Al Politeama Rossetti di Trieste. Nessun sipario chiuso, perché il sipario è la scenografia stessa. Un’insegna luminosa con la scritta Cabaret. L’attesa. Lo spettacolo inizia. L’insegna scivola in disparte, appesa sul filo del rasoio, così come lo è la vita, che da un momento all’altro può ribaltarsi totalmente, senza lasciare il tempo per pensare, perché bisognava averlo già fatto: ormai è troppo tardi. Siamo a Berlino, negli anni ’30.
Emcee, il Maestro di Cerimonie, un vero e proprio jocker, interpretato energicamente da Giampiero Ingrassia, dà il benvenuto al suo pubblico, conquistando da subito la scena ed entrando nelle menti. Il movimento delle sue mani, la forza espressiva del suo volto, la potenza della sua voce mescolano realtà e finzione, in un mondo chiamato vita.
Da un’apertura briosa, frizzante con tanto di ballerini, si passa ad un interno essenziale: una porta, una scrivania, un letto. In questa stanza – affittata da Frȁulein Schneider – si tesserà la storia di Cliff (Alessandro Di Giulio), un romanziere statunitense, in cerca del soggetto per il suo romanzo.
Alternare momenti di puro varietà al Kit Kat Club, impregnati di folle creatività, a dei momenti di cruda realtà, senza tralasciare le più piccole sfumature, porta a tracciare le due facce della medaglia che prende il nome di vita: dietro all’eccesso, al divertimento, ci sono le sofferenze, le ingiustizie, le difficoltà. Significativa è anche la scelta di una scenografia contenuta, che lascia intravedere i proiettori, le funi, che creano lo “spettacolo”: nulla è nascosto, tutto è sotto ai nostri occhi, così come le piccole cose della vita; tocca a noi vederle, guardarle.
Nei panni di Sally Bowles, un’aspirante attrice, Giulia Ottonello modula brillantemente la voce arrivando dritta al pubblico.
Il suo arrivo nella vita di Cliff, porta ad un cambiamento, a una riflessione, alla presa di coscienza, ma anche alla consapevolezza che la realtà – come dice Cliff a Sally – bisogna affrontarla. Ed è quello che fa Herr Schultz (Michele Renzullo), ebreo, che con l’ascesa del Nazismo, non teme il futuro: «I governi vengono, i governi vanno, mai noi quanto tempo abbiamo?». Lui mette la sua vita in mano al destino, pur di stare con Frȁulein Schneider (Altea Russo).
Se da una parte, nella pensione di Frȁulein Schneider, troviamo Frȁulein Kost (Valentina Gullace) che si gode la vita, dall’altra Ernst Ludwig (Andrea Verzicco), amico di Sally, porta il “nemico” tra le mura domestiche.
Il rosso delle tende teatrali che fanno da sfondo, sparisce, lasciando spazio al nero, al buio del palcoscenico: i personaggi non possono più sfuggire, la loro fine è ormai terribilmente evidente: dietro le sbarre, le loro mani, illuminate dall’ultimo fascio di speranza. La vita è un cabaret.
Cabaret, dal testo di Joe Masteroff, prodotto dalla Compagnia della Rancia, è diretto con maestria da Saverio Marconi; nulla viene lasciato al caso, alla fatalità: tutto ha un messaggio, tutto è spunto di riflessione. Tra le righe emergono tematiche attuali, che fanno spazio anche a dei numeri sensazionali, tra i quali “Soldi, soldi”, “Cabaret”, “Mein Herr”, con le musiche di John Kander e le liriche di Fred Ebb, tradotte da Michele Renzullo. Ad accompagnare, con le coreografie di Gillian Bruce, gli interventi musicali di Emcee e Sally è il corpo di ballo formato da Ilaria Suss, Nadia Scherani, Marta Belloni, Marco Rigamonti, Matteo Tugnolo; mentre i costumi di Carla Accoramboni conferiscono, assieme alle scene di Gabriele Moreschi e Saverio Marconi, maggior carattere allo spettacolo. Cabaret resterà in scena fino a domenica 20 novembre.
Per voi lettori lo spettacolo non finisce qua: la parola va al Maestro di Cerimonie, Giampiero Ingrassia.
Lei è nato in una famiglia di artisti: la madre pianista e il padre attore. Che stimoli ha ricevuto da loro?
