A differenza di altre città italiane, Trieste, almeno sino all’Ottocento (con la definitiva affermazione della locale borghesia, in virtù degli sviluppi economici e sociali che interessarono la città), era rimasta ai margini dei grandi fermenti artistici che avevano caratterizzato, ininterrottamente, la penisola italiana: basti, come esempio, la storia della vicina Venezia. A compensare tale isolamento, i suoi cittadini e coloro che decisero di stabilire la propria residenza nella città mitteleuropea crearono magnifiche collezioni d’arte sia moderna e contemporanea che antica, annoverando negli elenchi delle opere anche grandi interpreti dell’arte di ogni tempo o a loro attribuite. Ma, per beffarda e crudele ironia, molte di queste collezioni sono andate col tempo disperse, e si è persa traccia delle opere che potevano diventare vanto della città (basti l’esempio dell’importante collezione Basilio che, nel 1970, si tentò senza successo di far confluire all’interno della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Trieste). Tra quelle che fortunatamente si sono conservate quasi intatte, invece, figura la collezione dei Sartorio: questa nobile famiglia triestina, infatti, donò alla città buona parte delle collezioni d’arte in suo possesso oltre alla villa dove fu inaugurato il Civico Museo Sartorio (divenuto, col tempo, importante contenitore di ulteriori donazioni cittadine, a vantaggio della comunità triestina e dei visitatori in generale). In questa sede, tutt’altro che disprezzabile, sono attualmente conservati alcuni capolavori di uno dei più importanti pittori della Storia dell’Arte europea, il veneziano Giambattista Tiepolo: la città vanta non solo una pregevole pala d’altare (facente parte della locale Galleria Nazionale d’Arte Antica, ma “temporaneamente” custodita presso il museo) ma anche una delle più importanti collezioni grafiche, frutto del celebre veneziano e di suo figlio Giandomenico (di cui, in questa sede, non si farà cenno). E questi ‘tiepoleschi splendori tergestini’ sono l’argomento di questo scritto…
Giambattista Tiepolo (o, secondo alcune fonti, Giovanni Battista) nacque a Venezia il 5 marzo 1696. Dopo aver iniziato intorno al 1710 la sua formazione presso il rinomato pittore Gregorio Lazzarini, dimostrò un interesse per l’opera dei neotenebrosi Giambattista Piazzetta e Federico Bencovivh: se dal primo il giovane apprese come impostare in maniera teatrale e coerente una vasta scena affollata da figure e la propensione allo studio e alla rimeditazione personale delle peculiarità e delle suggestioni degli altri artisti, dai secondi riprese non solo audaci e drammatici contrasti luministici e l’amore per tinte cromatiche cupe ma anche un interesse per insolite soluzioni di scorcio. Tale complesso di suggestioni è già evidente nelle prime opere: i soprarchi con gli Apostoli per l’Ospedaletto del 1715-1716 e la clamorosa tela col Faraone sommerso, esposta alla festa di San Rocco del 16 agosto 1716, testimonianza di una nuova attenzione per l’opera di Jacopo Tintoretto e i pittori cinquecenteschi e secenteschi, ove concepì una convulsa composizione dinamica che unisce l’uomo, gli animali e gli elementi naturali.
Dopo queste prime prove del suo genio, le famiglie dell’aristocrazia della Dominante videro in lui l’ideale interprete dei programmi iconografici ad esaltazione delle loro glorie, oltre a una maniera pittorica nuova e originale che coniugava pathos, vigore espressivo e audaci chiaroscuri desunti dai maestri neotenebrosi e una nuova e schiarita concezione del colore, in competizione coi grandi maestri veneziani della pittura monumentale di inizio secolo quali Sebastiano Ricci e Antonio Pellegrini: il doge Cornaro, i Pisani, i Soranzo, i Zorzi, i Nani, i Dolfin, gli Zenobio, i Zandi e i Baglioni si contendevano i suoi servigi per decorare i saloni e i porteghi delle loro residenze lagunari. Ma è soprattutto l’abilità dimostrata nell’inusuale (in ambito lagunare) pratica dell’ affresco, che esaltava la sua maniera spedita e la sua nuova vocazione cromatica chiarista (quale desiderio di rivaleggiare coi risultati cromatici di Paolo Veronese) a decretare la sua fama immortale.
