I pigmenti. Breve saggio sulle leggi della luce e della visione, la tecnica e la chimica dei colori (I parte)

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Nel mondo in cui viviamo, ogni cosa è dotata di una caratteristica comune ma che allo stesso tempo le distingue: ogni oggetto ha un suo colore. Non solo tutto ciò che è stato creato artificialmente dall’uomo, ma anche tutti gli elementi del mondo naturale: ovverosia, tutto ciò che può essere ricondotto ai regni minerale, vegetale e animale. Di conseguenza, abbiamo imparato a chiamare i colori che possiamo percepire con un nome, abbiamo attribuito loro qualità peculiari, sappiamo descriverli entro certi limiti nelle loro sfumature e sappiamo soprattutto usarli, più o meno congruamente, in base alle loro caratteristiche. Ma il colore, inteso come proprietà generale, può essere definito in due modi apparentemente diversi, opposti ma in realtà tra loro complementari: dal punto di vista fisico, il colore è determinato dalla capacità della materia di interagire con le radiazioni che compongono la luce, tramite il loro assorbimento, attraversamento e diffusione; mentre, dal punto di vista chimico, il colore  è determinato dalle sostanze o composti che hanno proprietà coloranti, noti come pigmenti o coloranti a seconda della loro natura. Essendo queste due teorie complementari, il colore può essere così definito: è la proprietà determinata dall’interazione fisica delle radiazioni che compongono la luce con le sostanze o composti che, chimicamente, costituiscono la parte dotata di capacità cromatica della materia in esame. Quindi, è la luce che determina il colore di ogni cosa che ci circonda, anche quando apparentemente ne è priva, come nel caso di materiali trasparenti. Ma all’equazione luce=colore va aggiunto un altro termine per comprendere come l’uomo può percepire il colore: noi abbiamo la capacità di vedere e percepire i colori in quanto siamo dotati di organi atti alla visione, collegati al cervello che elabora le informazioni captate e ce le fa comprendere, ovverosia gli occhi. Quindi, bisogna tener conto anche di altri due aspetti, questa volta connessi direttamente all’uomo come essere vivente: si tratta degli aspetti fisiologici e di quelli psicologici della visione. Tenendo conto di questi aspetti e della relazione esistente tra la luce,  la materia e il colore, è facile comprendere come la materia colorante, distinguibile appunto  in pigmenti e coloranti, ci offre la magia del colore. E ci permette anche di capire come questa materia sia stata usata da un punto di vista tecnico in base alle caratteristiche peculiari dei diversi composti.

Al termine di questa premessa, segue la struttura del lavoro di approfondimento: per prima cosa, si darà una definizione della natura del colore, con la distinzione delle sue nature fisica e chimica, la sua relazione con la luce per concludere con le basi della percezione ottica e le leggi della visione; seguirà la definizione di pigmento offrendo anche la distinzione tra questi e le sostanze definite coloranti, per esporre poi le proprietà generali e offrire generalità sulla loro origine; si continuerà con un’analisi dell’uso che è stato fatto dei pigmenti nelle principali tecniche artistiche; seguirà la classificazione generale dei pigmenti; si concluderà con l’esposizione di caratteri generali sui coloranti.

LA NATURA DELLA LUCE, LA RELAZIONE CON LA MATERIA E LA VISIONE

Il colore risulta la somma di due teorie, una di natura fisica e una di natura chimica, apparentemente contrastanti ma in realtà complementari tra loro: esso è una proprietà della materia determinata dall’interazione  fisica delle radiazioni elettromagnetiche che si propagano nello spazio (e che compongono la luce nel suo insieme) con gli elementi fisici presenti nella materia e che, data la loro composizione chimica, conferiscono alla stessa la proprietà cromatica.