Penso che inconsapevolmente sia una questione di DNA. Naturalmente, fin da piccolo, ho sempre avuto una passione per la musica, per il cinema, però non so dire se mi sia stata tramandata da un punto di vista genetico o meno, ma probabilmente ha influito molto. Mi ricordo di mia madre che suonava il pianoforte e i set di mio padre. Inconsciamente, all’inizio, mi hanno instillato questo desiderio, questa voglia, che poi si è trasformata nella mia vita.
Ma c’è una lezione di vita che ricorda in particolare?
Più che altro di mio padre, perché mia madre, quando sono nato io, ha smesso di suonare, di conseguenza ho vissuto di più la carriera di mio padre. Di lezioni di vita, ne ho ricevute tante riguardanti questo mestiere, in base alle scelte che lui faceva, alle mie di scelte, di cui poi ne parlavo molte volte con lui; capitava che si era d’accordo o meno, però ognuno cercava di far capire all’altro le motivazioni della decisione presa. Queste per me erano lezioni, inconsapevoli, di vita, e in particolar modo di vita dello spettacolo.
E quanta sicilianità le ha trasmesso suo padre, Ciccio Ingrassia?
(sorride). Parecchio! Anche se sono nato a Roma, il mio sangue è siculo da intere generazioni. Di sicilianità ce n’è davvero parecchia. Quando si parla male della Sicilia sono molto siciliano, altrimenti sono romano. La Sicilia è una terra splendida, ancora da scoprire, che amo, adoro; non è soltanto mafia, è molto di più, come d’altronde l’Italia non è solo pizza e mandolini. Come carattere penso di essere molto siculo, per una certa caratterialità siciliana, di altri tempi, che si è un po’ persa da altre parti, ma che il siciliano mantiene ancora. Ogni volta che vado in Sicilia mi accorgo che il siciliano è sempre gentile, ma lo è perché vuole esserlo realmente, non per un secondo fine.
Sì, è vero e poi i siciliani sono molto spontanei…
Sono molto spontanei, molto generosi, si mettono molto a disposizione, però non li devi prendere in giro, perché se no poi viene fuori l’appartenenza.
Quasi tutte le famiglie, nel dopoguerra, non vivevano in condizioni tanto agiate, nonostante ciò facevano figli; ci tenevano alla famiglia e speravano che un giorno i figli potessero arricchire la loro istruzione, elevarsi. Oggi, invece, ci troviamo di fronte a una situazione un po’ anomala: da una parte ci sono le persone che non riescono ad arrivare a fine mese e dall’altra quelle che stanno economicamente bene, però, in entrambi i casi, si tende a fare meno figli o addirittura a non farli. Molti di quelli che li fanno, perché possono permetterselo, poi però non li seguono e di conseguenza è normale che una fetta di giovani viva spaesata, lontana dagli ambienti culturali come possono essere i teatri o i musei. Cosa ne pensa di questo?
Penso sia vero che si facciano meno figli; non so se sia un bene o un male. Nella famiglia di Franco Franchi erano in sedici fratelli, mentre in quella di mio padre erano in sette. Forse questa è una caratteristica più del sud, non so se qui al nord, una volta, c’era anche questa tendenza di fare molti figli. Di certo è che la gente o per paura o proprio perché magari non ce la fa ad andare avanti fino a fine mese, non fa più figli. Io ammiro molto chi ne fa parecchi, ma ammiro pure i “ricchi” che, anche se ne hanno tanti, li seguono. Come dicevi prima, se sono figli tuoi, li devi seguire; oggi molti non lo fanno perché hanno le tate. Un figlio va seguito. Alla fine, fare figli è un po’ lo scopo della nostra vita, non c’è potere, successo, fama che tenga. I figli vanno fatti con coscienza.
E poi bisogna coltivarli…
Assolutamente, la cosa più importante è quella, perché a farli sono buoni tutti (ride), poi però li devi seguire. Quanti figli, purtroppo, sono lasciati a se stessi e si rifugiano in se stessi, non cercano il rapporto con gli altri, le amicizie. Non dobbiamo mai dimenticarci che i figli saranno i padri di domani; un giorno saranno loro a trasmettere ai figli tutto quello che hanno passato. Quindi, secondo me, è un po’ un serpente che si morde la coda.