Dopo la magistrale prima opera ad affresco, la decorazione del salone al primo piano della villa di Giovan Battista Baglioni a Massanzago eseguita attorno al 1719 (coadiuvato da Girolamo Mengozzi Colonna, che lo affiancherà, per le finte architetture, in altre grandi imprese decorative nei decenni seguenti) con il Mito di Fetonte (alle pareti) e l’Aurora con gli zefiri e la stella del mattino (sul soffitto), Tiepolo si recò a Venezia in qualità di frescante. La prima impresa lagunare di rilievo fu il soffitto di palazzo Sandi, eseguito intorno al 1724-1725, su cui espose la complessa rappresentazione allegorica del Trionfo dell’Eloquenza; qui, il pittore portò avanti la lezione tracciata dalla Galleria di palazzo Medici Riccardi dipinta nel 1682 da Luca Giordano, arricchendola di un pathos e un articolato artificio giocato sull’ambiguità tra realtà e magistrale finzione scenica.
Un nuovo vertice fu raggiunto con le imprese udinesi, in particolare la decorazione del palazzo Patriarcale (sempre in collaborazione col Mengozzi Colonna), su commissione del patriarca d’Aquileia Dioniso Dolfin: dalla Caduta degli angeli ribelli (1726) a decoro della volta dello Scalone, la Galleria (conclusi entro il 1729-1730) in cui il Tiepolo, rappresentando alcuni episodi delle vite dei patriarchi (L’apparizione degli angeli ad Abramo, Rachele nasconde gli idoli, Sara visitata dall’angelo), concepì una composizione in cui il suo pennello rende illusionisticamente l’architettura, la scultura, e la pittura stessa; nella Sala Rossa rappresentò il Giudizio di Salomone e le figure dei Profeti, mentre nella Sala del Trono rappresentò alcuni degli antichi patriarchi. Con l’impresa udinese, Tiepolo giunse a nuovi vertici di umorismo e concezione fantastica della storia, compiendo la metamorfosi definitiva verso la sua maniera pittorica fatta di luce, colore neoveronesiano e inaudita fantasia.
La fama del veneziano giunse anche oltre i confini della Repubblica della Serenissima e, nel corso dei primi anni Trenta del Settecento, Tiepolo fu chiamato a Milano per compiere alcuni dei suoi capolavori ad affresco: palazzo Archinto a Milano (1731-1732 – opere andate perdute nel 1943), e la cappella Colleoni a Bergamo (1732-1734). In palazzo Archinto, Tiepolo riprese il soggetto del suo primo affresco a Massanzago: Fetonte chiede ad Apollo di guidare il carro del Sole, ove il nuovo fulcro della macchina scenica è ora il dio della luce, mito e ossessione del veneziano e fonte della luce che si propaga nelle sue composizioni. Nel 1740, tornò a Milano per una nuova impresa, il grande soffitto del palazzo di Giorgio Clerici, maresciallo dell’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo, ove Apollo (nella rappresentazione della Corsa del carro del sole) venne concepito come dio del Sole e delle arti, fulcro di una luce che investe non solo le quattro parti del mondo, ma anche ninfe, satiri e una serie di allegorie delle arti, le ore, i venti, le stagioni e gli elementi: fu la più grande impresa sino ad allora compiuta da Tiepolo, opera in cui la grande macchina del teatro barocco si arricchì di nuove suggestioni esotiche e bizzarrie sensuali frutto della fantasia del pittore, creando un universo dominato dal colore e dalla luce.
