Come ogni estate, torna, sabato 9 luglio, alle 11.30, la trasmissione radiofonica, condotta da Gianni Gori, “Dalle strade alle stelle”: la rubrica degli itinerari all’aperto, che si apre con la voce di Lucio Dalla.
L’appuntamento estivo ci accompagnerà per dodici puntate, tracciando una serie di suggestivi e originali percorsi musicali e spaziando tra vari generi: dal folk al pop, dall’opera all’operetta, dalla commedia musicale alla canzone d’autore.
Inoltre vi saranno anche due finestre: “Shakespeare in Love”, in occasione del 400esimo anniversario della morte di Shakespeare, e “…e per la prima volta in scena”, che vuole ricordare i cantanti che hanno mosso i loro primi passi al Teatro Verdi di Trieste.
Il programma condotto da Gori, con la regia di Assunta Cannatà, andrà in onda ogni sabato, dalle 11.30 alle 12.30 su Rai Radio Uno. Per chi al sabato non riuscisse a seguire la trasmissione, potrà farlo il giorno seguente, alle ore 14.30, nell’Ora della Venezia Giulia, sulle Onde Medie di Radio Uno. Un’ora di puro divertimento e relax che vi farà sognare.
Ma quando e come è nata la trasmissione “Dalle strade alle stelle”? A parlarcene è Gianni Gori.
Molti anni fa, alla Rai, nei programmi del Friuli Venezia Giulia del sabato, c’era la necessità di aprire una fascia oraria più ampia del solito, di quasi un’ora – generalmente tutte le programmazioni erano molto ristrette, come lo sono ancora.
Bisognava mettere su un programma di un’ora, perciò ho pensato di fare – anche perché siamo in estate – una trasmissione leggera, sostanzialmente musicale, che non sia però una specie di album impaginato, né di soli pezzi classici, né di soli pezzi attuali, bensì un percorso a zig zag, che, ogni volta, comincio prendendo spunto da un fatto di cronaca, da un anniversario, da un artista che è scomparso, dalle novità discografiche. In poche parole scelgo qualcosa di significativo.
Questa trasmissione può essere ascoltata da tutti?
Assolutamente. Quando ho iniziato, mi divertivo a passare da un pezzo, per esempio, classico, un pezzo d’opera, di musica sinfonica, a un pezzo di un cantautore, di cabaret, qualcosa di sfrontato; Luttazzi, per esempio, era uno che mettevo spesso dentro al programma.
Generalmente, soprattutto nella musica leggera, accade che tutte le emittenti radio facciano sentire sempre la stessa cosa; ad esempio, il cantante che vince a Sanremo è condannato a vita – in senso buono – perché quel suo pezzo verrà passato tantissime volte in radio.
Poi ci sono dei brani che spariscono dalla circolazione, anche brani famosi, come accade pure con alcuni importanti nomi: uno che una volta era popolarissimo, che si sentiva spesso, improvvisamente, può sparire, perché ne subentrano altri, che sono di attualità.
Facendo questo programma, mi è piaciuto riscoprire qualcuno che era stato dimenticato, così come certe canzoni di Califano, di Luttazzi, del cabaret milanese, di quel genere di teatro che faceva Pozzetto, ovvero il teatro comico; lui scriveva queste canzoni tipo “Sono timido”, cose molto ironiche, che non passano più in radio.
L’intento è quello di far riscoprire certi cantanti che non si sentono da tempo; ogni tanto, faccio sentire il torinese Gipo Frassino, che da anziano è stato quasi più famoso che da giovane; lui era conosciuto come politico, non tanto come cantante. Ha scritto canzoni bellissime, in dialetto piemontese, con una voce molto francese, molto ruvida.
Quindi l’obiettivo di questa trasmissione è quello di far riscoprire talenti scordati…
Sì. Un’altra scoperta che ho fatto è stata quella di una ragazza toscana, di Pistoia, che, una volta, avevo fatto venire a Trieste al Festival Voci dal Ghetto. Lei, Giuditta Scorcelletti, è una cantante di strada; con la chitarra cantava le canzoni popolari, le ninne nanne toscane. Un giorno, al Festival, è passato un signore, che le ha lasciato il biglietto da visita. Era un famoso discografico, autore, americano e lei lo ha chiamato e si sono messi d’accordo. Giuditta, l’anno scorso, è stata l’unica candidata al Grammy, per il pop. Poi ha vinto un’altra persona, ma il fatto di essere stati nominati, è stato significativo.
Lo stesso per la lirica: in rete si trovano delle cose rarissime di certi cantanti; perciò ho impaginato questa trasmissione con rarità discografiche che io sento in giro, e che faticano a passare all’ascolto, perché sono novità rare.