Quindi è la luce uno degli elementi che determinano l’esistenza del colore: infatti, i colori non esisterebbero in un mondo totalmente privo di luce. Essa è un fenomeno ondulatorio di una particolare forma di energia radiante, definita energia elettromagnetica, determinata dal comportamento di un particolare tipo di particelle che si muovono seguendo un percorso rettilineo, i fotoni (o quanti di luce): si tratta quindi di una teoria dualistica, in quanto i due principi (corpuscolare e ondulatorio) spiegano il comportamento della luce con la materia. Le radiazioni elettromagnetiche si propagano nello spazio alla velocità della luce (circa 300.000 km/s) e possono essere intese come entità composte da onde di energia che si ripetono periodicamente, con valore costante nel tempo, nella direzione di propagazione. Per ogni radiazione bisogna tener presente le grandezze che la caratterizzano: la frequenza e la lunghezza d’onda, il cui prodotto determina il valore della velocità della luce nel vuoto; e l’ampiezza (la distanza tra il massimo dell’onda e l’asse di direzione di propagazione dell’onda stessa). L’insieme delle radiazioni elettromagnetiche con diverse lunghezze d’onda costituisce lo spettro dell’energia radiante , che si divide in vari intervalli di lunghezza d’onda. La luce visibile (o luce bianca) occupa solo una piccola porzione della zona centrale dello spettro della luce, compresa tra i 380 e i 750 nm: tenendo conto della progressione dell’energia delle diverse radiazioni che compongono lo spettro, partendo da sinistra (dove si registra la minore energia) vi sono i raggi cosmici, i raggi gamma, i raggi X, i raggi ultravioletti (U.V.) seguiti dal visibile; seguono i raggi infrarossi (I.R.) e le onde termiche e radio (dotate di maggiore energia). A sua volta, la luce visibile, apparentemente bianca, può essere scomposta, in base alla lunghezza d’onda, nelle sue componenti, tutte dotate di un colore proprio. In tutto sono sette i settori che compongono il visibile, identificabili coi colori dell’iride: il violetto (380-425 nm), l’indaco (425-455 nm), l’azzurro (455-490 nm), il verde (490-570 nm), il giallo (570-580 nm), l’arancio (580-650 nm), e il rosso (650-750 nm). Il processo di scomposizione, che avviene anche in natura (si pensi alla formazione degli arcobaleni tramite il passaggio della luce attraverso le microscopiche gocce d’acqua disperse nell’aria, come aveva già intuito Cartesio nel 1637), è stato studiato da Isaac Newton nel 1666 e da lui formulato nell’Experimentum crucis (basandosi a sua volta su un’intuizione di Leonardo da Vinci, che riteneva il colore derivante dalla luce): facendo passare un fascio di luce bianca attraverso un prisma di cristallo si ottiene la luce scomposta nelle sue diverse frequenze o settori. La scoperta della luce come mezzo del colore di Newton è l’ultima fase di un lungo dibattito, iniziato con Aristotele (che riteneva la luce il principio che dà luogo al colore che, come per tutti i Greci, si poteva ricondurre ai due regni del chiaro e scuro) e sviluppato durante il Medioevo, durante il quale la luce viene intesa come veicolo del colore. Nel Seicento si afferma il concetto di colore primario: nel 1601, Guido Antonio Scarmiglioni identifica cinque colori semplici, i tre colori definiti primari a cui si aggiungono il bianco e il nero; e nel 1664 Robert Boyle ne riprende il concetto. Un passo significativo verso la moderna definizione della natura della luce si deve a James Clerk Maxwell che, nel periodo 1870-1880, definì la luce come un campo elettromagnetico che vibra, ossia è la combinazione di campi magnetici ed elettrici indipendenti che oscillano all’unisono, orientati perpendicolarmente tra loro; la frequenza delle vibrazioni determina così il colore della luce. Egli aveva anche chiarito la confusione tra la natura della luce bianca e le miscele effettive (intese come materiali) di colori: è la distinzione tra la sintesi additiva e sottrattiva (1855-1870). Nel Novecento, si scopre poi che la luce non è solo un’onda, ma è anche dotata di una componente fisica, ovverosia particelle note come quanti o fotoni: la scoperta si deve ad Albert Einstein (1905).

Il termine colore definisce una sensazione fisiologica soggettiva  dell’occhio umano (in quanto legata alla percezione personale dell’individuo), sensibile solo a una breve porzione dello spettro di onde elettromagnetiche, compresa tra i 380 e 750 nm (e per questo detta luce visibile). Tale sensazione è determinata da tre fattori: il tipo di illuminazione, la sensibilità peculiare dell’occhio alle radiazioni e le modificazioni provocate dalla materia dell’oggetto sull’insieme di radiazioni incidenti (ovvero le interazioni luce/materia).

