L’età contemporanea risulta essere il periodo più complesso e, per vari aspetti, il più traumatico e tragico. La Rivoluzione Francese aprì la strada all’ascesa di uno degli uomini più importanti e potenti della Storia, Napoleone Bonaparte: quando divenne imperatore dei francesi, uno dei suoi progetti in campo artistico fu la realizzazione del più grande museo del mondo presso il Louvre (ove, il 10 agosto 1793 venne inaugurato il Muséum Central de la République, dove trovarono posto le ex collezioni reali, esposte per il pubblico godimento). Nonostante la grande ricchezza di opere d’arte sul territorio francese, il generale e imperatore intraprese una campagna di prelievo massiccio (o più correttamente, furto sistematico e deliberato) dai territori conquistati di opere, antichità e tutto ciò che era di interesse culturale. E ovviamente, una se non la più perseguitata da tale politica di saccheggi, fu l’area italiana (e in particolare lo Stato Pontificio e la Repubblica di Venezia). I capolavori, sia antichi che recenti, “importati” dalla penisola (e Roma in particolare) vennero considerati onore e vanto di Napoleone, e portati per questo a Parigi.
All’epoca regnava Pio VII Chiaramonti, e ciò che potè fare fu solo inasprire le leggi vigenti per salvare le opere superstiti e riunire quelle rimaste; stabilì che il posto di Ispettore Generale delle Belle Arti (carica un tempo appartenuta a Raffaello) fosse affidata ad Antonio Canova, che si era affermato quale sommo artista del Neoclassicismo: egli agì in continuità con l’operato di Johann Joachim Winckelmann, Luigi Lanzi, Ennio Quirino Visconti, Carlo Fea e Antoine-Chrysostome Quatremère de Quincy. Quest’ultimo fu autore delle fondamentali Lettere a Miranda, edite nel 1796 e ristampate a cura di Canova negli anni successivi, nelle quali vi è la preghiera, rimasta vana, di impedire le spoliazioni e la dispersione del patrimonio storico-artistico dalle terre conquistate dai francesi (e portato poi a Parigi); esse hanno molti elementi di avanguardia, e pertanto presentano affinità con le necessità legislative e culturali attuali. Pio VII, inoltre, proibì in modo assoluto l’esportazione da Roma e dallo Stato di qualsiasi bene archeologico o frutto di un’artista vissuto in piena età di rinascita delle arti, e vietò a chiunque di dare licenze di estrazione: a tali norme erano sottoposti sia i sudditi del papa che gli stranieri, possessori di questi beni, nonché gli individui di passaggio. Confermò le norme dell’Editto Valenti, aggiungendo anche la pena alla galera per cinque anni e ulteriori pene corporali. La circolazione fu consentita solo all’interno di Roma e dello Stato previa regolare licenza, in cui andava specificata la nuova collocazione e la durata della sua permanenza al di fuori della sua sede originale; vi fu poi l’obbligo di dichiarazione di possesso dei beni, verificato ogni anno dagli organi competenti. Altre importanti aggiunte furono il divieto di demolizione degli antichi edifici, tranne per ciò che non aveva valore per l’arte e l’erudizione (sempre previa licenza); l’intervento pubblico per l’acquisto di beni per i musei pubblici; e l’obbligo di licenza per gli scavi archeologici e, in caso di ritrovamento, l’obbligo di non distruggerli e di denunciarli entro dieci giorni (i beni denunciati potevano essere acquistati entro un mese).
