Il 7 gennaio è venuto a mancare un altro gigante della musica rock e progressive internazionale: Neil Peart, batterista dei canadesi Rush, ha perso la sua battaglia durata tre anni e mezzo con il glioblastoma, un’aggressiva forma di cancro al cervello. Una notizia che ha sconvolto il mondo della musica, dato che la sua musica ha influenzato numerosi altri musicisti, da Dave Grohl (Foo Fighters, ex Nirvana) a Gene Simmons (Kiss), fino a colleghi batteristi come Questlove (The Roots) e Mike Portnoy (Sons Of Apollo, ex Dream Theater), solo per citarne alcuni. Se l’ultimo articolo di questa rubrica riguardava le caratteristiche di un “classico” per essere definito tale, questa volta vorrei omaggiare Neil Peart, dedicando questo articolo al perché certi musicisti vengono definiti veri e propri innovatori, diventando così figure rappresentative al pari della loro musica.
Neil Peart è entrato nei Rush nel 1974, sostituendo il batterista originale John Rutsey e cominciando il suo percorso nel trio canadese incidendo “Fly By Night”, il secondo nella discografia ufficiale. Se si confrontano all’ascolto “Rush”, il primo disco, e “Fly By Night” si noterà una grande differenza in termini strutturali delle canzoni: il primo è infatti caratterizzato dal miscuglio di rock e blues tipico di quelle band inglesi come Led Zeppelin, Cream e, volendo guardare alla scena più hard rock, Black Sabbath (“Working Man” è un ottimo esempio di ciò). Il secondo, invece, assume sempre di più una dimensione più progressive, sia a livello musicale che lirico. Neil Peart, qui, è la figura centrale di questa transizione: non solo egli diventa paroliere principale, le cui fonti di ispirazione si basano su testi impegnativi come “Lo Hobbit” di J. R. R. Tolkien (“Rivendell” e in seguito “The Necromancer”) e “Anatema” di Ayn Rand (“Anthem” in questo disco e, a seguire, quasi l’intera totalità della lunga suite “2112” del 1976), ma il suo stile batteristico influenzato dal jazz di Buddy Rich aumenta le possibilità tecniche che renderanno i Rush il gruppo che tutti conosciamo oggi (questo stile è ben presente nello strumentale del 1981 “YYZ”, chiamato così per il pattern ritmico alla base del brano che si basa sul codice morse della sigla dell’aeroporto di Toronto). Da “Fly By Night”, i Rush sono pian piano esplosi con dischi del calibro di “2112” (1976), “A Farewell To Kings” (1977), “Hemispheres” (1978), “Permanent Waves” (1980) e “Moving Pictures” (1981).
NB. Se premi sui titoli dei dischi di questo elenco, verrai reindirizzato a un brano identificativo di quel disco.
Cosa rende Neil Peart un innovatore? Ci sono molteplici piani di analisi, come ben evidenziato qui sopra. In primo luogo, la capacità di uscire dalla sfera prettamente musicale, abbracciando così l’arte in senso più ampio: se abbiamo citato Rand e Tolkien, l’elenco non si ferma qui e include nomi del calibro di William Shakespeare, Niccolò Machiavelli, Friedrich Nietzsche e Samuel Taylor Coleridge. Può sembrare una cosa banale, ma non è così: la capacità di riuscire a “popolarizzare” determinati artisti e filosofi attraverso un circuito mainstream (come il genere prog negli anni Settanta) è una cosa che era più tipica della musica seria che di quella commerciale. Un secondo piano di lettura è dato dall’aspetto tecnico: Neil Peart è stato un batterista capace di pensare melodicamente sulla batteria, un approccio che veniva da colleghi jazzisti come Buddy Rich prima e Billy Cobham poi. Anche l’utilizzo di un kit molto grande, con doppia cassa, svariati piatti ed altri elementi percussivi è sintomatico di questa ricerca melodica. Basta guardare il solo di batteria di “R30 – Live in Frankfurt” per rendersi conto della grande sperimentazione tecnica (data anche dal kit ibrido acustico ed elettronico) in termini sonori. Ultimo punto, ma non meno importante, la tecnica intesa come capacità di suonare il proprio strumento. Oggi non abbiamo alcuna difficoltà a trovare esercizi su esercizi per allenarsi sulla batteria e ci sono batteristi sempre più in grado di essere indipendenti su tutti e quattro gli arti (mani e piedi, per intenderci). Neil Peart è stato uno dei primissimi a esasperare il concetto di indipendenza con concezione musicale. Questa è la grande scuola di Buddy Rich, vera e propria folgorazione del giovane Neil, portata però a un grado maggiore. È questa la sua vera innovazione: essere musicale in uno strumento che è difficile da rendere musicale. Come lui, ci hanno lasciato tanti grandi e ci lasceranno altrettanti innovatori: la vera lezione da imparare, in questi casi, è quella di portare il proprio linguaggio in una dimensione diversa, mescolando stili diversi, superando i propri limiti (anche fisici). È proprio questo ciò che rende un musicista un grande innovatore. Grazie, Neil.