Quando un fascio di luce bianca investe la superficie di un materiale, questo può essere respinto da esso, penetrare al suo interno o attraversarlo totalmente. Normalmente, avvengono contemporaneamente i primi due fenomeni: ovverosia, una parte del fascio è respinta mentre l’altra viene assorbita. Riguardo la frazione respinta, questa può adottare due diversi comportamenti a seconda della condizione fisica della superficie in esame: quando il raggio colpisce una superficie con irregolarità di dimensioni inferiori alle lunghezze d’onda incidenti, facendo sì che le radiazioni respinte vengano riflesse in un’unica direzione con angolo uguale a quello d’incidenza rispetto la perpendicolare al piano passante per il punto d’incidenza, si parla di riflessione speculare; mentre, quando la superficie presenta irregolarità della stessa grandezza delle lunghezze d’onda del raggio incidente, determinando la diffusione dello stesso in molteplici direzioni, si parla di riflessione diffusa o scattering.

Per quanto riguarda, invece, la porzione di raggio che attraversa la superficie del corpo si hanno due ulteriori fenomeni: la rifrazione  e l’assorbimento selettivo. Riguardo il primo fenomeno, esso si determina calcolando l’angolo che assume il raggio penetrante il corpo rispetto l’angolo d’incidenza della superficie dello stesso, in base alla perpendicolare passante per il punto d’incidenza. Nel caso di materiali trasparenti il raggio subisce una deviazione dalla direzione d’incidenza che dura sino a che non oltrepassa il materiale; in questo caso, se il raggio torna a viaggiare nell’aria ritorna all’angolo di incidenza del corpo, mentre devia ulteriormente la sua traiettoria se incontra un altro materiale. L’angolo di rifrazione varia con la lunghezza d’onda della radiazione incidente, perciò differenti ‘colori’ vengono deviati con angoli diversi: è il fenomeno della dispersione della luce. Per ogni lunghezza d’onda si definisce un valore detto indice di rifrazione espresso come il rapporto tra la velocità della luce attraverso il primo mezzo (di solito l’aria) e la velocità attraverso il materiale in esame; questo indice varia in funzione sia della lunghezza d’onda in esame che della coppia di mezzi considerati. Ma è comunque possibile definire  per ogni sostanza un valore specifico dell’indice di rifrazione rispetto l’aria. Le radiazioni elettromagnetiche che passano attraverso la materia vengono in parte assorbite dal materiale in base alla propria composizione chimica; ogni radiazione, con una propria lunghezza d’onda, ha un proprio coefficiente di assorbimento. Per ogni sostanza e per ogni lunghezza d’onda di radiazione incidente, uno specifico coefficiente di assorbimento regola la quantità di radiazione assorbita e, di conseguenza, l’intensità di quella riflessa (e quindi il colore della sostanza in esame). Le radiazioni dello spettro visibile hanno potenzialmente un’energia sufficiente ad eccitare alcuni elettroni di legame a bassa energia o elettroni mobili presenti nelle sostanze che appaiono colorate; quando queste sono investite dalla luce bianca, possono risultare selettivamente assorbite alcune radiazioni che possiedono l’energia necessaria all’eccitazione degli elettroni mobili. L’energia assorbita viene convertita in calore, comunque in quantità irrisorie che non altera la temperatura della materia; alla luce bianca vengono quindi sottratte le radiazioni assorbite dal corpo, col risultato che la porzione del raggio che viene riflessa e captata dall’occhio stimola non la sensazione di saturazione del bianco ma quella di altri colori. In altri termini, è la porzione di luce riflessa che determina, tramite i processi di elaborazione attuati dal cervello, sulla base degli stimoli captati dall’occhio, il colore della materia.