È importante ricordare l’Editto Doria del 1 ottobre 1802 (primo strumento legislativo moderno atto alla tutela del patrimonio dello Stato Pontificio – in cui si affermava il divieto alle esportazioni e si offriva una dettagliata articolazione operativa), oltre alle attività di Canova (che chiese a Napoleone di fermare gli spogli). Nel 1809 il papa fu fatto arrestare dall’imperatore, e rimase prigioniero a Fontainbleau fino al 1814; nello stesso anno la Commissione per l’Abbellimento della Città di Roma decise lo sgombero degli spazi attorno ai monumenti più importanti: ciò avvenne perché non si tenne conto che il centro storico risulta essere un insieme di elementi di vario valore che, sommati, acquistano un’importanza ben maggiore. La caduta di Napoleone comportò, dal 1815, la restituzione di gran parte delle opere depredate agli Stati di provenienza (operazione affidata a Canova e svoltasi nonostante le forti resistenze francesi, in primo luogo quelle del direttore del Louvre, Dominique Vivant-Denon); questo avvenne grazie all’intervento dell’Inghilterra, che sostenne l’inseparabilità delle opere dalla terra di loro origine, e le pressioni olandesi.
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Il successivo Editto Pacca, del 1820 (che porta avanti l’operato del cardinal Consalvi, che si era adoperato per la tutela del patrimonio romano rimasto in loco e di quello restituito durante i primi anni della Restaurazione), segnò una svolta di rilievo: esso mirò al consolidamento delle norme in campo di conservazione del patrimonio archeologico e artistico di Roma e dello Stato Pontificio. Si ebbe l’organizzazione del servizio amministrativo competente per esplorare il patrimonio artistico dello Stato e vigilarlo; la presenza della Commissione di Belle Arti al fianco del Camerlengo, in modo che cooperi all’esecuzione della legge, al restauro e la conservazione dei monumenti pubblici di pregio; la presenza di Commissioni Ausiliarie in sostituzione di quella di Belle Arti nelle Legazioni e Delegazioni. Alle Commissioni era così affidato il patrimonio artistico e archeologico dello Stato. Va inoltre aggiunta l’esposizione di una serie di interventi apportati nella prima metà dell’Ottocento: l’introduzione della catalogazione, l’intervento della tutela pubblica là dove la tutela privata non aveva avuto efficacia (tramite l’esproprio). L’Unificazione dello Stato Italiano non comportò inizialmente, soprattutto a Roma, grandi vantaggi alla tutela e la considerazione del patrimonio: quest’ultimo venne in gran parte disperso, e la successiva espansione demografica comportò la violazione delle norme per poter costruire edifici pubblici e privati. Furono così necessarie nuove norme per la garanzia del patrimonio storico-artistico, associate a una campagna di sensibilizzazione per l’Unità: le antichità classiche, in particolare, vennero prese come esempio di orgoglio nazionale da parte del neonato Stato Italiano.
Emerse subito il problema di come doveva essere attuata la tutela: decentrata o centralizzata? Vennero superati dei Vincoli Fide-commissari, in cui si stabiliva l’ereditarietà dei beni come patrimonio, con l’obbligo di salvarne l’integrità; tale decisione fu gradita dai liberali, secondo i quali la proprietà privata è inviolabile, ponendo però un freno nel 1871, quando si stabilì l’indivisibilità dei patrimoni artistici privati finchè non si fosse arrivati ad una regolarizzazione. Tale vincolo non fu però osservato con rigore: così, nella seconda metà dell’Ottocento ebbe inizio la dispersione delle grandi collezioni. Quando vi fu la dispersione della Collezione Chigi-Albani, si vide la necessità di creare una legge che prevenisse altri episodi analoghi: nacque, il 12 giugno 1902, la Legge Nasi, che si può considerare una legge imperfetta (dato che agiva solo sui beni contenuti in un catalogo). Nel 1909 nacque la Legge Rosadi, che consisteva in un corpus normativo più serio, in cui si disponeva la notifica dell’importante interesse del bene e l’introduzione del limite minimo di età per dichiarare l’interesse culturale del bene (50 anni). Si affiancò poi, il 1 giugno 1913, un regolamento tuttora in vigore: il Regio Decreto n.363; nel 1912 si approvò la tutela di ville e parchi di interesse. Nel 1923 venne redatto un catalogo ricognitivo; nel 1937 si istituì la tassa per l’esportazione dei beni.
