?

Sul testo. Serviva una persona che avesse il carattere teatrale ed emotivo. Ad Anna è piaciuta molto questa sfida, anche perché in scena ci sono solo due personaggi. È una bella maratona, dove c’è un po’ di tutto: si ride, si sorride, ci si emoziona, si riflette. Quando c’è una scrittura buona, il grosso è già fatto.

Che effetto le fa tornare a Trieste?

Ho una figlia che è nata a Trieste. Questa città è per me un posto molto caro. Ogni volta che ho l’occasione di tornarci, è un po’ come tornare a casa…

Mi descriva la città con qualche aggettivo?

Imprevedibile come il vento; apparentemente calma, ma sempre pronta a essere vissuta; dormiente, ma pronta a risvegliarsi. E poi è bella e ha un grande passato. A me piace sempre pensare che avrà anche un grande futuro.

Concludendo, secondo lei, oggigiorno cos’è realmente importante per l’essere umano?

Essere se stessi.

Ringrazio l’attore Enzo Decaro per questa chiacchierata piena di spunti di riflessione.
Nadia Pastorcich ©centoParole Magazine – riproduzione riservata.

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