La sensibilità dell’occhio alle varie radiazioni della luce non è costante per ogni lunghezza d’onda e varia, inoltre, da individuo a individuo. L’occhio è sensibile sì alle radiazioni comprese tra i 380 e i 750 nm, ma in particolare a quelle comprese tra i 490 e i 580 nm, corrispondenti ai toni giallo e giallo-verde, mentre la sensibilità è inferiore sia in direzione dei 380 nm (violetto) e i 750 nm (rosso). Il colore non è quindi una proprietà solamente intrinseca della luce, ma è l’occhio che registra gli stimoli provocati dalle diverse radiazioni visibili con differenti sensazioni fisiologico-emotive, chiamate appunto colori. La sensibilità dell’occhio non è tale da poter distinguere ogni singola radiazione ma solo certi intervalli, a cui sono attribuite denominazioni specifiche. I pigmenti hanno comportamento e proprietà diversi rispetto a quelli della luce. L’occhio è infatti capace di registrare anche le sovrapposizioni dei diversi intervalli di luce. Dalla luce è possibile ottenere tutte le differenti tonalità miscelando solo alcune delle luci colorate; questi colori, detti fondamentali, sono il blu, il verde e il rosso, e le loro combinazioni formano per sintesi (detta additiva) altri colori e tonalità: dal blu e verde si ottiene il ciano, dal blu e rosso il magenta, e dal verde e rosso il giallo. La sintesi additiva  dei tre colori fondamentali determina una sensazione cromatica di saturazione chiamata bianco, mentre l’assenza degli stessi tre produce la sensazione definita nero. Le radiazioni si caratterizzano per una propria lunghezza d’onda, così come la frequenza e l’ampiezza; l’occhio registra tali differenze di ampiezza come differenti intensità di luce: questo determina l’infinita serie di sfumature di colore che possiamo percepire. Esistono anche combinazioni in cui questi tre colori hanno la stessa intensità ma a livelli che non coincidono col massimo (bianco) o il minimo (nero): si ha così la scala dei diversi livelli di grigio. Nella pratica, piuttosto che con luci colorate si ha a che fare con sostanze che, investite dalla luce bianca, riflettono solo una parte delle radiazioni di cui questa è composta e che di conseguenza appaiono colorate; le tonalità di colore risultanti dalle mescolanze di pigmenti e coloranti derivano da una sintesi diversa da quella additiva delle luci, chiamata sintesi sottrattiva, che coincide praticamente col sistema di relazioni inverso della sintesi additiva.

L’uomo è capace di captare e percepire non solo il colore, ma in parole più generiche il mondo e le sue componenti, in quanto è dotato di un particolare tipo di organo: l’occhio. Esso, legato al cervello che elabora i segnali che capta, ha una struttura che permette la visione. Questa capacità non si basa solo sul dato fisiologico (ossia la natura strutturale dell’occhio) ma ha anche un dato psicologico (legato ai meccanismi di elaborazione e comprensione ad opera del cervello dei dati ricevuti dagli occhi, come da tutti gli altri organi di senso), a cui si riferiscono, tra le varie teorie della percezione, quella del cognitivismo e le teorie dei colori.

L’occhio è una sorta di sfera la cui superficie interna, la retina, è in grado di ricevere le immagini che vengono proiettate rovesciate su di essa dai raggi luminosi passanti per il cristallino, una sorta di lente naturale posta dopo la pupilla (in pratica un foro le cui dimensioni sono determinate dai movimenti dei muscoli che compongono l’iride). Grazie a un sistema di recettori situati sulla retina (cellule nervose sensibili alla luce, distinguibili tramite la forma in coni – sensibili ai colori e maggiormente presenti nella fovea, piccola depressione del diametro di circa mezzo millimetro ove si ha il massimo grado di acutezza visiva, ovverosia la capacità di distinguere e mettere perfettamente a fuoco i dettagli di un’immagine – e bastoncelli – sensibili alla sola luce, e quindi capaci di captare il movimento, e presenti in quantità maggiore sulla restante superficie della retina), ogni immagine tradotta in impulsi nervosi viene trasmessa per mezzo chimico attraverso il nervo ottico alla zona striata del cervello. Qui, questi segnali vengono decodificati e tradotti nuovamente in immagine secondo complessi meccanismi ancora oggi in parte ignoti, e conservati nella memoria per essere usati in futuro. Sulla retina il numero di coni diminuisce progressivamente man mano che ci si allontana dalla fovea con la conseguente diminuzione dell’acutezza visiva. La luce riflessa dalle superfici raggiunge i recettori, i quali sono sensibili a tre lunghezze d’onda che corrispondono ai tre colori fondamentali della sintesi additiva. Le diverse onde luminose stimolano quindi i recettori presenti sulla retina, e da qui gli stimoli cromatici vengono trasmessi al cervello che, tramite complesse operazioni di rielaborazione, traduce gli impulsi in colori: è quindi il nostro sistema percettivo a creare il colore. La percezione del colore avviene nello stesso modo in tutti gli esseri umani, tranne nei casi in cui l’individuo è affetto da particolari patologie dell’apparato visivo, in primo luogo il daltonismo.

