«La cultura è un bene primario come l’acqua: i teatri, le biblioteche e i musei sono come tanti acquedotti» diceva Claudio Abbado nel 2010 a “Vieni via con me”, trasmissione di Roberto Saviano e Fabio Fazio, allora in onda su RaiTre. Definirsi acculturati oggi, però, viene spesso visto come porsi al di sopra di un piedistallo irraggiungibile, macchiandosi inevitabilmente di appellativi quali “professoroni” e “radical chic”, ben poco consoni a una società moderna come la nostra. Benché su questo aspetto si potrebbe dedicare un intero editoriale, non si possono non prendere in considerazione i pregiudizi con cui l’utente medio si avvicina alla cultura in senso lato: l’esempio più fatiscente è quello delle figure politiche che si vantano di non avere mai letto un libro, come se le azioni e le metodologie dovessero limitarsi all’infantile approccio del praticare e al vedere con i propri occhi per conoscere, come dei moderni San Tommaso.
La musica è forse una delle “nicchie” peggiori per quanto riguarda i pregiudizi: la musica classica, ad esempio, è un mondo incredibilmente complesso a causa della sua estensione temporale che porta a numerosi mutamenti estetici e diversi linguaggi. A causa di questa distanza fra intere epoche storiche, spesso l’ascoltatore medio non riesce a comprendere le differenze “culturali” con il mondo attuale, trovandosi così a rinnegare il passato poiché sentito lontano e, conseguentemente, incomprensibile. Nel corso della storia della musica abbiamo numerosi esempi, dai simil-trattati teorici della musica dell’Impero romano che distorcono completamente la modalità greca alla Bach-Reinassance del XIX secolo. Un caso italiano degno di nota facilmente reperibile è quello della settima puntata intitolata “Dentro l’Eroica” di ”C’è musica e musica”, programma di divulgazione musicale del 1972 della RAI a cura di Luciano Berio e Vittoria Ottolenghi. Ad un certo punto, si accende un dibattito fra il pubblico all’interno dell’Auditorium dove Berio sta svolgendo la sua lezione sulla Terza Sinfonia, detta “Eroica”, di Ludwig Van Beethoven, dove uno spettatore dice: «Io penso che l’utente medio televisivo non sia oggi in grado di gustare una trasmissione di questo genere, che penso sia rivolta più a degli iniziati». L’idea di avere un pubblico ben mirato, “iniziato” a questo repertorio, è ulteriore fonte di pregiudizi: si pensi in particolare al mondo operistico, dove figure dell’alta società finiscono inevitabilmente a insudiciare la bellezza e l’importanza storico-culturale di tale musica in favore della mera apparenza (come ben evidenziato dai popolari e provocatori servizi delle Iene all’apertura della stagione della Scala).
L’educazione culturale è necessaria al fine di oltrepassare tali pregiudizi, tuttavia siamo ancora lontani dal metterla seriamente in atto: l’incapacità di osservare lo sfacelo culturale cui soprattutto le nuove generazioni vanno inevitabilmente incontro deve essere una responsabilità collettivamente sentita. L’incapacità anche solo di sapersi districare all’interno dei cataloghi musicali online (come si parlava nell’articolo precedente di questa rubrica) può essere colmata mediante la conoscenza della storia della musica e dell’estetica musicale, in modo da evitare la perdita della memoria collettiva: lo scenario cui si va incontro rischia di essere quello in cui muteremo il passato, come nel romanzo orwelliano “1984”, poiché non riusciremo più a ricordare perché sono successe determinate cose, perché oggi si parla di musica che e che non funziona, perché certa musica vivrà solo all’interno di composizioni scritte o registrazioni specifiche. La musica, qui, serve solo come esempio, come monito: è la cultura la vera motrice della società, colei che assieme alla ragione ci eleva allo stato di esseri umani e non di bestie. Dobbiamo quindi, nel nostro piccolo, estendere questi ragionamenti al quotidiano, alle nostre passioni, al nostro lavoro: se i teatri sono gli acquedotti, riprendendo Abbado, le nostre azioni sono tanti rubinetti e sta a noi capire quando aprirli e quando chiuderli.