A Venezia, Tiepolo fu nuovamente artefice di notevoli imprese decorative sia per gli ordini religiosi che per le famiglie dell’aristocrazia lagunare. Per i primi, si fece interprete di un’esaltante pittura sacra sia nelle pale d’altare che nei soffitti, giungendo a una nuova concezione della glorificazione della figura della Vergine: tra le varie imprese, va ricordata la decorazione della Scuola grande dei Carmini (1743-1749), ove Tiepolo coniuga e supera la tradizione veronesiana della pittura di soffitti e la spettacolarità della decorazione barocca, giungendo alla creazione di un cielo inondato di luce in cui le nuvole creano vere e proprie architetture in cui l’evento soprannaturale può aver luogo (si pensi all’Apparizione della Vergine del Carmelo al beato Simone Stock). Se nelle opere sacre la Vergine assume il ruolo che un tempo, nelle grandi opere d’arte, era ricoperto dalla rappresentazione di Venezia, il suo contrappunto profano è la figura di Cleopatra, regina colta nel pieno della sua bellezza e potenza, capace di impressionare e sedurre col suo fascino e l’esotismo i rudi condottieri romani; la sua esaltazione trova l’apice nel ciclo decorativo di palazzo Labia (1746-1748), ove l’ultima regina d’Egitto trova corrispondenza nella padrona di casa, Maria Civran Labia. Per la decorazione (eseguita assieme al fidato Mengozzi Colonna, che concepì un’illusionistica quinta architettonica ispirata alla lezione palladiana del Teatro Olimpico di Vicenza), Tiepolo concepì una composizione scenica in cui lo spettatore della sala si sente testimone partecipe degli eventi del mito profano: si è prima membri del corteo della regina nell’Incontro tra Cleopatra e Antonio, per poi assistere al Banchetto in cui alla stupisce il suo ospite con la sagacia e la spregiudicatezza degne del suo rango di regina tolemaica; sul soffitto, trovò posto Bellerofonte montato su Pegaso che spicca il volo verso la Gloria e l’Eternità.
Nel dicembre 1750 Tiepolo partì coi suoi figli per Würzburg, capitale della Franconia, al servizio del principe-vescovo Karl Philipp von Greiffenklau. Qui, il pittore dovette intervenire in alcuni degli spazi progettati da Balthasar Neumann: il programma fu un’esaltazione senza precedenti del dio Apollo. Nella Kaisersaal, tra finti sipari e decorazioni a stucco, il veneziano concepì le Nozze tra Federico Barbarossa e la principessa Beatrice di Borgogna, l’Investitura del vescovo Aroldo a duca di Franconia e Apollo conduce la principessa Beatrice di Borgogna al Genio dell’Impero. Ma è nella volta dello Scalone d’onore che Tiepolo, coadiuvato dai suoi figli, eseguì il suo capolavoro: rifacendosi ai precedenti lavori eseguiti a palazzo Archinto e palazzo Clerici, offrì al committente e alla posterità l’Apoteosi di Apollo in presenza dei quattro continenti. Qui, Tiepolo giunse a un nuovo vertice del suo universo fantastico immerso nella luce, rappresentando ogni angolo del mondo allora conosciuto in presenza del committente (il “Sole della Franconia”, parallelo terreno al divino Sole di Apollo che illumina la vastità del mondo) e degli altri artisti che spesero il loro tempo e la loro opera nella colossale impresa della Residenza (l’architetto Neumann, lo scultore Antonio Bossi, e i ritratti del collaboratore Franz Ignaz Roth, del figlio Giandomenico e il proprio autoritratto, in cui volge lo sguardo al proprio lavoro).
Se l’esaltazione della figura di Apollo è un elemento costante e quasi ossessivo dell’arte di Tiepolo, non disdegnò di affrontare la rappresentazione del dolore del dio della luce: la Morte di Giacinto (1758 ca, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza) rappresenta infatti il momento in cui Apollo, resosi conto di aver ucciso accidentalmente il suo compagno e amante, è colto in un attimo di assoluto dolore emotivo, che tanto contrasta con le passate rappresentazioni dell’apoteosi del dio, alla presenza di una beffarda erma satiresca che allude al dio Bacco, signore delle passioni e dei destini tragici. A questa nuova vena sentimentale bisogna ricondurre l’impresa della decorazione al affresco, eseguita attorno al 1757, della villa Valmarana ai Nani presso Vicenza (mentre il figlio Giandomenico fu attivo nella foresteria della medesima villa); qui, il pittore affrontò i grandi poemi classici e moderni (Iliade, Eneide, Orlando furioso, La Gerusalemme liberata) rappresentando momenti amorosi trattati con una vena intima e commossa mai adottata in analoghe trattazioni, con preludio il Sacrificio di Ifigenia nella sala d’ingresso della villa.
