Lino Guanciale, nato ad Avezzano nel 1979, la sua passione per il mondo dello spettacolo si svela lentamente, portandolo poi all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’amico di Roma, dove inizia il suo percorso. Da allora numerosi sono i lavori teatrali, cinematografici e televisivi che lo vedono partecipe.
In questi giorni su Rai Uno sta andando in onda la fiction “Non dirlo al mio capo”, che terminerà lunedì 30 maggio. Non mancate all’ultimo appuntamento!
centoParole Magazine ha incontrato per voi Lino Guanciale, che in questo periodo è impegnato a Trieste, sul set della nuova fiction Rai “La porta rossa” (ex “La verità di Anna”).
Un ricordo della sua infanzia, in generale, non prettamente legato al teatro.
Tra i primissimi ricordi ce ne sono due; il primo non c’entra niente con lo spettacolo: è di quando, da piccolo, mi sono rotto il naso, per portare a mia madre un pannolino per cambiare mio fratello. Servizievole a due anni, l’ho pagata (ride). Mi ricordo la corsa al pronto soccorso per mettere i punti, come se fosse una soggettiva: io, disteso, e la faccia dei medici. Questo è il primo ricordo in assoluto.
Poi, invece, ce n’è un altro legato allo spettacolo: si tratta della prima volta che sono andato al cinema; avevo non più di tre-quattro anni. Mi portarono a vedere “La carica dei 101”, che era uscito nelle sale. Non mi ricordo nulla del film, ricordo solo la fila fuori dal cinema. Una fila enorme come non ne ho praticamente mai più viste; sicuramente era più piccola di come me la ricordo.
Sì, perché i bambini vedono le cose più grandi di come sono realmente…
Grande, grande…Ricordo che stavo in braccio a papà e vedevo questa folla enorme…
Poi alle superiori ha fatto un laboratorio teatrale…
La mia passione per lo spettacolo, e in particolare per il cinema, è nata semplicemente perché ad Avezzano non c’era il teatro, quindi frequentavo tantissimo il cinema. Sono ed ero un cinefilo.
Nella mia città il teatro era fatto da alcune compagnie locali, che però lo facevano in spazi non convenzionali.
Li seguivo, ero amico di molti di loro, però non frequentavo il teatro come il luogo dove si recita, dove si guarda il lavoro degli attori.
Per me la produzione di finzione era il cinema e basta. Mi piaceva da morire; in realtà la mia passione era quella, ma me la negavo: in un posto provinciale, la strada dell’artista, dell’attore è vista come una specie di abisso, un fondo privo di qualsiasi certezza.
Quindi le superiori le ha fatte ad Avezzano?
Sì, fino alla maturità ho vissuto ad Avezzano e, fino all’eta di diciannove anni, questo mio desiderio di recitare me lo sono un po’ negato. Ma all’ultimo anno delle superiori ho deciso di togliermi questo sfizio. Quando poi l’ho fatto, è stato chiaro che era quello che volevo fare veramente.
All’Accademia Silvio D’Amico, com’era il rapporto tra insegnanti e studenti?
Generalmente, negli anni in cui c’ero io, il rapporto era buono; c’erano ancora i grandi maestri, che purtroppo ora non ci sono più. Ho avuto la fortuna di frequentarla in anni in cui c’erano degli insegnanti di valore. Avevano un rapporto bello, istruttivo con gli allievi. Poi è arrivata la nuova direzione, ci sono stati periodi di occupazione e le cose sono cambiate.
Qual è l’insegnamento di Pino Passalacqua che ricorda?
(sorride) Pino è stato tanto importane. Mi diceva sempre: “Tu hai il pregio che, quando fai le cose, non sei mai retorico, a parte quando non le hai ben chiare”. Quando senti che non stai recitando con la tua voce o che stai imitando qualcun altro, allora ti devi fermare.
E di Marisa Fabbri cosa mi dice?
Marisa, in Accademia, è stata quella più vicina ad un metodo: lei lavorava sulle singole parole, per una via intellettuale. Noi facevamo un lavoro molto fisico, quindi di mimica, anche un po’ di introspezione, immedesimazione. Con Marisa non era così: lei era un’attrice di stampo razionalista brechtiano, quindi la sua costruzione dell’interpretazione passava per altre vie, per un altro codice. Per lei, il manuale di recitazione era la grammatica italiana, il dizionario. Marisa mi ha indicato una via: quella in cui io mi riconosco.
