Registrare oggi un brano musicale è un’operazione accessibile a tutti. L’introduzione nel mercato di strumenti sempre più potenti ed economici quali computer, microfoni, schede audio e programmi dedicati, ha permesso a persone di qualsiasi fascia d’età e ceto sociale di affacciarsi al complesso mondo della registrazione: analizzando l’andamento del mercato musicale si può notare come, soprattutto nel caso delle piattaforme di audio streaming, siano incrementati i prodotti dell’home recording e delle etichette indipendenti. Questo fenomeno, tuttavia, non procede di pari passo con la qualità del prodotto, inteso sia in termini tecnici (come è equalizzato, come è fatto il missaggio, in che formato viene caricato sulla piattaforma) sia artistici (stile compositivo, genere di appartenenza, costruzione delle liriche). A tal proposito, è semplice trovare sul mercato manuali più o meno autorevoli, tutorial video gratuiti o a pagamento, che nel tentativo di colmare tali lacune spiegano solo automazioni da applicare e non strategie.
È cambiato molto in un secolo di progresso tecnologico: dai primi tentativi di impressione del segnale su rulli di cera al CD, o al digitale, sono cambiate numerose tecniche di presa sonora, così come di ascolto da parte del pubblico. Un esempio è il binomio dato da monofonia e stereofonia che influenza di molto le tecniche di registrazione: nel caso monofonico, basta immaginare di stare ad ascoltare un gruppo in una stanza, dove la trama sonora è data dalla disposizione degli strumenti lungo un piano verticale, similmente ai “piani” di un quadro. In quello stereofonico, invece, viene aggiunta la componente orizzontale: si può così dare spessore a uno strumento posizionandolo verso gli estremi o creare effetti di illusione sonora (come l’aereo di “Back In The U.S.S.R.” dei Beatles che sfreccia da un orecchio all’altro). Questo binomio sussiste anche grazie alla tecnologia dedicata all’ascolto: avere un giradischi monofonico permette l’esistenza di prodotti monofonici e via dicendo. Inoltre, un ulteriore elemento da non sottovalutare è il supporto e la sua capienza: se oggi ci si riferisce a byte e derivati, cinquant’anni fa ci si riferiva alla lunghezza del nastro magnetico delle audiocassette o ai giri del vinile. Questo aspetto ha notevoli influenze sulla musica: lo standard pop dei due minuti e cinquanta secondi di durata di un brano, ad esempio, nasce proprio da queste esigenze tecniche.
Il “broadcast yourself”, il “fai da te”, senza necessariamente avere delle competenze tecniche, ha ampliato le possibilità creative del mercato, che non dimentichiamoci essere sempre sull’orlo della saturazione. Tuttavia, molta di questa “nuova” musica è frutto di applicazioni meccaniche di modelli che, a loro volta, la rendono facilmente dimenticabile. Attenzione, però: non bisogna presupporre che tutta la musica attuale sia frutto di degrado e pertanto si identifichi come “non-musica”: la soluzione, proposta a chi vuole lavorare in questo ambito, è quella di lasciare le scadenze da parte, lasciare i tutorial fermi e acquisire conoscenze tecniche e artistiche tramite una rosa di possibilità, più o meno valide in quel determinato contesto. È proprio il senso critico che deve mutare all’interno del music making: tutti hanno ragione fin tanto che riescono a spiegare cosa stanno facendo. Viceversa, questa consapevolezza di ragione può essere dubitata, messa in discussione, purché rimanga sul piano costruttivo e non denigratorio. La musica, ci insegna la storia, è un’arte ciclica: conoscere e saper riconoscere è il solo e unico passo verso nuovi orizzonti compositivi e tecnologici.