Decisi di andarmene. Il bosco, vicino il tiro d’un fucile, m’avrebbe perlomeno sbollito.
Era un primo pomeriggio di un già gelido novembre. Costeggiai per un quarto d’ora una zona d’orti magri. Sotto il sole fantasma, il sonno dei dintorni era più simile ad un invito di morte. Camminavo e vedevo: ciuffi di canne spezzate, foglie arse di cavolo, bulbi abbandonati dalle radici in aria, scheletri di rarissime vigne, piume nere; e dovunque l’incombere del cemento, la minaccia asfalto che dagli ultimi, visibili lampioni si allunga alla campagna. Quel deserto abitato rincorreva i miei passi: la nube dei soliti umani suoni, avvolta come un serpente intorno ai camini più prossimi, fischiava tra i denti le sue intimazioni. Presi diretto la galleria che l’autostrada scavalca: di qui bosco e città divergono con decisione, rientrando ciascuno nella propria essenza. Prima relati, al di là di quell’Acheronte artificiale essi si dimenticano davvero, ex coniugi in un divorzio ben riuscito. Nell’altra sponda, anticamera del silenzio, tutto cade dentro le onde di un tempo differente. Carezzo distratto le lacrime di un salice, pianta che considero tra quelle più somigliante a noi; questo dolore verde, posto su una zolla più elevata, si mantiene insieme plateale e sincero, al pari di qualsiasi mio simile che, realmente addolorato, si abbandoni a un pianto senza preoccuparsi né del luogo né delle presenza intorno. Avanti avevo una scelta: il sentiero si biforcava netto in due direzioni, l’una, strada bassa, che mi avrebbe ricondotto alla civiltà, l’altra, salente, che conduceva ad una via sopraelevata. Voltai perciò a destra, scegliendo questa seconda. Il cammino si faceva irregolare, stretto tra un muricciolo diroccato e l’aggressione del bosco; grossi sassi sporgevano affilati dalla terra come una semina di denti di drago, e vi avrei potuto attendere la nascita d’una nuova progenie umana. Ma mi persi l’evento, proseguivo. La traccia battuta s’era completamente perduta: restava soltanto ciò che nel dialetto è detto troi, un corridoio largo un piede e netto come se dipinto in pennarello marrone; serpeggiava sconnesso tra pietroni, e lo costeggiava un ruscelletto alterno. Mi fermai in un punto curioso: la poca acqua, che cadeva da quaranta centimetri di masso, aveva composto una polla di singolare bellezza. Intorno, fertili pianure di erbette roride e diverse, con l’aggiunta di un paio di funghi matti e posti a guardia del tutto; da sopra, un legnetto incastrato formava un trampolino naturale per foglie e materiali: questi tuffatori improvvisati, sorpresi dal dislivello, scivolavano in cento modi e con cento capriole, divertendomi; nel fondo, d’un oro opaco, ritornavano alla terra cadaveri vegetali ed animali…vi marciva, mi sembra, un’ape senza testa. Salii ancora. Qui il sentiero finalmente svettava sulla selva: vedevo, da un primo poggio, non solo l’ondulata successione delle colline, delfini che comparivano/scomparivano in quel mare verde; ma anche un borgo sparuto, da noi chiamati Con Alti, ricco dell’irresistibile fascino dell’abbandono. Dopo una fila di splendidi roveri -su uno dei quali, dato era diviso in due rami come parti avverse, mi arrampicai fingendomi un pirata di terra- fui in vista del raggruppamento di