Oggigiorno capita spesso di sentire persone lamentarsi per ogni cosa, però alla fine non fanno nulla. Noi a Trieste utilizziamo l’espressione “Tante ciacole e poche fritole”: si parla tanto…
E poi non si conclude niente…(sorride)
Esatto! Secondo lei, come mai siamo arrivati a questa situazione e che cosa si potrebbe fare per smuoverla? Parliamo del cittadino medio…
Il cittadino medio subisce il mondo che c’è intorno. La situazione storica attuale è di disagio, di confusione, non abbiamo certezze; in realtà non le abbiamo mai avute, ma mai come adesso. Dopo l’avvento dell’euro molte certezze si sono sgretolate; chi era povero è diventato ancora più povero, chi era ricco è diventato più ricco, quelli in mezzo sono diventati più poveri. La classe media, il cittadino medio si è impoverito, perché ha subito tutti i cambiamenti sociali e non, dello stato attuale. Poi bisogna vedere perché il cittadino medio si lamenta.
Quello di oggi non è un mondo facile, né per un cittadino medio giovane, né per un cinquantenne: quanta gente si ritrova, dopo anni di lavoro, licenziata o in cassa integrazione? Dopo che uno ha fatto per una vita un lavoro, certo può ricominciare, ma è difficile, anche perché se devono scegliere, chiamano più facilmente uno giovane, se lo chiamano. Purtroppo non ci sono regole. È vero che la strada te la costruisci tu, ma è anche vero che ogni tanto una botta di fortuna ci vuole e ci vorrebbe.
Lei insegna nella scuola Fonderia delle Arti a Roma. Qual è il messaggio che vuole trasmettere ai giovani?
Da poco sono uscito dalla Fonderia. L’ho fondata dieci anni fa insieme ad altre persone e per dieci anni mi sono occupato della direzione. In quest’ultimo anno e mezzo ero poco presente, perché non ne avevo il tempo, stando sempre in tournée; se prima riuscivo a trovare, settimanalmente, qualche ora per andare ad insegnare, in questo ultimo periodo logisticamente non ce l’ho fatta, così ho preferito – per non ingannare me stesso e i miei allievi – andarmene, restando però socio. Questi dieci anni sono stati belli, pieni di insegnamenti per me e per tutto il team di professori. È stato molto stimolante. Dieci anni fa non avrei mai pensato – come altri miei colleghi – di creare una scuola, ma poi è arrivata una situazione che ha portato alla nascita della Fonderia delle Arti. Ho chiamato tutti i miei bravi amici colleghi e ho proposto loro di iniziare questa avventura. Tutti ne erano entusiasti, anche perché nessuno, prima di quel momento, aveva mai insegnato.
In questa scuola sono passati tantissimi ragazzi, per fortuna molti di loro continuano a lavorare in questo settore, altri hanno smesso, altri ancora hanno fatto figli. Il primo giorno di scuola, dicevo sempre ad ogni classe: “Non so quanti di voi ce la faranno o quanti, magari anche bravissimi, scopriranno che non è il loro destino fare l’attore, però questi sono due anni di formazione umana, imparerete delle cose, ed imparerete anche che il teatro è vita e quello che vi aspetta fuori è quello che vi ritroverete qui dentro”. Questa scuola mi ha dato grande soddisfazione e grande amore nei confronti di questi ragazzi. Sono contento di averla fatta.
Quant’è diversa la scuola di recitazione Fonderia delle Arti rispetto a quella di Gigi Proietti che lei ha frequentato?
Ho improntato la scuola della Fonderia un po’ com’era il Laboratorio di Proietti, che feci nei primi anni ’80. C’è un biennio con un obbligo di frequenza dal lunedì al giovedì, di sei ore al giorno. È una scuola vera e propria. Quando insegnavo ricordo che tanti ragazzi facevano anche l’università, altri addirittura lavoravano per mantenersi, però tutti si impegnavano.
La differenza è che oggi c’è più tecnologia: ai tempi miei non esistevano i mezzi per far vedere delle cose, esistevano a mala pena le videocassette, ma non quelle degli spettacoli o dei musical. Non c’era il DVD, non c’era YouTube. Ora puoi tranquillamente dire: “Andatevi a vedere quello spettacolo, quel performer, a sentire quella canzone, quel cantante”. Alla mia epoca questo non esisteva. Quindi, in questo, è cambiato tantissimo. Ma è anche vero che pur cambiando ed avendo molta carne al fuoco, tanti sono pigri. Quando cazziavo un po’ i miei studenti, capitava che dicessi loro di andare su internet, perché bastava un click per trovare il testo da studiare.
Ai miei tempi – poi si comincia a dire ai miei tempi (sorride) – se dovevo trovare un testo, ad esempio di Karl Valentin, Mamet, Pirandello, che la libreria sotto casa non aveva, dovevo andare al Burcardo, la libreria del teatro, ordinare il libro, aspettare un mese, e andarlo a prendere, magari sotto la pioggia col motorino. Voi avete la fortuna che da casa ve lo potete stampate. Questo molti non lo capiscono perché sono figli delle nuove tecnologie.
