In occasione dei 155 anni dalla nascita di Italo Svevo, la città ha voluto ricordare questo grande scrittore del Novecento con alcuni appuntamenti.
Ieri pomeriggio, alle 17.30, presso il Museo Sartorio di Trieste si è svolta la conferenza di Giovanni Palmieri sulla novella “Vino generoso” di Italo Svevo. A fare gli onori di casa è stata Lorenza Resciniti, conservatore del Civico Museo Sartorio.
La novella, come ha sottolineato Palmieri, è articolata in due parti: la violenza (la prima parte) e la vendetta (la seconda parte).
Il narratore del racconto è il protagonista, che mette nero su bianco ciò che è accaduto il giorno delle nozze di una delle nipoti di sua moglie, costretta a rinunciare al voto per sposare un giovane prescelto dalla famiglia. Il vecchio lascia trapelare ogni suo pensiero, ogni suo turbamento in quello che è un viaggio nel proprio essere.
Nel corso della festa egli brinda alla sposa, lasciandosi scappare qualche parola di troppo e facendo degli auguri un po’ inopportuni. Con il consenso del dottor Paoli, che per quella sera gli ha dato il permesso di mangiare e bere come tutti gli altri, arriva un primo bicchiere di vino, poi ne arriva un altro, e un altro ancora, portandolo all’ebrezza. Intanto la moglie racconta a una sua vicina a quale regime suo marito di solito è sottoposto. La loro figlia Emma ascolta la conversazione della madre.
«Gli altri si dedicavano allo champagne, ma io dopo averne preso qualche bicchiere per rispondere ai vari brindisi, ero ritornato al vino da pasto comune, un vino istriano secco e sincero, che un amico di casa aveva inviato per l’occasione. Io l’amavo quel vino, come si amano i ricordi e non diffidavo di esso, né ero sorpreso che anziché darmi la gioia e l’oblio facesse aumentare nel mio animo l’ira». Il vecchio, ormai alterato, quando sente parlare suo nipote Giovanni di alcuni affari e di certe storielle sulla sua furberia, interviene con tono forte, movimentando la conversazione. La discussione fra i due va avanti, e quando il vecchio non parla, beve. Preoccupata del “vino generoso”, la moglie chiede aiuto ad un certo Alberi, che cerca di togliere il bicchiere dalle mani del vecchio.
La seconda parte del racconto è invece dedicata alla vendetta: congedati gli ospiti, il vecchio si avvia verso la stanza da letto. Prima di abbandonarsi al sonno, prende le pillole prescrittegli dal medico. «[…] dissi nel momento di assestarmi nel letto: – Credo che le pillole sarebbero state più efficaci se prese con vino».
Ad ogni rumore e movimento del marito, la moglie interviene a bassa voce, chiedendogli: «Stai male?». Ma il vecchio non le risponde. Dopo essersi rigirato nel letto, il vecchio finalmente si addormenta, ma viene colto da «un sogno atroce: Mi trovai in una costruzione complicata, ma che subito intesi come se io ne fossi stato parte. Una grotta vastissima, rozza, priva di quegli addobbi che nelle grotte la natura si diverte a creare, e perciò sicuramente dovuta all’opera dell’uomo; oscura, nella quale io sedevo su un treppiedi di legno accanto ad una cassa di vetro».
È lui il prescelto per morire a vantaggio di tutti gli altri. «Ed io già anticipavo in me i dolori della brutta morte che m’aspettava. Respiravo con difficoltà, e la testa mi doleva e pesava, per cui la sostenevo con le mani, i gomiti poggiati sulle ginocchia». I suo cari iniziano ad accusarlo e a dirgli quello che lui già sa. Ad un certo punto, il vecchio trova in se stesso una forza misteriosa per attrarre al suo posto nel sepolcro il nipote Giovanni, ma egli riesce a liberarsi, mettendo al suo posto un altro invitato, l’Alberi, il quale trascina il vecchio nella bara. Ormai egli è condannato da tutti. «E allora io urlai ancora: – Se non si può altrimenti, prendete mia figlia. Dorme qui accanto. Sarà facile. – Anche questi gridi furono rimandati da un’eco enorme. Ne ero frastornato, ma urlai ancora per chiamare mia figlia: – Emma, Emma, Emma!»
