In una società così dominata dall’immagine, da un’immagine che tutti si preoccupano di fare propria, di sostituire alla propria realtà come nuova sembianza, di fermare in migliaia di fotografie, di collezionare, di archiviare in sterminati archivi digitali che nemmeno in una vita intera riusciranno mai a rivedere, mi sorge una domanda che riassume un po’ lo stordimento di chi si fermi un attimo a pensare: in tutta questa fantasmagoria di stimoli, in questo immenso oceano di immagini, appunto, da cui tutti oramai attingono, direi quasi si nutrono, per le più disparate necessità lavorative o ludiche, in questa Babilonia di segni, di loghi, di grafìe, di simboli visivi, ha ancora un senso creare un’arte che ne racchiuda di nuovi? Ha ancora senso dipingere un paesaggio, disegnare o schizzare un’idea su un foglio da disegno, persino creare un’opera astratta su una tela?
Questo immenso esubero di stimoli visivi, fissi od in movimento, che attanaglia ormai la nostra soglia di percezione, stressando senza che ce ne accorgiamo i nostri sensi per la sua prepotenza e per la sua mole immensa, reca con sé un grande pericolo, un danno incommensurabile per ognuno di noi: quello di svalutarne paradossalmente il valore e di massificare gusti e valutazioni critiche, in una indigestione visiva di cui si intravedono i primi sintomi.
L’avvento stesso, in arredamento, del minimalismo, anche se partito da canoni stilistici non proprio così sintomatici, sta a significare di fatto un rifiuto a questa ridondanza scenica e sensoriale che soprattutto l’avvento della tecnologia digitale ha portato, come uno tsunami in piena.
Prendiamo ad esempio la fotografia: ognuno di noi, se tornasse come per magia in tempi “analogici”, per il numero foto e di autoscatti che compie ogni giorno, attraverso macchine fotografiche digitali o semplicemente dai cellulari, dovrebbe spendere svariate centinaia di euro per farle stampare, aspettando giorni su giorni, e si ritroverebbe a dover modificare il suo arredamento, con nuovi armadi appositi e schedari per stivare migliaia di fotografie in altrettanti album: la cosa risulterebbe, alla lunga, se non impossibile, quantomeno patetica da gestire.
Ora invece, visto che la stragrande maggioranza delle foto, si “archivia” su video e nemmeno mai si stampa, essendo venuta a cadere l’attesa dal fotografo per lo sviluppo e soprattutto la spesa ingente da sborsare, ognuno si diletta in aspirante fotografo o registratore compulsivo di immagini, che con pochi colpi di mouse può inoltre trasformarle da banalità casuali, in artefatte foto “d’autore”.
E questo succede un po’ dappertutto, anche nell’opera grafica, nell’arte figurativa ed astratta, persino nel fumetto: ogni giorno nuovi programmi e nuove applicazioni, permettono a quello che una volta era il pubblico potenziale degli artisti, di trasformarsi in un ibrido pseudo creativo, che esercita una sua nuova valenza sul mercato.
Ovviamente la svalutazione dell’opera visiva, artistico\intellettuale in sé, è inevitabile. Perché ci vorranno oramai decenni per “digerire” questo troppo repentino mutamento, un periodo bastante affinché le nuove generazioni possano incominciare a distinguere qualcosa di totalmente artefatto, generato in gran parte da una macchina, cioè un prodotto, da qualcosa che sia frutto dell’ingegno personale ed artistico di un individuo.
Sempre più, di fatto, questo confine si scolorirà, si ridurrà e perderà la sua nitidezza: sempre più la creatività si mischierà alla tecnologia per tutti, l’effetto contrasterà, con successo, un raffinato stile personale, magari frutto di anni di ricerca: tutto sempre più si avvicinerà ad un “tutto e subito”, piuttosto che ad un graduale percorso di ricerca, che, in definitiva è quello che compie un artista durante la sua vita attraverso una sperimentazione costante.
Il mio dubbio osceno è che forse in futuro non lontano, ben pochi potranno essere dotati dei dispositivi culturali e critici, tali da poter riconoscere, nella Babilonia del web, un’opera d’arte da qualcosa che ne fa solo una parodia sbiadita sotto i lustrini dell’informatica.
Ci saranno nel futuro ologrammi alle pareti di ogni casa, simulatori di foreste tropicali o di soffitti michelangioleschi ad alta definizione in ogni albergo, o brulicanti e stereotipate scene di trafficatissime strade newyorkesi in ogni bar? Quali pareti non cederanno, alla fine, il passo ad enormi video sottili come un foglio? Quale spazio resterà all’Arte ed agli artisti? I pochi che sopravviveranno, dovranno rimanere segregati in gallerie d’arte\ museo destinate solo ad investitori o super benestanti e perderanno il loro contatto con il loro pubblico di tutti i giorni?
La nostra società è in continuo mutamento e non è facile darne una previsione. Ma sono certo che l’arte sopravviverà, magari in qualcosa di arcaico ma sempre spontaneo e straordinario, magari nelle vesti di un graffitaro, che, con un paio di bombolette spray, magicamente trasformerà un vecchio muro di periferia in una altrettanto magica iconografia urbana, od un bambino, che con un semplice gesso sul pavimento, traccerà dei segni tribali che nemmeno lui stesso conosce, ma che sono misteriosamente inscritti nel nostro naturale patrimonio visivo e che ci affascineranno, attingendo al nostro più naturale, sincero e spontaneo bisogno di comunicazione artistica e di relazione sociale.
Roberto del Frate ©centoParole Magazine – riproduzione riservata.