Venerdì 26 marzo 1976
Caro Alekos,
hai telefonato nell’unico momento che non ero in casa (ero scesa a Porta Romana). Ti ho richiamato subito, numerose volte, fino a sera, al 3223031, ma non ha mai risposto nessuno. Me ne dispiace molto.
Ecco dunque le notizie per scritto, se non ci parliamo prima. Ho parlato con Nicola Carraro. Gli ho detto delle duemila copie. Come prevedevo si è messo a ridere. Come ti avevo già spiegato io, non significa nulla. Le duemila copie sono il contratto standard il quale prevede un minimo di duemila copie. E il contratto che Nicola suggerisce non è nemmeno un contratto. Poi gli ho parlato delle 350 pagine, cioè la cosa scritta a mano. Di nuovo si è messo a ridere. Non significa nulla ha detto. “Ho scritto la prima cifra che mi è venuta in mente. Potrebbero essere di più, potrebbero essere di meno. Lo so.” Ma anche questo io te l’avevo detto. Quindi su questi punti non devi avere motivi di preoccupazione. Un poco preoccupato mi è sembrato invece Nicola: a causa della lentezza con cui procede il lavoro. Egli si rende conto perfettamente che entrare nel lavoro di un libro è un processo lento e faticoso: soprattutto per chi non è scrittore di mestiere. Comprende benissimo tutti i possibili problemi che possono sorgere per una persona che è nuova a una simile impresa, a una simile avventura. Sono gli stessi problemi, ma raddoppiati, che ha di solito uno scrittore professionista. Che io ho, ad esempio.
Però mi sembra un po’ triste per il ritardo in cui ti sei messo al lavoro. (“Mi disse che avrebbe incominciato ai primi di febbraio invece ha cominciato a metà marzo, poi si è interrotto.”) E mi sembra anche perplesso sulla non-continuità del tuo lavoro. Sul fatto cioè che d’ora in avanti tu non ti dedicherai completamente al lavoro del libro ma lo farai (se lo farai) solo nelle ore in cui non devi fare altre cose. (“Temo che non si possa entrare nello spirito di un libro, nella sua continuità, avendo altre cose in testa interrompendosi continuamente.”).
Io ho cercato di sdrammatizzare, di minimizzare tali preoccupazioni: naturalmente. Però a te devo dire che le sue preoccupazioni sono anche le mie preoccupazioni. Da professionista dello scrivere devo dirti che le sue paure sono giuste. È assolutamente vero, infatti, che non si può scrivere nei ritagli di tempo. Che non si può scrivere avendo il cervello occupato da altre cose. Ogni volta che io ho scritto un libro, ho fatto solamente quello. Come un monaco. Con una disciplina terribile, un orario crudele. Non scritto nemmeno un articolo, nel frattempo. Tutti i miei pensieri, tutti i miei sentimenti, tutte le mie giornate e le mie nottate erano occupate esclusivamente dal lavoro del libro. Credo di averti parlato di questo, nel mio ultimo memorandum-scaletta. E credo di averti spiegato, con le parole dello zio Bruno forse, che non si tratta di un caso personale. Tutti fanno così. Perché scrivere prosa non è come scrivere poesia. Non dipende, cioè, dall’ispirazione. Dipende dalla disciplina. L’altra cosa che mi ha detto Nicola è questa: lui sperava (ma ha capito che non è possibile) di portare il manoscritto alla fiera del libro di Francoforte: il più grande mercato del mondo per la vendita e la traduzione dei libri, che avviene in settembre. (Quando un manoscritto arriva a Francoforte con un editore che ci crede, il suo successo è quasi certamente assicurato in campo internazionale.) Sperava di fare questo perché, credendo tanto nel libro, voleva lanciarlo come libro dell’anno della Sperling and Kupfer.
