Di Pierluca Campajola
In questo periodo trieste sta esplodendo di vita, attirando l’attenzione economica, turistica e cinematografica senza precedenti. Mentre cerchiamo di abituarci a questi cambiamenti la nostra città diventa anche set di hollywood, dando la possibilità ai cittadini di vedere passeggiare per le strade attori del calibro di Ryan Reynolds, Samuel L. Jackson e Antonio Banderas.
Penso che molti, come me, abbiano reagito con sentimenti contrastanti all’arrivo di questi grandi nomi americani: essendo da sempre un appassionato di cinema e televisione, attori come Ryan Reynolds e Samuel L. Jackson non mi sono estranei e, anzi, nutro una certa passione per lo humor dell’interprete di Deadpool, di cui ho seguito per settimane tweet e interviste fino ad addormentarmi. Dunque è complesso gestire l’arrivo di questi personaggi nella città in cui sono vissuto. Da una parte c’è sicuramente una certa eccitazione nel sapere che a pochi passi da me, nelle vie in cui sono cresciuto, lavorano questi squali di Hollywood e ovviamente provo soddisfazione per il riconoscimento del potenziale scenico della mia Trieste, città da troppi sottovalutata e che solo ultimamente sembra riguadagnare il rispetto su scala internazionale. D’altra parte, da buon triestino, mi infastidisce l’idea di queste invasioni nella mia quotidianità, dalla chiusura di Miramare a quella delle strade del centro: sono stati causati non pochi inconvenienti e onestamente non capisco tutta questa eccitazione per un paio di americani pompati che fanno finta di essere dei duri di fronte a una telecamera.
Lo so, mi sto contraddicendo da solo, ma è proprio per questo che penso valga la pena spendere qualche parola sul tema.
Qui a Trieste non siamo abituati ad avere grandi personaggi del cinema come ospiti e, in realtà, il triestino comune, non immerso nella realtà filmica e non affamato di film d’azione americani, non risulta granché interessato all’avvento di questi beniamini di Hollywood. Ma allora perché l’arrivo di questi attori ha tanto destabilizzato il mio pensiero? Perché ho sognato di andare in osmiza con loro? Perché quando ho saputo che Samuel L. Jackson mi è passato alle spalle in Ponte Rosso mentre bevevo uno spritz senza che lo notassi ho sentito di aver perso un’opportunità?
Una parte di me, se li incontrasse, vorrebbe saltar loro addosso come una groupie, chiedendo foto e autografi, cercando di strappare un sorriso che dia senso alla mia vita. D’altra parte mi sarebbe naturale andare a salutarli per educazione, come quei vecchi conoscenti con cui ho condiviso poco ma che ricompare sempre sulla mia home di Facebook, tenendomi aggiornato sulla propria vita indipendentemente dalla mia volontà. Ma per quanto noi possiamo essere importanti per loro, come gruppo di fan che sostiene il loro status, individualmente non abbiamo.nessun valore, non ci conoscono e noi sicuramente.non conosciamo loro.
La mia generazione (e non solo) è cresciuta idolatrando la fama, come scopo ultimo della propria vita, unico mezzo per provare definitivamente di avere un senso in questa vita, e una posizione riconosciuta in questo.mondo. Ovviamente arrivato in età adulta comincia a esser ben chiaro che la vita non funziona così, le possibilità di arrivare a questa fama sono infinitesimali e cominciamo a capire che potrebbe nemmeno valerne la pena. Rinunciare alla propria privacy e rendere il proprio volto e nome un simbolo è più di quello che la maggior parte di noi potrebbe accettare, parafrasando le parole della regina elisabetta:”la corona è una prigione, le sbarre possono essere d’oro, ma rimane una prigione”. Se volete approfondire l’argomento da un punto di vista non convenzionale vi consiglio di guardare il documentario (), in cui Jim Carrey parla del suo rapporto con la maschera che la fama gli impone, o potete semplicemente dare un’occhiata alla vita pubblica di Shia Lebouf.
Quindi sappiamo il prezzo della fama eppure la rincorriamo, riconosciamo in questi divi umanità e fallibilità, eppure li mettiamo su un piedistallo tanto velocemente quanto alla gogna. Ma questa ipocrisia non è tanto una caratteristica della mia generazione quanto una accezione umana: prima non erano attori ma politici di spicco, filosofi, poeti, musicisti, nobili, generali e condottieri romani o chiunque avesse una vita che, guardata da lontano, potesse sembrare perfetta ed invidiabile. La devozione a questi bugiardi di professione non è niente di speciale, se non un riflesso dei valori di questi tempi e del mondo contemporaneo.
Questo articolo non ha un punto reale da raggiungere, né tanto meno cerca di spingere davvero a una riflessione su noi stessi o sulla nostra società. È uno sfogo personale, un tentativo di spiegare in primis a me stesso le sensazioni che ho provato in questo giorni e coinvolgere tutti voi nella mia ipocrisia. Ma tutti questi bei pensieri perderanno valore quando sarò al cospetto di questo ‘semi Dei’ contemporanei che si perderanno in una nube di incoerenti emozioni infantili. Almeno mi potrò cullare nell illusione e nell’idea che questa adorazione derivi da una qualche reale correlazione con il magico mondo del cinema.