case. L’insieme, per me almeno, rappresenta un quadro di autentica poesia: poiché sempre quest’ultima, voce flebile e resistente, è agganciata nel modo più prossimo alla morte delle cose, mi detti a rintracciare i segni della rovina. Per primo vidi, di quattro per dieci metri, un quadrato dismesso, credo un antico trogolo per i maiali: dentro vi erano canne palustri alte almeno un metro e cinquanta, indefiniti fiori di un bianco sospetto, un frinire disorganico e spaventevole di grilli e altri insetti, più qualche sibilo e fruscio che mi ingelidì di brividi la schiena. Tenendomi a distanza passai la struttura. Un cascinale mi stava ora accanto: aveva gli occhi sbarrati da assi, il tetto obliquo poggiato sull’unica trave sana; tra i buchi dei mattoni scorgevo decine di nidi di ragno, e qualcuno di questi possidenti. È raro incappare, per un cittadino, in aracnidi così longevi. Essi ingrassano fino a rendersi grandi un pugno e mi ricordano i mercanti borghesi quando, lisciandosi soddisfatti un baffo, penetrano in una cantina ben piena di cibarie stagionate e diverse: così questi pescano bozzi di seta differenti, salami appesi agli angoli delle reti tese. Anche qui l’occhio mi si ritrae dalla morte. Proseguo. Il borgo rimanente è ancora abitato, e sulla soglia -nulla ascolta meglio che l’orecchio di un’emarginata solitudine-appare una vecchina. Ha i capelli d’un grigio impuro; i denti mezzo mancanti; la bocca prima sconvolta di sorpresa poi subito indifferente (deve aver inteso non è per farle visita son qui). Ammetto mi dispiace d’aver riscosso in quell’anima i fantasmi della compagnia o della famiglia, sicuramente lontana e dimentica di lei: mi guarda comunque passare, con la curiosa volgarità degli ignoranti che stanno a casa propria; questo disturba la pace delle mie impressioni, so di non poter indugiare quanto occorre sotto uno sguardo così sfrontato e prossimo al malevolo (basta mi butti a occhieggiare un cortile interno di crepe e disordine…)…Tuttavia, me ne frego e aggiungo una piccola ansia alla vita della nonnina. Osservo la rimessa di fianco la casa: queste costruzioni mi sembrano, in verità, le spie migliori per comprendere il vero stato socioeconomico dei luoghi. Infatti, dov’è degrado e povertà troveremo una rimessa così com’è qui composta: un cumulo di legna scarna, secca o ancora verde, miscelate spesso alla rinfusa; utensili per il lavoro nei campi, ma con addosso un abito di ruggine che testimonia l’inutilità degli sforzi agricoli o la mancanza delle braccia più forti; una miriade di ferri, contorti, intrecciati ai pali, spezzati per caso e per divertimento; chiodi in scatole che si sfaldano, premute sotto le tettoie; vernici, smalti, siliconi, mastici, tutti induriti nelle loro latte e ormai nemmeno scalfibili; ruote, più spesso di carriole, forate da cento anni ma conservate perché potrebbero servire ancora. Su tutto un’atmosfera di polvere, come se -fatto contrario al vero- nessuno ponesse un piede lì accanto da almeno una decina di mesi…Comincia a sanguinarmi il cuore a queste epifanie dell’abbandono; gli occhi, come sotto un sole inclemente (che poi non è quello che viene, inaffidabile come un vento incostante, dalla ragione?…), mi si chiudono per pudore alle ferite della rovina.