Suo padre è un medico, questa cosa mi incuriosisce un po’; credo che l’attore alla fine sia una sorta di medico: fa bene alla mente delle persone. Quando ci si siede davanti alla TV, o si va a teatro e si vede una bella commedia, si sta meglio. Quindi, per un verso, il lavoro dell’attore è come il lavoro del medico…
(sorride) Sì, in qualche modo è una maniera per prendersi cura degli altri. È una cosa dello stare in palcoscenico che mi è piaciuta da subito. Avevo l’impressione di riuscire ad entrare in comunicazione forte con chi avevo davanti; cioè che si costruisse una relazione, un legame. Cosa che io nella vita ho sempre un po’ faticato a produrre istantaneamente da solo. Per me è stata una scoperta, una rivelazione, in questo senso.
La medicina mi attraeva e avrei voluto fare il medico – o era quello che mi raccontavo. Forse fare l’attore mi piace per la stessa ragione: presuppone – se uno lo fa bene – un livello di connessione fortissimo con le sofferenze dell’altro, con l’altro in generale. E poi me lo diceva anche un mio amico e collega attore che stimo tanto, Fausto Capra: “Tu fai l’attore come se facessi il medico”, alludendo tuttora a tutto l’ambaradan di laboratori, corsi e altre iniziative che, con il gruppo al quale appartengo, ho sempre portato avanti, nonostante il tempo che assorbono le riprese televisive e cinematografiche.
Forse oggi manca il rapporto tra le persone di generazioni diverse. Da una parte abbiamo i giovani, il mondo “digitale”, e dall’altra le persone più anziane e il mondo per così dire “analogico”. Perciò c’è un enorme divario tra le due parti. Difficilmente le persone anziane, i nonni, raccontano ai giovani e difficilmente i giovani stanno ad ascoltarle. Questo, probabilmente, dipende anche da come vengono cresciuti i giovani. Cosa ne pensa?
È interessante questa cosa che mi fai notare. Ci pensavo proprio ieri, mentre parlavo con mio padre. Insieme rievocavamo il nonno e anche la vita di mio padre. Entrambi, quand’ero piccolo, mi hanno riempito la testa di racconti; come credo sia sano e debba avvenire in tutte le famiglie.
Non stiamo parlando di una famiglia colta: mio papà è il primo laureato di una stirpe millenaria di contadini (sorride); quindi non è stato l’ultimo esponente di una famiglia istruita, però mio nonno e mio papà mi hanno trasmesso l’importanza della narrazione come tentativo di passaggio di esperienza.
Tutto ciò ha avuto come risultato – più che quello di convincermi di fare una cosa invece di un’altra – quello di farmi capire la forza delle parole. Le parole hanno un enorme potere: coccolativo, rivelatore, ma se si vuole anche violento.
Io credo che non si racconta più tanto; non ce ne rendiamo conto, ma, negli ultimi dieci anni, s’è perduta una vera cultura antropologica, per via delle innovazioni tecnologico-telematiche. I rapporti sono tutti quanti mediali, mediati dai supporti di rete.
Questo fa perdere un po’ quel tipo di legame che si costruiva attraverso il racconto, e che oggi manca ai più piccoli. Credo che bisognerebbe cercare di reagire, invertendo la tendenza all’interno delle famiglie. Da questo punto di vista il teatro può aiutare molto. Forse per questa ragione, io e il mio gruppo di lavoro, abbiamo riscontrato una presenza massiva di famiglie con bambini che vengono a seguire le nostre attività.
In un mondo com’è quello di oggi, in cui i rapporti sono per lo più mediati tecnologicamente, il teatro, invece, è una forma di comunicazione in presenza, se no, non sarebbe teatro. Bisogna essere lì, presenti, per soddisfare una carenza, della quale forse non siamo consapevoli, ma che avvertiamo tutti profondamente: quella di un contatto fisico con qualcuno che ci sta davanti e scambia esperienze con noi.