Sì, tendono a dare per scontate tante cose…
Ma certo, difatti, secondo me, chi è più appagato da questa tecnologia, chi ne è più meravigliato, sono quelli della mia generazione; una generazione in bianco e nero. Mi ricordo che quando stavo in tournée, proprio con Proietti, mi comparavo gli LP – c’erano solo quelli – poi li registravo sulla cassettina; ma le cassettine erano massimo di 90 minuti, quindi, per avere una libreria dovevo portarmi dietro una cosa enorme. Mi ricordo che pensavo: “Chissà se un giorno inventeranno un affare leggermente più piccolo che contenga 200 canzoni”. Adesso non è che ne hai 200, ma hai tutta la musica del mondo, semplicemente con un click.
In tempo reale…
In tempo reale e io questo lo posso apprezzare, perché sono di una generazione passata. I giovani di oggi forse si meraviglieranno solo per le macchine volanti o per il teletrasporto.
Però è un peccato…
È un peccato sì. Tutti i giovani li vedi che stanno in un salotto e, invece di parlare, magari si scrivono messaggini, ma non comunicano direttamente. Oggi c’è mancanza di fantasia….
C’è tanta comunicazione superficiale…
Assolutamente…Col progresso arrivano anche le cose futili purtroppo, e per quello non si può far nulla in generale. Della comunicazione era bello guardarsi negli occhi, parlarsi, scriversi, aspettare una lettera. Oggi tutto avviene più velocemente, anche un appuntamento: non si attende più. Sembra un ragionamento da vecchi, però è così e i giovani faticano a capirlo.
Com’è questo personaggio che interpreta in “Cabaret”?
Emcee è il Maestro di Cerimonie, una sorta di collante tra la vita reale e le tavole del palcoscenico; è un traghettatore di anime perse, che vengono nel locale Kit Kat Klub per distrarsi, per drogarsi, per vedere le ballerine seminude, dimenticando tutto quello che c’è fuori.
Quindi è molto attuale…
Esatto, moltissimo. È un po’ quello che succede adesso, solo che non c’è il Kit Kat Klub, ma, tanto per fare qualche esempio, oggi c’è il gioco a premi in tv, o ci sono gli operatori telefonici che ti dicono come partecipare ad un concorso per vincere un telefono. Tutti pensiamo a queste cose e poi a casa ci sono i problemi reali. È attuale proprio per questo motivo. In “Cabaret”, di fondo, c’è il Nazismo, per fortuna ora non c’è, però ci sono tante altre cose introno a noi, che possono in parte destare preoccupazione.
Il teatro, per certi aspetti, mette in scena la realtà. Certi testi sono molto attuali, seppure scritti anni fa…
“Cabaret” è preso dal romanzo “Addio a Berlino” [di Christopher Isherwood n.d.r], però poi il musical è stato scritto negli anni ’60, quando, ad esempio, l’omosessualità era addirittura considerata una malattia. Per questo il mio Emcee non è più sessualmente ambiguo, perché non ci interessa, siamo nel 2016; con il trucco lo abbiamo reso più inquietante, è una persona come lo può essere un vicino di casa, lo vedi e ti spaventi. Ci tenevo molto a cambiare questo personaggio, perché oggi un Emcee com’era all’epoca, un po’ uomo un po’ donna…
Ormai è superato…
Sì, adesso vai al bar e il barista lo vedi truccato, perciò non ti fa più effetto; fa effetto se Emcee è un personaggio che ti promette delle cose e ne fa delle altre, però alla fine verrà anche lui fregato, non sarà più super partes: finirà pure lui sul vagone verso Auschwitz.
Questo musical mantiene qualcosa della rivista, del varietà di una volta?
Sì, ma più che del varietà, proprio dei cabaret tedeschi dell’epoca, però come nel varietà c’è il comico, c’è la soubrette, ci sono le ballerine un po’ sgangherate con le calze rattoppate, c’è il clima di presa in giro; ci sono tutte queste cose come erano vissute all’epoca.
L’operetta ha lasciato la scena alla rivista e la rivista al musical. Dopo il musical cosa ci sarà?
Dopo il musical torneremo al teatro in bianco e nero. No, non lo so. Che ci può essere dopo il musical? Spero che la figura dell’attore continui sempre ad esistere, perché, se andiamo avanti così, basterà scegliere l’attore che si vuole vedere, dove lo si vuole vedere, in quale rappresentazione, premere un tasto e apparirà un ologramma, per vedere ciò che si è scelto.