Per esempio, le operette che vediamo qui a teatro sono sempre le stesse, mentre, in realtà, ne esistono tantissime ed escono su cd. Fanno pure delle cose molto divertenti. Di recente è venuta fuori “Satanella”, un’opera di un compositore inglese, Michael Balfe, che è incentrata su una diavolessa. Insomma, si scoprono tante curiosità divertenti.
In questa trasmissione ci saranno anche due finestre….
Sì, una si intitola “Shakespeare in Love” e l’altra “…e per la prima volta in scena”. Quella dedicata a Shakespeare è nata in occasione del 400esimo anniversario della sua morte. Ho pensato di prendere dodici sonetti di Shakespeare – questo programma ha dodici puntate – e legare ognuno ad un brano musicale, collegato a Shakespeare. Ce ne sono tantissimi: da Berlioz, Mendelssohn fino ai musical, a Cocciante.
Ho deciso di fare questo, perché ho scoperto che alcuni di questi sonetti sono proprio diventati testi di canzoni. C’è un cantautore napoletano che ha tradotto, nel suo dialetto, molto liberamente, questi sonetti, facendone altrettante canzoni, un ibrido tra la compagnia di canto popolare e Pino Daniele. Molto gustoso. Lui è davvero originale.
Ci saranno anche ospiti in questa trasmissione?
No, quest’anno non ci saranno, ci sarà solo Mariella Terragni, l’attrice che leggerà i sonetti e piccole altre cose.
L’altra finestra “…e per la prima volta in scena”, nasce perché ho pensato di parlare di alcuni artisti che hanno debuttato a Trieste, facendo fortuna. Ci sono quelli che ho conosciuto, ma anche quelli che, in un certo modo, io ho lanciato, come il caso della coreana Sumi Jo, che è stato clamoroso: lei era venuta a Trieste, in una giornata di bora, per fare un’audizione; aveva un cappottino bianco…terribile. Era sconosciuta, ma ha cantato meravigliosamente. È stata presa per il debutto del “Rigoletto” a Trieste.
Pochi mesi fa, Sumi Jo, era in nomination al premio Oscar come la miglior canzone del film “Youth” di Sorrentino. Artisti che poi mi sono rimasti affezionati, che mi scrivono, telefonano. Ma anche artisti e debutti storici: per esempio, nel 1937, il tenore Miguel Fleta – una celebrità, una delle più belle voci di tenore, un po’ simile a Kaufmann che adesso è molto in voga, che ha questa voce scura, baritonale, però con acuti dolcissimi – ha debuttato a Trieste, cantando per la prima volta proprio qui da noi.
Ci sono stati altri casi di questo genere: Franca Somigli, moglie dell’allora sovrintendente del Teatro Verdi, doveva andare in scena, ma si era ammalata, e c’era bisogno di coprire il ruolo; a sostituirla è venuta una certa Renata Tebaldi, che ha fatto il suo il debutto. Ma ricordo benissimo anche un altro debutto, quello di Renata Scotto, giovanissima, ventenne, che aveva già impressionato il pubblico.
Il legame che Trieste ha e ha avuto con la radio è particolare; basti pensare al periodo degli Alleati, alle varie occupazioni…
Un periodo fantastico! È stata una stagione meravigliosa e ancora adesso la si dovrebbe difendere, perché l’emozione – io sostengo sempre l’emozione – che dà la radio è unica. Mi vengono in mente le produzioni di teatro che si facevano – oggi si direbbe fiction – le riviste che si facevano, tutte cose che regalavano emozioni uniche. Tutto il periodo durante la guerra e quello post-guerra è stato un laboratorio, una fucina incredibile, dove sono venuti fuori artisti, musicisti come Cergoli, Luttazzi, Franco Russo, Vallisneri. Trieste, in quegli anni, ha cominciato a conoscere il jazz.
Ricordo molto bene che si suonava musica nei piccoli club, in piccole sale, dove tutti ascoltavano, stavano attenti; oggi, è un fenomeno che non esiste più, oggi non si ascolta più: siamo sommersi dal rumore, da musica continua; quando si va ai concerti di massa, non si ascolta, ma si canta assieme. Una volta, invece, c’era un ascolto da club. La radio documentava tantissimo.
C’erano anche tante dirette radiofoniche…
Molte dirette e c’era pure il piacere di produrre e fare qualcosa di originale.
Sì, la radio, allora, era un culto. Ma lei ha conosciuto Lelio Luttazzi?
Sì, Luttazzi l’ho conosciuto. Come si sa, lui aveva avuto un lungo periodo di black-out che poi ha interrotto.