Scendo per ribagnarmi nel verde, che almeno è più onesto e non ha dei miei pensieri. Quasi rotolo per l’inganno di una radice, e nel salvarmi mi buco un dito con una spina del Signore. Perché ero partito da casa? Sgoccio del sangue rubino sopra il dorso d’una foglia, lo vedo bagnare la terra, diventare un evento per cento bestie del sottosuolo, le schiaccio tutte in un colpo col piede. La facilità dell’atto mi turba; per un colpo d’aria due fronde si spalancano e nel mezzo vi noto un altro borgo di case, sul dorso della montagna dinanzi. Ecco! Somigliano, quegli insediamenti, a brufoli che siano sbucati dall’epidermide della roccia. Se questa, per l’urlo del terremoto o l’insistenza d’una placca lontana, si dovesse un giorno sollevare; se questa, vittima d’un diluvio infinito, dovesse un giorno smottare all’improvviso…che sarebbe di quella cinquina di case, che quand’è notte ed hanno le luci accese io chiamo le mie Pleiadi? Muovono quasi alla compassione, quand’è notte, abbandonate come sono in quell’abisso solido, rappreso, nerissimo della montagna…alla mutata volontà della terra, di esse non rimarrebbe niente, come niente è rimasto degli insetti sotto la mia suola, tuttalpiù un miscelarsi di interiora assenti e false emoglobine…
Ma poi perché, strana consolazione alla limitatezza del mio essere, penso con soddisfazione all’inermità di tutti? Perché conforto la tristezza con l’elogio della vana frenesia della mia razza? Penso ai primi astronauti nel momento in cui, esaurita l’adrenalina per le angosce dell’uscita dall’atmosfera, si volsero finalmente a osservare il globo: ebbero -per un attimo, poi se ne distolsero, ed a ragione- la piena consapevolezza d’un mondo ch’è materia, posto lì per nulla, dipendente dalle (ineuclidee) geometrie di mille galassie; videro quel blu-striato-bianco come nessun altro prima, cioè chiuso nelle condanna dei suoi limiti sferici, improvvisamente simile, troppo simile ad un uomo, incatenato da un eccesso di vincoli e concause; intuirono, con una profondità acuita dal silenzio dell’abisso cosmico, l’infinita matriosca che porta dalle lontananze siderali alla larva delle zanzare; e in soccorso loro non venne che questa risposta, la medesima che la selva mi sussurrava colla danza delle foglie morte: l’idea che l’immenso debba comporre un circolo con l’immensamente minimo, che cioè esista una natural burella, segreta ghiandola pineale, che leghi in un solo senso gli insondabili aspetti della creazione. Non ero un filosofo in quel momento di immersione e tale sono rimasto, perciò mi volsi dall’intrico con la disinvoltura delle menti deboli; ma la sensazione d’aver accarezzato un pericolo rimaneva…pensai allora a quei tali che si sporgono dalle barche fino al pelo di un’acqua che sanno meta di squali: essi non vedono né, alla faccia di ragionamenti e intuizioni, saprebbero prevedere il secondo in cui, rotto l’olio del mare, un muso bianco e rosso sarebbe emerso a strappare loro il volto e la vita. Così mi sospendevo su una fossa dell’oceano interno, barca che dal celeste lungocosta si trovi sopra l’occhio (non spaventa la cosa, specie se osservata da un foto aerea?) nero e circolare d’un abisso. Mi aggrappai a un albero perché restituisse una qualche solidità alla mia carne, da volatile che ero diventato: mai accompagnato in queste effusioni dello spirito, in cui arrivo a provare legami perlomeno strani, mi affretto a rientrare nella comoda finitezza della mia esistenza, dimentico d’ogni cosa. Poi m’odio proprio per tale motivo. É curioso però come, in questi momenti, non m’importi quasi nulla di morire: se un lupo, fiutandomi dal folto, avesse prima ululato e poi caricato nella mia direzione, forse non mi sarei mosso nemmeno, e non per il panico. Ma camminando avanti lasciavo i panismi d’annunziani…rivedevo l’orlo delle strade, il rame delle mie grondaie, i viottoli d’una campagna umana, appendice della civiltà; ero ormai sotto il breve arco del mio ingresso, passavo a memoria tra le dita le chiavi.
Entro non so se più calmo, meno sicuro o semplicemente identico di quand’ero partito.
Alberto Trubian © centoParole Magazine – riproduzione riservata
Alberto Trubian nasce a Vittorio Veneto, consegue la maturità classica e prosegue negli studi umanistici all’Università di Padova, dove ottiene una laurea magistrale in Filologia moderna. Appassionato fin dalla giovane età di letteratura e poesia, aggiunge a queste le passioni per la musica, il cinema e la pittura.