Musica 101 – se vuoi suonare…suona (e studia)!

Una domanda che spesso viene posta agli insegnanti di musica è relativa al saper conoscere la teoria musicale e il solfeggio, o più semplicemente saper leggere uno spartito. È un argomento che divide spesso la comunità musicale: se, da un lato, ci sono i musicisti più “da conservatorio” che ribadiscono l’importanza del conoscere la base teorica su cui si basa il fare musicale, dall’altro lato esiste una schiera di altrettanto validi musicisti che ritengono la teoria e, più specificatamente, il solfeggio come superflui allo stimolo creativo. È davvero così? In realtà, scorrendo le pagine della storia della musica, si trovano ambedue queste categorie: da Beethoven a Jimi Hendrix, passando per Johann Sebastian Bach e arrivando fino ai Metallica e oltre. La domanda che vorrei sviscerare nel corso di questo articolo è quindi la seguente: è necessario essere “studiati” per fare musica?

La risposta a questa domanda è breve e immediata: più si conosce, più si è in grado di maneggiare strumenti compositivi diversi. Quindi, più semplicemente, si potrebbe giungere alla conclusione che è tutto relativo. Ma è davvero così? In realtà, bisogna essere in grado fin da subito di riconoscere le diverse finalità del fare musica: il ragazzino quindicenne che impara quattro accordi sulla chitarra per “scaldare l’atmosfera” al falò in spiaggia avrà sicuramente esigenze diverse da il ragazzo che mira a entrare in una big band di professionisti, è evidente. Esistono diverse sfaccettature che abbracciano diversi obiettivi, dal mero profitto alla manifestazione artistica in senso romantico, dal dilettantismo al professionismo. Tuttavia, si potrebbe provare a superare questo relativismo becero provando a fare un esempio molto semplice, altresì significativo: l’essere umano ha bisogno di nutrirsi per sopravvivere, corretto? Bene: abbiamo appena preso atto che tutti dobbiamo mangiare. È evidente che, così come esiste un divario fra musicisti dilettanti e professionisti, esiste un divario anche fra cucina casalinga e cucina di alta classe: che differenza c’è fra una pasta al sugo fatta da un universitario fuori sede e quella di uno chef stellato? Si presume che il secondo, a parità di ricetta finale, abbia una conoscenza tale degli ingredienti che può permettersi di osare, di stravolgere e di dare un’esperienza diversa al cliente. In musica avviene la stessa cosa: conoscere a fondo la teoria e il solfeggio permettono un maggiore spettro di possibilità rispetto all’andare esclusivamente “a orecchio”, “a sentimento”. Siamo sicuri sia ancora tutto relativo?

No, non è necessario studiare per esprimersi artisticamente. Allo stesso tempo, sì: dovrebbe essere necessario conoscere i materiali di partenza con cui si lavora per riuscire a esprimersi in maniera esemplare. E il pubblico? Secondo questa logica, anche il pubblico dovrebbe essere “istruito” per poter fruire al meglio dell’esperienza artistica: più si conosce, più si gode. Sono dell’idea che nascondersi dietro il dito del sentimentalismo, dell’accezione romantica del fare (o del percepire) arte sia solo la scusa per non scendere a patti con i propri limiti: lasciarsi cullare dall’elemento dionisiaco (per dirla alla Nietzsche), dal mero edonismo, tralasciando l’aspetto “artigianale” della musica, fatto di studio e di pratica costante, può solo portare alla costruzione di luoghi comuni. Ecco che la musica di Stockhausen diventa rumore insopportabile, che Billie Eilish è una ragazzina che fa i soldi senza saper cantare, che la trap fa tutta schifo, eccetera. Ecco quindi il mio consiglio, che siate musicisti o semplici appassionati: non abbiate paura di imparare le regole che stanno alla base di ciò che state ascoltando. E se non volete farlo con la musica, cercate di farlo almeno con le cose di tutti i giorni: rimarrete stupiti di quanto si può rimanere affascinati dalle cose che diamo per scontate senza ritornare bambini.

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