Paolo Rossi e la sua compagnia ci raccontano Molière: la recita di Versailles

70x100_Moliere_B09Al Politeama Rossetti di Trieste dal 9 al 13 marzo: “Molière: la recita di Versailles” con la regia firmata da Giampiero Solari.

Le luci in sala sono ancora accese; la gente pian piano inizia ad accomodarsi al proprio posto, quando gli attori di “Molière: la recita di Versailles” sono già sul palcoscenico.
I loro volti sono irriconoscibili: hanno una maschera, che successivamente toglieranno per svelarsi al pubblico.
Un giullare di corte avvisa la gente che fra dieci minuti inizia lo spettacolo; nell’attesa un intrattenimento musicale con “I Virtuosi del Carso”.
Alle 20.30 comincia lo spettacolo: dodici le persone in scena tra musicisti e attori, anzi tredici, perché c’è anche un cane, Mia, che per tutta la durata della pièce si dimostra una vera attrice: si muove con grande padronanza nello spazio scenico e con grande complicità segue lo svolgersi della storia.

Questo spettacolo si basa su un “canovaccio”, ovvero sull’arte dell’improvvisazione: “Noi recitiamo all’improvviso – ha affermato Paolo Rossi ieri mattina, all’incontro con gli attori al Caffè San Marco. È una tecnica che richiede allenamento, training, studio, prove. La cosa importante è che ogni sera cerchiamo di vivere in scena. È un canovaccio e su questo poi improvvisiamo. C’è anche un inizio, un movimento, una fine, dei punti precisi, c’è pure del jazz…

Nel 1663 Molière scrive “L’improvvisazione di Versailles” (L’Impromptu de Versailles), dove mette in scena se stesso e gli attori della sua compagnia; in questo testo espone il suo pensiero sull’arte drammatica. Molière cerca di dar vita alla commedia di carattere e di costume, prendendo spunto dalla commedia dell’arte. Il suo intento è quello di scrivere delle opere che coinvolgano anche il pubblico.
Sala, Rossi, Falzarano
In “Molière: la recita di Versailles” di Stefano Massini, Paolo Rossi e Giampiero Solari, la tradizione e l’attualità si fondono: ne nasce una simpatica e fresca rappresentazione della quotidianità della vita di corte, dove la compagnia di Molière si ritrova a dover allestire uno spettacolo per Re Luigi XIV in sole due ore.
Ma le repentine decisioni del Re, fanno sì che la compagnia deve cambiare in continuazione lo spettacolo: ed ecco che sulla scena vediamo gli attori improvvisare e mutare in continuazione, facendo divertire il pubblico con battute spontanee ed esilaranti, senza mai perdere il ritmo drammaturgico.

Nel nostro paese avviene esattamente la stessa cosa: il potere a cui siamo sottoposti cambia settimana per settimana, mese per mese, anno per anno, e tutto ciò che ci viene proposto dal potere in realtà non trova mai risposta nella quotidianità” – ha spiegato Alex Orciari.

Paolo Rossi nel ruolo di Molière, il capocomico, racconta con ironia la vita del commediografo francese, che in fin dei conti, per certi aspetti, è molto simile alla sua: entrambi hanno una compagnia da far lavorare, si prendono gioco del potere, hanno una passione per le donne.
Ma non è la prima volta che Paolo Rossi affronta Molière: “La prima volta è stata negli anni Novanta – ha ricordato Paolo Rossiperò era un momento storico diverso, perché vedevi il potere; adesso lo vedi molto di meno: è una dittatura invisibile. Ma quello che mi affascina di Molière è che lui il teatro lo rubava: rubava da Plauto, da Terenzio, dai commedianti dell’arte, dai novellieri toscani”.

