Aleatorietà, indeterminatezza, disordine: tutte cose a cui oggi cerchiamo, per esigenze di catalogazione o mercato, di dare una forma. Mi è capitato fra le mani, a tal proposito, un libro abbastanza recente di Carlo Boccadoro chiamato ‘Analfabeti sonori. Musica e presente’: la lettura non è particolarmente complessa nonostante sia incredibilmente denso di quelle suggestioni di cui stiamo parlando da qualche settimana. Di questo libro mi è rimasta impressa una frase a commento di come oggi questi modelli vengano impacchettati in accozzaglie quali programmi di sala o playlist sui siti di audio-streaming: «Si triturano svariati secoli di pensiero musicale per farne una marmellata uniforme dove le differenze stilistiche e qualitative tra gli autori vengono azzerate in nome di una fruizione che definire superficiale è un eufemismo. Un vero e proprio “blob” senza capo né coda dove un autore vale l’altro, tanto la loro utilità consiste solo nel fare da sottofondo a una seduta di massaggio o sauna finlandese.». In effetti, non abbiamo considerato che per improvvisazione o casualità possiamo intendere anche gli approcci superficiali alla creazione di determinati prodotti musicali…
Questo blob, questa entità musicale stratificata e complessa, mutevole a seconda di dove la si osservi, è un bel problema! Anche perché non ho ancora fatto un esempio importante: quando a scuola si studia la ‘Divina Commedia’ ci si imbatte in quattro chiavi di lettura che ne rivelano rispettivamente il senso letterale, allegorico, morale e anagogico. L’opera, per quanto sia “chiusa” in un sistema che è quello letterario e librario, offre diversi piani di “apertura”. Dal punto di vista musicale l’equivalente di questo esempio è rappresentato dal saggio ‘Opera aperta’ di Umberto Eco del 1962 che, grazie alla collaborazione con Luciano Berio presso lo Studio di Fonologia della RAI di Milano, ha permesso la nascita di questa terminologia del vocabolario semiotico: per opera aperta si intende infatti un testo che permette multiple interpretazioni.
L’ultima volta ci eravamo fermati con una domanda specifica: possiamo dare forma all’improvvisazione? Tuttavia, alla luce di quanto detto ora, sarebbe più corretto riformularla: ha senso oggi cercare di dare una forma all’improvvisazione? Mi spiego: ha senso oggi dover etichettare tutto in modo da poterne usufruire in maniera meccanica, senza alcun metro di giudizio personale? Se è vero che sussiste una molteplice lettura dei significati dell’oggetto artistico, allora non ha senso limitarne l’essenza. In altre parole, no: etichettare tutto come degli accumulatori seriali non ha assolutamente senso. Tuttavia, dovremmo essere in grado di scindere due casi distinti: da una parte, l’arte in quanto tale, “incontaminata”, “aperta”, libera; dall’altra parte, invece, il prodotto artistico, “limitato” dalle leggi di mercato, dalle linee editoriali, “chiuso”. Anche schierarsi nei confronti di una delle due realtà appena descritte non ha senso, perché significherebbe ricadere nell’errore di guardare le cose da un solo punto di vista. La musica vista come un “blob” non è necessariamente una cosa terribile: basta sapersi muovere all’interno di questa melma informe. Sai che abbiamo appena scoperchiato il vaso di Pandora, vero?