Ora la cosa non è possibile perché, anche se tu lo scrivessi davvero in greco per settembre il 1976 è perduto. Inoltre, anche se tu lo scrivi in greco per settembre, lui deve prima leggerlo. Vedere se va bene o non va bene, se gli piace o non gli piace. E questo può avvenire soltanto leggendolo in italiano. Ma per leggerlo in italiano non basta una traduzione sommaria di un qualsiasi traduttore. Non solo: per parlarne a Francoforte, deve avere almeno due o tre capitoli in inglese. Cioè nella lingua in cui si trattano le vendite internazionali dei libri. Poiché il 1976 è perduto, lui vorrebbe cercare un rimedio parlando lo stesso del libro a Francoforte. Questo significa avere due o tre capitoli, i migliori, in inglese. Tradotti bene in inglese da una buona traduzione italiana. Per fare questo dovrebbe avere la mia traduzione italiana entro giugno. E poi darla, in luglio, a un buon traduttore inglese. Possibilmente, il mio: John Shepley. Subito dopo, fare comporre la traduzione inglese e italiana tipograficamente. Insomma, stampata. Anche se si tratta di due o tre capitoli soltanto. Questa è la prassi. Ma come scegliere i capitoli migliori se del libro esiste solo una piccola prima parte, per ora? E se alla fine di maggio (quando io potrei lavorare sulla traduzione sommaria) esisterà poco di più? anche questo, ho capito, lo tormenta un poco. E anche questo riporta il discorso sul problema principale: il tuo lavorare o no al libro. Il tuo lavorarci continuamente. Il mio parere è questo.
È molto difficile, per tutti, avere un editore che crede a un libro prima di leggerlo. Anzi, prima che il libro sia scritto. Sono fortune, queste, che capitano solo in casi rari. E sempre a scrittori già affermati e conosciuti. A te capita questa fortuna. E perderla sarebbe infinitamente stupido. Non troveresti più un’occasione simile. Anche perché il mondo degli editori è un mondo piccolo.: si conoscono tutti, parlano tra loro. E, dopo l’inutile attesa di Rizzoli per l’Apologia, dopo un’altra inutile attesa di Nicola, nessuno ti crederebbe più. Nicola sta dimostrando di esserti amico. Non perdere questo amico. Non perdere il suo rispetto. Non lo deludere. Se davvero ti senti capace di scrivere questo libro, lavora. Lavora con sacrificio: come faccio io, come fanno tutti. Il sacrificio significa, anche in questo caso, rinunciare ad altre cose. Significa non perdere ore preziose. Significa obbligarsi a una vita disciplinata. Anche fisicamente. Significa, diceva lo zio Bruno (e te lo scrissi), trattare se stessi come un cavallo che si prepara a correre per il Gran Premio. Quindi, niente ore piccole, niente compagnie inutili. E aranciate per bere.
Questo può sembrarti molto noioso. E forse lo è. Ma per essere seri bisogna esseri noiosi. E per portare in fondo le cose bisogna essere seri. Bisogna anche essere crudeli con se stessi. E tu dovresti saperlo. Nicola, dice, ti scriverà. Non so cosa ti scriverà, ma so che non ti dirà mai queste cose. Anche perché non le conosce: è un miliardario. E i miliardari non conoscono il sacrificio, la disciplina, la noia. Conoscono solo il denaro. Al massimo, l’avventura. Quindi, ascolta me che ti parlo con saggezza e amicizia e l’affetto che sai.
È tutto. Ti abbraccio
Oriana
P.S. Oh no! Non è tutto. Il gruppo dei deputati missini ha fatto un’interrogazione scritta in Parlamento per “Chiedere al Primo Ministro, al ministro degli Interni, al ministro della Giustizia, al ministro delle Partecipazioni Pubbliche” se durante la trasmissione televisiva sull’aborto “ero in stato di alcolismo acuto come dimostrare la mia voce impastata e il mio atteggiamento ondeggiante il mio linguaggio aggressivo” e perché “io sia citata in giudizio per avere definito Fanfani onorevole o senatore e per avere riferito male una sua frase durante la campagna elettorale sul divorzio”.
È il grande fatto del giorno. Anche Pertini, furibondo, mi ha telefonato due volte. Tutto è nato perché alla trasmissione era stato rifiutato il deputato missino ma c’era il socialista Fortuna e il comunista Berlinguer. L’intero gruppo è stato definito dal gruppo dei deputati missini “gangster e criminale” io “il più gangster e il più criminale di tutti”.
Darò querela al missino firmatario dell’interrogazione per insulti e calunnie. Ma sarà molto difficile che possa vincere perché egli gode dell’immunità parlamentare. Be’, credo che diventerò anch’io extraparlamentare. E credo che finirò per risolvere la cosa a modo mio: con due schiaffoni dati in Parlamento davanti ai fotografi. Ma Pertini dice che, così, in prigione finirei io.
E intanto me ne sto qui, in via Giovanni Prati, prigioniera, con le mani legate da questa situazione familiare ingiusta e insopportabile.
Tratto da La paura è un peccato – Lettere da una vita straordinaria di Oriana Fallaci, Rizzoli, giugno 2016, pag. 142
Francesca Schillaci © centoParole Magazine – riproduzione riservata