Dico sempre: finché ci saranno delle storie da raccontare – perché è questo il nostro mestiere – l’attore esisterà, e finché ci sarà un posto dove raccontarle, che può essere un palcoscenico o una piazza, l’attore continuerà ad esistere. Forse dopo il musical verranno i monologhi di cucina, dato che va molto di moda la cucina (sorride); magari gli attori faranno dei menù, recitando dei monologhi.
A marzo verrà a Trieste con lo spettacolo “Serial Killer per signora” con Gianluca Guidi. Mi sembra di intuire che sia un giallo…
Sì, è un giallo, un noir, molto bello. Si tratta di un Off-Broadway con quattro personaggi. È molto divertente, completamente diverso da “Cabaret”; ci sono tante belle musiche, una bella storia, dei personaggi forti. Io faccio un detective cinquantenne. È un po’ la storia di un’ascesa di due uomini: uno è figlio di un’attrice famosa, ma è un disoccupato, l’altro è un poliziotto-detective che è arrivato ai cinquant’anni, però vive ancora con la madre. La sua vita è un po’ triste. Una serie di omicidi unirà questi due uomini, rendendoli famosi. Inoltre, ci saranno tanti colpi di scena.
È già stato a Trieste, non è la prima volta questa?
No, sono stato tante volte al Rossetti, nell’86 ero venuto con lo spettacolo “I cinque sensi” diretto da Squarzina, poi nel 2002 con “The Full Monty” con la regia di Gigi Proietti; mentre a La Contrada ci sono stato con Maria Amelia Monti, con Marina Massironi e con il musical “Stanno suonando la nostra canzone” a fianco di Simona Samarelli.
È cambiata l’atmosfera di Trieste negli anni?
Non ho fatto in tempo ad accorgermene: sono arrivato ieri e sono rimasto in hotel, al caldo. A me Trieste piace molto, nonostante faccia un freddo pazzesco per noi romani-siculi, però è una città bellissima, proprio bella, bella, bella. Camminando da Piazza Unità fino al teatro ho riscoperto tante cose. Purtroppo veniamo sempre per poco tempo: quattro giorni, tra una cosa e l’altra, passano in fretta e non te ne rendi conto. Sarebbe bello fare come si faceva un tempo: stare dieci-quindici giorni.
Sì, ciò avrebbe anche un senso: permetterebbe di cogliere la cultura, l’essenza della città….
Certo, esattamente. Noi stiamo comunque quattro giorni, che sono tanti, e per fortuna Trieste la conosco. Cambiamenti non ne ho ancora visti; te lo farò sapere (sorride).
Ha qualche speranza?
Speranze ce ne sono tante, soprattutto per un mondo migliore, bisogna però vedere se si riuscirà a scorgere qualcosa di buono; non dipende dal singolo: è la classe politica che decide il futuro di noi comuni mortali.
Gli attori possono in qualche modo schierarsi, possono con i loro spettacoli aprire una piccola voragine o far porre delle domande al pubblico, però poi bisogna vedere se il pubblico le recepisce, se ha voglia di recepire o se invece, come nel caso di “Cabaret”, ha voglia di dire: “Ma a me, non me ne frega niente, io vado a divertirmi e poi quello che succede, succede”.
Qual è il messaggio che “Cabaret” vuole far arrivare al pubblico?
Il messaggio è: non distraetevi dalle cose vere della vita e soprattutto non fate finta di nulla, perché prima o poi quella cosa toccherà anche a voi; almeno siate pronti e prendete una posizione.
Non bisogna essere passivi, bensì attivi…
Assolutamente, ma questo in generale. Bisogna anche essere curiosi: penso che l’uomo debba continuare ad essere curioso, in senso buono; soprattutto finché i giovani saranno curiosi e vorranno imparare e scoprire delle cose, ci sarà un buon futuro, altrimenti siamo destinati a chattare su WhatsApp. Una cosa terribile, purtroppo.
Ringrazio l’attore Giampiero Ingrassia per la stimolante chiacchierata.
Nadia Pastorcich ©centoParole Magazine – riproduzione riservata.
Foto di Nadia Pastorcich
Ciò che mi ha colpito in questa intervista è la sua spontaneità. Questa è presente invero in tutte le tue interviste Nadia, ma qui è più evidente. Forse lo si deve molto al personaggio, alla persona che tu intervisti. Ingrssia è fresco, immediato, brillante, e poi fa un’alisi sincera sui giovani e sul mondo di oggi.