Noto che qua a Trieste – città prevalentemente di anziani – sono pochi i giovani che vanno a teatro, forse anche perché non sono più abituati a stare fermi e concentrati per tante ore. Oggi, grazie alle nuove tecnologie, tutto è immediato; invece, a teatro bisogna lasciarsi andare, stare attenti e concentrarsi. Questo nei giovani non c’è….
Il teatro va tanto in controtendenza, più di quanto lo faccia il cinema. Il cinema è una percezione tutta quanta visiva, ed è in sé un effetto speciale, un’attrazione tecnologica in qualche modo. Il teatro no.
I modi per cambiare questa situazione ci sono, perché a dispetto del fatto che i giovani non vanno a teatro – non ci vanno da nessuna parte d’Italia, non solo a Trieste – oggi c’è un bisogno diffuso di comunicazione in presenza. Il teatro da trent’anni è scomparso in modo drammatico dal nostro panorama educativo culturale.
Negli anni Settanta i giovani consideravano importante per le loro vite, andare a teatro, mentre oggi questo non avviene. La crescita del potere della televisione, in Italia, ha coinciso con una decrescita del potere attrattivo del teatro. In altri Paesi non è stato così.
Ma, anche qua da noi, qualcosa sta cambiando: se si aprono le porte del teatro, anche le persone che normalmente non lo frequentano, ci vengono. Io e la mia compagnia facciamo un lavoro di base molto radicato su Modena – prima lo abbiamo fatto anche su Roma – che funziona così: noi facciamo progetti a lunga gittata, durano tutti un anno-un anno e mezzo. Sappiamo che, al termine di quell’anno e mezzo di lavoro, ci sarà una messinscena, uno spettacolo, fatto da noi attori professionisti in teatro, su questo o quel tema – per esempio l’ultimo che abbiamo fatto, è stato sulla Grande Guerra, o meglio sulla Belle Époque.
E qual è il vostro obiettivo?
L’obiettivo è quello di portare a teatro gente che di solito non ci va, o che non ci è mai andata. Noi durante tutto l’anno e mezzo che precede la messinscena, mettiamo in campo una serie di laboratori, lezioni, spettacoli, incontri, letture, concerti, mettendoci d’accordo con il maggior numero di partner culturali in città: biblioteche, associazioni musicali, culturali…Con loro ci facciamo venire delle idee sul da farsi; tutto a costo zero. Il teatro ci offre lo spazio e i partner contribuiscono con il loro potenziale attrattivo.
In un anno e mezzo si raccolgono gruppi di ascolto e di interesse eterogenei: andiamo nelle carceri, nei centri diurni, nei centri per anziani, nelle scuole. Quindi raccogliamo a teatro sia i giovanissimi che i meno giovani, dando loro gli strumenti per poter aver accesso con più cognizione di causa allo spettacolo che vedranno da lì ad un anno e mezzo. Si crea così un’attesa di questo evento, e il risultato è che a Modena, con questo sistema, c’è stato un incremento di presenze a teatro fortissimo, circa del 60%.
Diciamo che con la recente riforma dei teatri, che obbliga i teatri stessi a fare tanto lavoro sul territorio e a far repertorio con le compagnie, una strada intelligente è stata tracciata, però questo presuppone una cosa: che gli attori si mettano in testa che non fanno gli attori e basta.
Sono quasi degli insegnanti…
Sì, sì bisogna diventare degli operatori culturali e darsi gli strumenti per riuscire a parlare in pubblico, non solo di se stessi e del proprio lavoro, ma di andare a spiegare a dei ragazzi a scuola chi era Molière, chi era Shakespeare, chi era Kraus, cercando di entusiasmarli all’argomento.
Io e il regista con il quale collaboro da tanti anni, e che con me ha messo su questo gruppo, abbiamo deciso di prendere una certa direzione, quando nelle orride matinée vedevamo che i ragazzi a teatro erano come impazziti, fino al momento in cui uno degli attori, durante lo spettacolo, si fermava per spiegare loro quello che stavano vedendo. Bisogna dimostrare di avere qualcosa da dire ai giovani. Niente è dovuto.
Claudio Longhi è il regista della compagnia. Come nasce questo sodalizio?