Era il 1991, quando abbiamo contattato Luttazzi. A quel tempo, c’era ancora Giorgio Vidusso, il sovrintendente del Teatro Verdi, che mi disse: “Perché non proviamo a chiamare Luttazzi per il Festival dell’Operetta?”. Lui è venuto col suo trio – pianoforte, contrabbasso e batteria – al Politeama Rossetti. Da tempo non si sentiva parlare di lui, ma, nonostante ciò, quella serata fu un successo strepitoso: tutti si ricordavano di Lelio Luttazzi.
Poi l’ho rivisto quando è tornato. Non si poteva non voler bene a questa persona, perché, come tutti i grandi, era uno charmant, aveva un fascino; non c’era nessuno che portava lo smoking come lui. Aveva una personalità piena di humor, una sicurezza incredibile, anche con le donne, ma era una persona di grande modestia, umiltà e semplicità; era schivo, sembrava quasi si vergognasse…Questa la trovo una cosa bellissima. Tutto ciò era una ragione in più per riscoprire questa persona.
Franco Russo, invece?
Franco Russo l’ho conosciuto molto bene. Era sempre con Vidusso. Russo era assolutamente un padreterno del pianoforte. Vidusso – un pianista che suonava Ravel, Chopin, Rachmaninov, il grande virtuosismo – quando sentiva suonare Russo, si domandava come facesse; perché aveva una certa facilità, il senso della leggerezza, il senso della libertà della musica, caratteristiche che la musica classica non dava a Vidusso. Russo fa parte di una stagione importante; in quell’epoca lì, suonava nelle sale da ballo, alla Bottega del vino.
Perché il pubblico dovrebbe ascoltare la sua trasmissione?
Non so perché dovrebbe ascoltarla (sorride). L’ascolta perché è una trasmissione estiva. Io pensavo che venisse ascoltata da pochi e invece vedo che la seguono in molti, probabilmente anche al mare, nei momenti di relax, a casa. Ma l’ascolta anche perché passa un’ora senza annoiarsi: per esempio, se faccio sentire un brano di musica etnica, afro-cubana, non mi soffermo solo su quel genere, ma cerco di variare. Gli ascolti sono centellinati: c’è una bravissima regista, Assunta Cannatà, che sa come dosare i sottofondi, per rendere vario l’ascolto.
Questa trasmissione dev’essere una scatola a sorpresa, che fa emergere qualche ricordo legato a Trieste, alla nostra regione, ma non solo. È un modo per passare un’oretta sfruttando soprattutto le mie impressioni e i miei ricordi personali.
Cercando in rete, ho trovato una cantante, Luciana Mancini, che è nata a Stoccolma, da genitori cileni e ha studiato in Olanda. Canta canzoni del folklore venezuelano, ma pure Rossini, l’opera. Mi ha colpito un pezzo in cui canta insieme ad un uomo, un ballerino, che è anche un cantante, non solo, lui non è né un tenore, né un baritono: è un soprano. Si chiama Vincenzo Capezzuto e canta con questa voce che è una delizia, una meraviglia, accompagnato dall’orchestra di musica antica, “L’Arpeggiata”. Questa loro esecuzione fa saltare sulla sedia. Ecco, mi piace mettere dentro cose nuove, insolite, come questa.
Ascoltare la sua trasmissione è un modo per rilassarsi; non è un programma impegnativo…
Certamente. No, non è impegnativo, ma gli spunti per pensare vengono fuori lo stesso: noi, quando sentiamo, non abbiamo il bisogno delle parole. Per esempio, se prendiamo la ninna nanna scritta da Eugenio Bennato, sul tema dei migranti, cantata da Pietra Montecorvino – quella che per me è una delle più grandi voci di sempre; una voce di fumo, scura – possiamo chiederci: questo brano cosa vuol dire? Basta ascoltare e pensare per capirlo. Ciò dovrebbe bastare, però bisogna ascoltare, cosa che oggi si fatica a fare. Una volta la gente prendeva la sedia e si metteva attorno alla radio ed ascoltava. Oggi, invece, non lo fa più, nemmeno con la tv: si sposta per la casa, mentre l’ascolta.
La radio ha bisogno di vivere sulle brevi distanze e in questo funziona, funziona tantissimo.
Ringrazio Gianni Gori per la sua disponibilità e gentilezza.
La precedente intervista a Gianni Gori: tra operetta e opera
Le foto di Nadia Pastorcich, che ritraggono Gianni Gori, sono state scattate all’Antico Caffè Torinese.
Nadia Pastorcich ©centoParole Magazine – riproduzione riservata.