Parlare di musica “nuova”, oggi, apre un dibattito interessante: ci si chiede spesso se, nel corso dei secoli, si sia andati incontro a un progressivo “svuotamento” delle componenti emozionali delle canzoni in favore di “fredde” dinamiche di un mercato sempre più spietato e vasto. Spesso, infatti, ci si trova ad essere spettatori di precisazioni fatte da maestri, direttori artistici o esecutori in merito all’importanza del far trasparire le emozioni di determinate scelte esecutive, tacciando di intellettualismo repertori dove la ricercatezza e la complessità dei prodotti assumono vesti sempre più fine a sé stesse. È il caso, ad esempio, delle rappresentazioni dei melodrammi, dove la musica deve necessariamente sottostare a un libretto e a una componente visiva: è impossibile immaginare una musica che sia completamente distaccata dall’azione scenica. La stessa cosa vale per i film o, più marcatamente, le pubblicità: la musica viene creata o addirittura alterata (se pre-esistente) per veicolare un messaggio ben preciso, inerente al prodotto, al fine di suscitare una particolare emozione.
Eppure la musica, per sua natura, non può essere soltanto veicolo di emozioni: tale materia era considerata, al tempo della formazione scolastica medievale, come elemento del quadrivio, assieme alle discipline matematiche (aritmetica, geometria e astronomia). All’interno della storia della musica, infatti, si possono trovare numerosi esempi di musica cosiddetta “intellettualistica”: il complesso mondo della “mensura” (misura) adottata da compositori come Josquin Desprez, Guillaume Dufay o Johannes Ockeghem è forse il primo di una lunga serie di sperimentazioni matematiche. Si pensi, ad esempio, alla “Missa prolationum” di Ockeghem, la cui costruzione contrappuntistica è basata su canoni che procedono a diversi ritmi. Oppure, più recentemente, si pensi alle composizioni elettroniche come “Studie I” e “Studie II” di Karlheinz Stockhausen, o a composizioni esteticamente impegnate come “4’33”” si John Cage, dove l’esecutore sta in silenzio per quattro minuti e trentatré secondi. Gli ultimi due casi citati, in particolare, non veicolano un’emozione in senso lato: l’ascoltatore medio, non essendo opportunamente preparato all’ascolto di tali repertori, tenderà ad associare a questa musica il rumore, il “fatto a caso” e, nonostante la composizione sia finemente calcolata su carta, non ci vedrà alcuna finalità se non quella autoreferenziale.
Nella frenetica società del consumo odierna si tende a ignorare ciò che è troppo complesso. Guai se non fosse così: non esisterebbero telefoni cellulari in grado di navigare in internet e i computer sarebbero ancora grandi come una modesta camera da letto, programmabili solo da chi li ha costruiti. Tuttavia è proprio attraverso lo studio del complesso che ci è permesso di ottenere determinati cambiamenti. Per la musica vale la stessa cosa: il fatto che non susciti emozioni, non vuol dire che non sia importante. Inoltre, è tutto relativo: quando il rock’n’roll impervia fra i giovani negli anni ‘50 e ‘60, le generazioni più vecchie non lo sentono proprio e lo etichettano come rumore assordante; quando Arnold Schönberg si distacca dal tonalismo, le sue composizioni atonali vengono immediatamente accostate ai suoi contemporanei più “musicali”. L’emozione è quindi un concetto assolutamente soggettivo in musica e, come tale, non deve essere usato come motivo di vanto o di elevazione del proprio gusto, della propria “bandiera”: l’importante, eventualmente, è saper distinguere fra un buon prodotto e un pessimo prodotto.