Il vecchio si risveglia oppresso dall’angoscia, dalla vergogna e dal senso di colpa. «Fui dapprima abbacinato da quella realtà in cui mi parve che tutto fosse svisato e falsato. E dissi a mia moglie che pur doveva saper tutto anche lei: – Come potremo ottenere dai nostri figliuoli il perdono di aver dato loro questa vita? Ma lei, sempliciona, disse: – I nostri figliuoli sono beati di vivere. […] La vita, ch’io allora sentivo quale la vera, la vita del sogno, tuttavia m’avviluppava e volli proclamarla: – Perché loro non sanno niente ancora. Ma poi tacqui e mi raccolsi in silenzio».
“Vino generoso” è una novella del 1926. La prima redazione appartiene al 1914 e ha come titolo “Ombre notturne”; la seconda è stata ripresa alla fine degli anni ’20 sempre con il titolo “Ombre notturne”; la terza invece prende il nome di “Vino generoso”; poi ce n’è anche una quarta di cui non possediamo il manoscritto, ma solo la stampa, nella versione pubblicata sulla “Fiera letteraria”. Nella redazione definitiva il finale è rovesciato. Se in “Ombre notturne” Svevo pone l’accento sui sogni e sulle angosce, in “Vino generoso” la situazione cambia; come ha ricordato Palmieri: «L’allusione di Svevo all’opera di Mascagni (“Cavalleria Rusticana” di Verga), in virtù anche delle connotazioni del titolo, allontana il testo dal notturno». Nel finale della prima redazione di “Ombre notturne”, dopo il risveglio, la realtà appare fallace. «Il sogno ha detto la verità. Il vino, mediatore tra i due regni, non ha alterato o falsificato la verità, ma l’ha scoperta» – ha detto Palmieri.
Il finale di “Vino Generoso” è diverso: il narratore-protagonista si rende conto che il sogno non è la vita vera; i sogni non esprimono la realtà. «Non era la mia la vita, la vita del sogno e non ero io colui che scodinzolava e che per salvare se stesso era pronto d’immolare la propria figliuola».
La messa in scena propostaci da Lino Marrazzo, negli affascinanti spazi del Museo Sartorio, nonostante sia essenziale, mantiene i due punti principali a cui ruota attorno la novella: la prima parte (la violenza) non è più il racconto che il protagonista-narratore mette per iscritto, bensì diventa una conversazione a tavola tra lui e la moglie. La seconda parte (la vendetta), invece, viene vissuta in quello stesso istante sia dal protagonista e da sua moglie, che dal pubblico. Il monologo viene lasciato in disparte, per dare spazio a una drammaturgia che per certi aspetti funziona bene. Lorenzo Acquaviva, nei panni del vecchio, è riuscito a dare maggiore risalto al fluire delle parole, conferendo al racconto un taglio scorrevole. Al suo fianco, Diana Höbel, nel ruolo della moglie, ha ben saputo dare ritmo e delicatezza alla messa in scena.
Il programma dedicato a Italo Svevo continua anche oggi: alle ore 11,15,17 presso il Museo Sveviano (via Madonna del Mare, 13) potrete ammirare il nuovo allestimento, curato da Riccardo Cepach e Cristina Fenu. «Non possiamo allargare la sala, ma possiamo aumentarla» – ha sottolineato Riccardo Cepach, coordinatore culturale Museo Sveviano e Museo Joyce. «È il primo museo letterario in Italia che costruisce un allestimento in realtà aumentata». L’allestimento è stato realizzato grazie anche alla collaborazione con l’università Ca’ Foscari e con il master in “Digital Humanities”.
A seguire il monologo “Svevo a Venezia” di e con Paolo Puppa, in cui vengono ripercorsi i periodi che Svevo trascorse sull’isoletta di Murano, presso la “Sacca Serenella”, per occuparsi della filiale della fabbrica di vernici Veneziani.
L’iniziativa “Buon compleanno Svevo”, del Museo Sveviano e del Comune di Trieste, è stata realizzata grazie alla collaborazione dell’Hotel Victoria e della Scuola di Musica 55-Casa della Musica. Inoltre, tale manifestazione ha aderito all’iniziativa #ilfuturononcrolla a favore del sistema museale di Camerino colpito dal sisma nelle Marche.
Nadia Pastorcich ©centoParole Magazine – riproduzione riservata.
Foto di Nadia Pastorcich