Mentre il nostro occhio è perfettamente in grado di distinguere anche le più piccole variazioni di colore, il nostro linguaggio verbale non riesce a definire con esattezza le singole varietà cromatiche che gli organi visivi percepiscono; a tale scopo si utilizzano pochi vocaboli piuttosto generici affiancati da alcuni aggettivi o sostantivi che li caratterizzano (relativi a fattori come chiarezza, forza, ecc.), ma tendenzialmente soggettivi. Altrimenti si fa uso, per definire con precisione sfumature e mescolanze cromatiche, di elaborati codici numerici o alfanumerici. L’imprecisione nel concettualizzare il colore è da attribuire in parte alle difficoltà che l’occhio incontra nel confrontare i colori; solo la giustapposizione, il confronto per accostamento tra due o più specie cromatiche, dà la certezza percettiva del colore in esame. Il colore è possibile definirlo solo attraverso il confronto con altre varietà cromatiche che, nella realtà pratica, influenzano e modificano ciò che circondano: si definisce principio di relazione il fenomeno per cui il nostro occhio non è in grado di percepire l’intensità e la luminosità di un colore dalla sua osservazione isolata. La percezione del colore è determinata da una serie di fattori: la localizzazione del colore (si distinguono il colore locale, tonale, e ambientale), la materia di cui l’oggetto è composto e le sue caratteristiche superficiali, la dimensione della superficie cromatica e le relazioni esistenti tra i colori stessi di una composizione, le caratteristiche della luce e gli effetti dell’atmosfera. Ogni colore è percettivamente caratterizzato da tre varianti fondamentali: la saturazione (intesa come intensità o purezza di un colore, cioè il grado di assenza di bianco e/o nero; un colore totalmente saturo è definito colore timbrico), la tinta (intesa come ‘colore’ vero e proprio, ovverosia la specificità cromatica corrispondente a una particolare lunghezza d’onda; la mescolanza di una tinta al suo massimo grado di purezza con quantità variabili di bianco e/o nero dà origine a una scala di variazioni detta delle gradazioni tonali, mentre la scala ottenuta con la mescolanza di un’altra tinta è detta scala cromatica) , e la chiarezza (intesa come la sensazione prodotta nell’osservatore dal colore stesso in determinate condizioni di luce).

Nel corso dei secoli (in particolare, nel corso del Novecento), artisti e studiosi hanno tentato di formulare teorie che regolassero i rapporti tra i colori e il loro uso nel campo delle arti figurative e nella grafica commerciale. Tra le principali, sono da ricordare il cerchio e la sfera di Johannes Itten, il cerchio dinamico di Paul Klee, il doppio cono di Wilhelm Ostwald e il sistema di Albert H. Munsell. Itten, nel formulare la teoria del cerchio, partendo da un triangolo equilatero diviso in tre settori corrispondenti ai tre colori fondamentali posti agli angoli dello stesso (giallo, rosso e blu; giallo, ciano e magenta considerando i primari usati nella tricromia contemporanea), ha sviluppato un esagono contenente il triangolo di partenza formando tre ulteriori triangoli, isosceli e corrispondenti ai colori secondari; a sua volta, l’esagono è posto in un disco diviso in dodici settori, di cui sei corrispondenti agli angoli dell’esagono ed equivalenti ai tre primari e ai tre secondari, mentre gli altri sei settori corrispondono all’unione del colore primario e del secondario ad esso vicino formando così i colori terziari (ulteriormente sviluppato, questo schema corrisponderebbe alla fusione ad anello dello spettro del visibile, concetto però artificioso in fisica). Successivamente, Itten sviluppò la sfera cromatica divisa in settori, con i colori saturi derivanti dai tre primari posti lungo l’equatore della sfera mentre ai poli sono posti il bianco e il nero (la scala dei grigi è posta all’interno della sfera, anch’esso diviso in settori); la superficie mostra invece le diverse sfumature tonali dei colori nella direzione dei due poli (lo stesso concetto è valido anche per le sfumature interne basate sui grigi). Klee sviluppò invece un cerchio diviso in tre settori dinamici corrispondenti ai primari; al centro di ogni settore il colore presenta la massima saturazione, mentre decrescendo verso destra e sinistra il colore si annulla nel punto di massima saturazione degli altri due primari. Ostwald elaborò un sistema simile alla sfera formulata da Itten, basando però la suddivisione dei settori sulla fusione di due coni con base comune: i colori saturi sono posti lungo la massima circonferenza, mentre ai due vertici sono posti il bianco e il nero. Munsell sviluppò ulteriormente le teorie cromatiche introducendo il problema dei diversi livelli di luminosità dei colori del cerchio cromatico: ne è derivata una deformazione che ha portato alla formazione di un solido, in cui ogni settore era studiato per rispettare l’effettiva luminosità di ogni colore. Ma già Michel-Eugène Chèvreul, nel 1864 (Dei colori e delle loro applicazioni nelle arti industriali) aveva studiato un principio organizzativo dei colori, basato su una struttura a ruota; ma il primo esempio noto è offerto da Newton, come espresso nell’Ottica (1704).

