Destinati alla percezione della mancanza, vissuta dal primo momento nel quale il primo oggetto del desiderio, la madre, risulta impossibile da “possedere”, ci avviamo, barrati dalla castrazione, ad errare nella ricerca di “oggetti” d’amore succedanei che possano, in qualche modo, colmare il vuoto che ci invade in ogni nostra percezione.
Dopo aver sacrificato le pulsioni più forti, tra le quali il desiderio di uccidere, che caratterizzano la nostra specie, sull’altare della civiltà, ci siamo accasati sotto il tetto della normalizzazione, in nome della garanzia e sicurezza.
Freud, nel suo magnifico saggio intitolato “Il disagio della civiltà”, nota, infatti, come con l’obbligo alla convivenza e in nome della delega alla sicurezza e alla protezione contro il rischio della sofferenza e del dolore, l’uomo abbia cercato di addomesticare le pulsioni di omicidio, incesto, cannibalismo. Pulsioni, in particolare l’omicidio, che spesso sfuggono alla gestione, come possiamo notare dai fatti di cronaca nera che rimbalzano tra la presunta normalità.
L’uomo, temendo il dolore, lo rifugge in ogni modo, gettandosi a capofitto alla ricerca della felicità, sua unica meta.
Ciò che cerca l’umano è qualcosa che lo colmi e calmi, pensando che, colmando la mancanza strutturale interiore, si possa accedere alla felicità. Ciò che pensa possa colmarlo sono: potere o ricchezza o arte o bellezza, o cibo o alcool/sostante disinibenti o sublimazione o ricerca o possesso o…amore. Amore dunque come risposta alla domanda di felicità.
Nello scritto “Tre saggi sulla sessualità”, Freud sottolinea come ciascun “innamoramento” sia caratterizzato da elementi narcisistici vissuti in tre livelli differenti precisando che si ama: chi siamo, chi vorremmo essere, chi siamo stati. Aggiungendo anche, per appoggio, chi vogliamo “sostenere” e chi vogliamo che ci “sostenga”.
Un ricco mondo emozionale si aggiunge a questi intrecci pulsionali, tanto per accentuare come il sentimento d’amore sia molto più complesso di quello che la società vuol farci credere. Così si svolgono le relazioni. Tra parole spesso non dette, fantasie e proiezioni.
Questo, a grandi linee, la premessa per introdurre il personaggio della “Commedia Umana” nella sua scena.
Una commedia che può divenire romanzo o tragedia a seconda dell’evoluzione nella percezione del reale, dell’immaginario, del simbolico, attraverso i quali introduciamo i nostri interlocutori e comprimari.
Se la “mancanza” strutturale, ovvero incolmabile, viene percepita come occasione di ricerca, avventura, esperienza, viaggio, le persone e le situazioni che si incontrano divengono significanti del discorso che ci concerne, partecipi artisticamente al dipanarsi della nostra esperienza vita, (unica vera opera d’arte, tela/supporto/foglio sui quali scrivere il nostro romanzo), come personaggi che, in una danza, entrano ed escono a seconda dei propri ritmi e desideri in tempi che non possiamo prevedere.
Se invece la “mancanza” viene percepita come ricerca dell’oggetto ideale che possa colmare/calmare questo vuoto, ciascuno incontro, ciascun interlocutore, diviene sostanza da assumere o rigettare, da prendere o da lasciare, dal quale si può essere accolti o rifiutati, da abbandonare o dai quali essere abbandonati. Insomma l’altro diviene la sostanza tossica che ci darebbe la felicità o la disperazione; quindi sostanza dalla quale dipende la nostra vita, nella quale i nostri interlocutori divengono prigionieri del nostro desiderio, condannati a morte psichica o fisica se tentano di sottrarsi alla nostra esigete e folle domanda.
Ciascun incontro, invece di divenire occasione di ascolto di ciò che ci riguarda, frammento della proiezione del nostro desiderio inconscio, diverrebbe ricerca di un dio detentore della nostra felicità o disperazione, vita o morte.
Si può dire che le relazioni e le storie cosiddette “d’amore tossico” si giocano su questa fantasie, ovvero sull’idea che l’altro possa veramente darci la felicità, la vita o il dolore, la morte.
E, preso da questa fantasia, l’umano rischia di rappresentare, nel reale, la tragedia, uccidendosi o uccidendo. Uccidendosi come oggetto presunto d’amore rifiutato o uccidendo l’oggetto presunto d’amore perso.
Uscire da questo MALEFICO INCANTESIMO SINTOMATICO, che crea l’amore tossico, è il passo per comprendere che qualunque persona che diviene ai nostri occhi “oggetto” causa del nostro desiderio non è che il riverbero di elementi inconsci che ci strutturano, non è mai veramente il nostro desiderio, perché il desiderio è inconscio e inappagabile e ciascuna persona che accende la nostra attenzione è solo l’esca per attivare l’amore, amore che non è né mio, né tuo, ma energia e spinta che ci avvolge e nutre e ci incammina sempre verso Altro, l’infinita ricerca di sé.
Roberta de Jorio ©centoParole Magazine – riproduzione riservata.
Tutto ciò perché ci poniamo al centro di noi stessi, in un egocentrismo esasperato che fa sì, anche in amore, che ogni cosa sia solo a nostra misura. Difetto da cui l’uomo non è capace di svincolarsi per la vera scoperta dell’amore genuino, quello che, invece del nostro, dovrebbe vedere come obiettivo il bene della persona amata. Ma l’uomo è fatto così. Prevale in lui, egoisticamente e quasi sempre, il piacere personale su quello del proprio o della propria partner.