Se il primo spettacolo allestito dalla compagnia ridicolizza il potere intellettuale, affidandosi a “Il Misantropo”, dove il tutto si gioca tra Fulvio Falzarano, Mario Sala Gallini e Riccardo Zini; il secondo è una satira contro la chiesa: gli Paolo Rossiattori in scena tolgono i loro abiti seicenteschi (disegnati da Elisabetta Gabbioneta) e indossano quelli ecclesiastici, scatenandosi in un musical anticlericale sulla base de “Il Tartufo”.
La compagnia di Molière è così costretta ad improvvisare nuovamente, e lo fa anche la cagnolina Mia: afferra il cordone del saio di Mario, senza lasciarlo, divertendosi e divertendo anche il pubblico. Paolo Rossi, invece, è un Papa un po’ particolare: sulla testa porta il basco di Che Guevara; al suo fianco Irene Villa e Karoline Comarella vestite da suora.
Lucia Vasini-Madeleine Béjart, nelle vesti di suora con copricapo a cornetta, Fulvio Falzarano in abito talare con cappello saturno, e il suggeritore Paolo Grossi, si ritrovano coinvolti in un triangolo amoroso, dando vita ad un’energica e briosa interpretazione.
L’ultimo spettacolo che la compagnia prepara in poco tempo prende spunto da “Il malato immaginario”, interpretato da Paolo Rossi-Molière. La morte del malato immaginario è la metafora della morte della creatività teatrale. Un’eclissi sovrasta tutto.
Semplice, ma funzionale alla scena, è la scenografia (di Elisabetta Gabbioneta) formata da un piano inclinato con una pedana, dove gli attori si muovono e ballano con grande agilità. A fare da sfondo dei pannelli che cambiano a seconda dello spettacolo che la compagnia deve mettere in scena. Il tutto rafforzato dal codice luminoso (di Gigi Saccomandi).

Sono arrivato qui come attore impreparato ad improvvisare – ha detto Riccardo Zinisono quarant’anni che lavoro nel teatro, faccio tragedie greche, un po’ di tutto, e quando ho cominciato a lavorare con Paolo mi sono sentito fuori asse e come se non fossi in grado di capire. Poi un giorno Paolo ha fatto un discorso sui tempi e suoi tempi musicali: piano piano ho capito che l’improvvisazione è solo questione di tempi”.
L’improvvisazione esiste sia in musica che in teatro; è un canovaccio, un’improvvisazione tematica, ciò vuol dire che in musica fai delle cose che si collegano con l’argomento che stai trattando” – ha ribadito Emanuele Dell’Aquila.

MolièreNello spettacolo, infatti, “I Virtuosi del Carso” – gruppo composto da Emanuele Dell’Aquila alla chitarra, Alex Orciari al contrabbasso, Stefano Bembi alla fisarmonica, voce Mariaberta Blasko – scandiscono il tempo, conferendo alla pièce un valore aggiunto. Le musiche di Gianmaria Testa si uniscono a brani noti come “Image” e “Why Don’t You Do Right?”, cantati meravigliosamente da Mariaberta Blasko, che oltre a cantare suona il flauto, il violoncello e le percussioni.
Quella che noi chiamiamo improvvisazione jazz non è di fatto solo legata al tempo – ha ricordato Alex Orciarima soprattutto alla questione dell’improvviso”.

L’improvvisazione non è cosa facile – ha sottolineato Mario Sala Gallini perché un attore che va in scena, e ha un testo da dire, ha una sua sicurezza, un suo spazio dove muoversi, da cui sa che nessuno lo potrà tirare fuori; qua, invece, può succedere di tutto. Poi però è una cosa che dà anche delle soddisfazioni: quando succede, e succede con i tempi giusti, e nei modi giusti, è una qualità di soddisfazione che non si riesce ad avere nella prassi attoriale di routine – che è cosa diversa. Inoltre è una cosa che crea dipendenza. È una questione di abitudine, di lasciarsi andare, di vivere il momento”.

E come diceva Enzo Jannacci: “Un vuoto di memoria, meglio in teatro che in sala operatoria”.

Uno spettacolo diverso dal solito, capace di incuriosire e divertire nella sua riflessiva essenzialità.

Nadia Pastorcich ©centoParole Magazine – riproduzione riservata.
Foto al Caffè San Marco di Nadia Pastorcich

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