Itten si interessò anche delle teorie inerenti il colore, e individuò sette contrasti tra colori: di colori puri, di chiaro e scuro, di caldo e freddo, di complementari, di simultaneità (ovverosia si percepisce il complementare di un colore anche se questo è assente, tramite il fenomeno dell’induzione cromatica), di qualità (in base alla loro luminosità), e di quantità (ovverosia il rapporto tra i pesi e le estensioni dei diversi colori; un equilibrio di bilanciamento tra colori si ha nella coppia rosso e verde ma non nelle altre coppie di complementari). Teorizzò anche le leggi fisiche e percettive che regolano le armonie e gli equilibri cromatici, in quanto la percezione dell’armonia cromatica non è soggettiva; l’occhio raggiunge l’equilibrio percettivo quando viene rispettata la legge dei complementari. Gli accordi armonici sono costituiti da un minimo di due colori fino a un numero infinito di tinte, con risultati variabili a seconda dei colori presi in esame e della loro estensione.

In conclusione, bisogna accennare al colore dal punto di vista culturale. Se da un punto di vista fisico è un concetto ottico esprimibile numericamente, dal punto di vista psicologico il colore agisce su di noi e influenza in misura maggiore o minore il nostro umore. Per tale ragione esso è il protagonista principale dell’arte e della nostra vita quotidiana, quindi ne è l’elemento sensibile; e le varie tonalità creano eccitamento nell’individuo. Anche il contesto culturale, le tradizioni e le diverse forme culturali nel corso della storia umana hanno rivestito un ruolo di primo piano in tal senso. Il colore, col suo linguaggio, ha rappresentato un mezzo di espressione e comunicazione di idee e sentimenti; ha un’importanza considerevole nella nostra vita quotidiana, in relazione alla cultura e alla tradizione con relative implicazioni nel simbolismo dei colori stessi: ad esempio, il colore nero che in Occidente è usato sia come elemento per creazioni alla moda ma anche come emblema di lutto, in altre aree del mondo assume valori diversi, ad esempio in Mozambico è simbolo di gioia e in Giappone è usato come elemento nelle celebrazioni nuziali di tipo tradizionale; l’azzurro nelle culture tibetana e induista è simbolo di femminilità (si pensi al culto della divinità Tara), ed è un simbolismo simile al legame cristiano tra questo colore e il culto della Madonna.

I dotti dell’Antichità e del Medioevo si sforzavano di ricondurre i colori ai quattro elementi aristotelici; ora si sa che il colore degli elementi dipende dal contesto in cui si trovano (il rosso del Ferro determina il Sangue Ruggine e le Ocre Rosse delle pitture preistoriche; il Rame per il turchese; il blu del Cobalto; il verde-mare del Nichel); nei composti inorganici, quali cristalli e sali, gli atomi di metallo che determinano il colore (ad esempio, Cromo, Cobalto e Cadmio) sono presenti come ioni dalla carica positiva compensata da quella negativa dei non-metalli. I metalli di transizione forniscono un colore generalmente forte perché i loro ioni tendono ad avere transizioni elettroniche le cui frequenze rientrano nella gamma del visibile. Le variazioni del campo cristallino da una sostanza all’altra causano in particolari casi solo una differenza insignificante nella frequenza alla quale un ione di metallo assorbe la luce: ad esempio, il Rame è più o meno verde o azzurro a seconda della natura chimica degli altri ioni. Ma in altri casi, le differenze possono provocare un cambiamento significativo: ad esempio, il Cromo varia la colorazione nelle pietre preziose, in quanto è alla base delle composizioni di rubini e smeraldi. Il calore può alterare la composizione chimica o la struttura di un minerale, con relativo cambiamento di colore: la Biacca, bianca, se scaldata acquista una colorazione prima gialla e poi rossa (dal carbonato basico di Piombo con acqua, persa durante la cottura, resta il tetraossido di Piombo noto come Minio oppure il monossido di Piombo giallo o Massicot a seconda dell’intensità del calore – che deve essere più forte per ottenere il Minio).

(fine prima parte)

Marco Rago © centoParole Magazine – riproduzione riservata

foto: Marco Rago

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