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Nel 1939 il ministro all’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai realizzò due leggi, con l’aiuto di persone competenti nei vari campi affrontati (come Gustavo Giovannoni, Roberto Longhi e Giulio Carlo Argan): la Legge Bottai (n. 1089, del 1 giugno), la più organica d’Europa, con cui si ha il coordinamento della tutela del bene e del suo contesto e il conferimento allo Stato di tutte le prerogative nelle decisioni (conferendo così all’operato del Ministero un’assetto fortemente centralizzato); e la Legge n. 1497 del 29 giugno volta alla tutela e protezione delle bellezze naturali. La Legge Bottai sopravvisse alla guerra ed influenzò anche l’art. 9 della Costituzione italiana (redatta a partire dal 2 giugno 1946 ed entrata definitivamente in vigore dal 1 gennaio 1948); e fu quindi alla base dell’attuale Codice. La Seconda Guerra Mondiale comportò non solo un’evoluzione delle società di tutti i paesi, ma comportò anche la trasformazione dei concetti di arte e cultura, e, di conseguenza, di tutela e conservazione. La guerra fece sì che l’ottica in materia di beni e patrimonio culturale si ampliasse: entrano in scena i beni immateriali, la forte considerazione del contesto in cui si trova il bene, ma soprattutto nasce il concetto vero e proprio di bene culturale (e, di conseguenza, quello di patrimonio). Tale espressione compare per la prima volta nel 1958, quando, in seguito alla riunione per la Convenzione dell’UNESCO dell’Aja nel 1954, organizzata con lo scopo di trovare una serie di provvedimenti, comuni a più paesi, volti a garantire la protezione del patrimonio storico-artistico in caso di un nuovo conflitto su larga scala (la guerra aveva infatti comportato la perdita e il deterioramento di un numero incalcolabile di opere in tutto il mondo – basti l’esempio delle città tedesche, Dresda e Berlino in primis), lo Stato italiano ratifica con la Legge 279 del 7 febbraio le decisioni ivi raggiunte. Nel 1964 la Commissione Franceschini attuò un’indagine sul patrimonio artistico, paesaggistico e di altra natura, e formulò una serie di proposte per la tutela e la lotta al degrado e alle speculazioni. Ma soprattutto si definì che i beni appartenenti al patrimonio della nazione sono quelli relativi alla civiltà in cui nascono e alla sua Storia: quindi, i beni culturali sono quelli aventi valore di civiltà. Si considera poi una distinzione tra beni materiali e immateriali.
Tutto ciò portò alla creazione, tra il dicembre 1974 e il gennaio 1975, del Ministero dei Beni Culturali e Ambientali (Decreto Legge n. 657/1974), le cui competenze erano svolte fino ad allora dal Ministero della Pubblica Istruzione; importante fu anche l’opera di decentramento regionale messo in atto a partire dal 1970 (in realtà, già previsto dalla Costituzione). Si è arrivati poi, nel 1999, alla stesura del Testo Unico in materia di Beni Culturali: esso si rifaceva alla normativa precedente (Legge Bottai); a sua volta, questo è stato rielaborato e aggiornato fino a sfociare nell’attuale Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (Decreto Legislativo 22/01/2004 n. 42) volto ad armonizzare in un corpo legislativo unitario e maggiormente coerente tutte le normative precedenti (nel nuovo rapporto tra Stato-Regioni e alla luce della suddivisione delle rispettive competenze – la tutela al primo, e la valorizzazione alle seconde, nonostante gravi ambiguità generate dai tentativi di un’imposizione del modello federalista nel nostro sistema di governo) e unendo all’attenzione rivolta ai beni culturali quella per i beni paesaggistici. A sua volta, il Codice è stato integrato da aggiornamenti.
Ringrazio vivamente il Prof. Alessandro Zanmarchi per i numerosi suggerimenti atti a migliorare l’articolo, con nuovi contributi e doverose precisazioni.
Marco Rago © centoParole Magazine – riproduzione riservata
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