Nell’estate 1761, Tiepolo era a Verona per effettuare la decorazione della volta della sala di palazzo Canossa (andata parzialmente perduta durante la Seconda Guerra Mondiale). Tale impresa, che compensava la mancata chiamata a Pietroburgo a favore del più giovane Francesco Fontebasso (nonostante le numerose opere inviate alla corte della zarina Elisabetta I – in particolare, le “mezze figure di donne a capriccio” dipinte attorno al 1760, forse in competizione con le Passioni di Pietro Antonio Rotari?), fu funestata dalle malelingue locali fomentate dall’invidia di Giambettino Cignaroli, che si era visto distruggere i suoi lavori in palazzo Labia per far posto all’impresa del veneziano. La tematica scelta per la decorazione, l’Apoteosi di Ercole, fu eseguita in occasione del matrimonio di Matilde di Canossa col nobile mantovano Giambattista d’Arco; la composizione si inseriva in uno spazio ellittico circondato da quattro finte mezze cupole con aperture (agli angoli), dipinte da Pietro Visconti, e i Quattro continenti ai punti cardinali dello spazio decorato. Le sovrapporte ovali incorniciate da stucchi, invece, presentano rappresentazioni allegoriche a grisaille su fondo dorato.
Nel 1762 Tiepolo fu chiamato alla corte di Spagna, con trattative oggetto di autentici accordi di Stato tra la Repubblica, la Spagna e i rispettivi ambasciatori; in questo contesto, il pittore, impegnato nella decorazione della volta di villa Pisani a Stra (su incarico del doge Alvise Pisani, committente del suo primo affresco in una chiesetta di Biadene, quarant’anni prima) con l’Apoteosi della famiglia in cui i giovani eredi sono il nuovo fulcro della composizione, iniziò a manifestare i primi segnali di stanchezza. Una volta conclusa questa impresa, Tiepolo giunse coi figli alla corte madrilena di Carlo III per affrescare la volta della Sala del Trono del Palazzo reale (La gloria della Spagna); qui, però, dovette confrontarsi per la prima volta con un rivale pericoloso, il boemo Anton Raphael Mengs, esponente di spicco del Neoclassicismo e beniamino del confessore del re. Nonostante la volontà di ripartire per Venezia una volta conclusa l’impresa, Tiepolo decise di rimanere in Spagna per esaltare gli ultimi attimi dell’agonizzante Assolutismo. Dopo aver decorato altri due soffitti della reggia madrilena (con l’Apoteosi della monarchia spagnola e l’Apoteosi di Enea), gli fu affidato l’incarico di realizzare le sette pale d’altare per la chiesa del ‘sitio real’ di Aranjuez: ancora una volta, il veneziano ebbe modo di stupire con una nuova metamorfosi della sua arte, orientandola verso una sobrietà pittorica carica di un inedito sentimento religioso che avvicina il mondo sacro a quello profano della realtà monastica (ispirato alla pittura sacra spagnola, dal carattere popolare ed emotivo); dopo la sua morte, le sue tele furono tolte per far posto a quelle di Mengs e di due suoi seguaci, Maella e Bayeu, subendo anche rimaneggiamenti e frammentazioni. Morì quindi improvvisamente il 27 marzo 1770, per venir sepolto nella chiesa di San Martin a Madrid: da questo momento, iniziò il mito di Giambattista Tiepolo (di cui, in questa sede, abbiamo fatto riferimento solo ad alcune delle tappe salienti).
Marco Rago © centoParole Magazine – riproduzione riservata
foto: Serena Bobbo
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