Sono stato recentemente a un concerto. Non era un concerto nel senso comune del termine, ma era molto vicino a una serata jazz. Se sei stato a un evento del genere, saprai meglio di me che si suonano generalmente pochi brani, quasi esclusivamente standard, conosciuti da tutti i musicisti, e si finisce a improvvisarci sopra in base al clima generale della serata. Oltre ad essere un ottimo approccio allo studio, per il musicista è un modo per conoscere nuove persone, farsi vedere e migliorarsi. Sì, migliorarsi: il fatto che i brani siano degli “standard” vuol dire sì avere dei passaggi “obbligati” (come la melodia principale, ad esempio), ma questi possono variare a livello di interpretazione (può cambiare il ritmo, la tonalità, l’arrangiamento, ecc.). Insomma, mentre a quel concerto l’artista ci spiegava come erano nati i brani che aveva suonato, sono rimasto folgorato da un dubbio: se quelle canzoni erano il risultato del seguire un flusso di coscienza, come possiamo dare una forma all’improvvisazione?
Hai mai sentito parlare di ‘happening’? È una forma d’arte che, più che sull’oggetto, si focalizza sull’evento. Per intenderci, Marina Abramović è una degli artisti più conosciuti in merito. L’evento come oggetto artistico: da rockettaro, sentendo questa affermazione, penso al festival di Woodstock del 1969. Volendo essere più colto, penso a Bayreuth e i festival wagneriani, o a John Cage e l’esibizione alla Maverick Concert Hall di New York di ‘4’33”’ nel 1952. O, volendo essere più “sperimentale”, penso al prodotto discografico dove, molto spesso, è l’improvvisazione la fonte creativa: ti immagini, in una realtà parallela, i Beatles disquisire come dei moderni Beethoven di cadenze armoniche, contrappunti e preparazione degli spartiti su carta? Assolutamente no! Però tutte le cose che ho citato sono “concrete”, finite, “chiuse”, non molto diverse da uno spartito settecentesco…
Ma parliamo per un secondo di “forma”: ogni musicista (o musi-qualcosa) che conosce il proprio mestiere, sa benissimo riconoscere un valzer da una sinfonia. Convenzionalmente, riusciamo a ricondurre e ricercare nei nostri ascolti degli andamenti familiari che associamo a determinati significati, similmente al parlato, alla vista, eccetera: ho una figura con quattro lati uguali e quattro angoli retti, che cos’è? Un quadrato! Una forma. Quando una persona oggi si cimenta nello studio della musica, si trova inevitabilmente associato a Beethoven il termine “forma-sonata”: secondo gli studiosi, egli porta a compimento, nelle sue composizioni, un progetto perfettamente tripartito, fatto di esposizione del tema iniziale, di sviluppo e di ripresa di quest’ultimo. Quello che però si tende a ignorare è che non esiste una sola forma-sonata: ci sono composizioni riconducibili a questa tripartizione che non rispettano necessariamente i canoni microformali adottati da Beethoven… e anche lo stesso Beethoven non è sempre canonico! Un bel casino, vero? Quindi, se non abbiamo certezze nemmeno in merito a quelle cose che chiamiamo convenzioni o forme come possiamo identificare un qualsiasi prodotto musicale? E l’improvvisazione, l’aleatorietà? Adesso ci arriviamo…