Claudio venne a vedere il mio saggio di diploma in Accademia – in realtà era venuto lì per vedere altri, poi vide me. Non fu amore a prima vista, perché io, fra l’altro, per polemica con l’Accademia mi diplomai cantando una canzone, non recitando un pezzo (sorride). Lui mi vide e disse: “Nel prossimo spettacolo forse mi serve qualcuno che canti…” Mi ha fatto fare il provino, ed è stato evidente ad entrambi che era un incontro importante. Da dodici anni a questa parte, abbiamo progettato sempre insieme.
Secondo lei quali potrebbero essere oggi i punti di riferimento per i giovani?
Non saprei, ma se io avessi adesso sedici anni, mi piacerebbe vivere in una città dove c’è una biblioteca che organizza incontri, letture, divertenti, interessanti. Mi piacerebbe stare in una città dove il teatro è aperto tutto il giorno; dove magari posso andare a vedere uno spettacolo, ma anche dove posso andare a studiare, a leggere; dove c’è un bar e posso prendermi qualcosa; dove c’è qualcuno che fa una conferenza, un reading. Mi piacerebbe poter pagare il cinema a tre euro (ride) e mi piacerebbe che com’era quando ero adolescente io – non so come sia adesso – si facesse tanta attività politica nelle scuole.
I riferimenti dovrebbero essere quelli delle istituzioni culturali nelle città. La mia prospettiva è sempre tanto legata al territorio, perché son convinto che parta tutto da lì.
Le istituzioni culturali dovrebbero funzionare, saper lavorare anche sul dialogo multiculturale della grande emergenza di oggi, e soprattutto – è brutto dirlo – i politici locali, coloro che hanno una responsabilità pubblica, dovrebbero essere capaci di darsi come riferimento. Tra questi metto anche gli intellettuali della città, come gli attori, i docenti, gli artisti.
Sì, dev’esserci un lavoro di squadra, una sinergia tra le parti…
Sì, una città dovrebbe essere una specie di palcoscenico tutto ordinato, in cui si dà l’opportunità a tutti di andare, per così dire, in scena; si dovrebbe far sentire le persone partecipi di un percorso di crescita non solo economica. I riferimenti industriali-finanziari dovrebbero venire decisamente dopo.
Per i ragazzi, le cose importanti dovrebbero essere, ad esempio, le realtà come quelle che ci sono a Trieste o a Torino, ovvero quelle dei caffè letterari, dove uno può restarci tutto il giorno a leggere e a lavorare. Qui a Trieste c’è il Caffè San Marco, Mug, il Knulp e altri ancora. Queste magari sono piccole cose che però fanno la differenza.
Poi se a scuola si riuscisse a far capire ai ragazzi che leggere non è così noioso, che non è una perdita di tempo, sarebbe un grande risultato. Questo sarebbe un esempio di sinergia.
Coloro che devono entusiasmare i ragazzi alla crescita culturale sono i docenti che lavorano nelle scuole, però, anche il teatro può dare loro una mano.
Io negli ultimi anni ho fatto un corso e lo sto facendo anche adesso – finisco sul set e il sabato vado a fare lezione – a centinaia di docenti sia a Modena che a Bologna, che mi hanno chiesto di insegnare loro a leggere meglio i testi in classe, perché vogliono diventare più bravi a leggere Leopardi, Foscolo, Manzoni, e altri, in modo da riuscire ad attirare maggiormente l’interesse dei ragazzi. Questa è una cosa importante.
Chi ha competenze di questo tipo può metterle a disposizione, perché ci sia poi una crescita culturale complessiva.
Tutto principalmente dovrebbe partire dagli insegnati, ma poi anche gli alunni dovrebbero collaborare…
Esatto, ma soprattutto il teatro dovrebbe essere ricettivo; non dovrebbe essere soltanto l’edificio dove si fanno gli spettacoli alla sera, ma dovrebbe diventare un polmone culturale che mette a disposizione una specie di “intelligence”, spendibile nei più svariati contesti.
Parlando invece delle fiction: sia in “Che Dio ci aiuti” che in “Non dirlo al mio capo”, lei è un avvocato. È una coincidenza o le piace proprio questo ruolo?
(sorride) No, guarda, se c’è una cosa alla quale sono proprio refrattario, è la giurisprudenza. Ma non per disprezzo, anzi, credo che il diritto sia anche una materia di studio appassionante, però, io, l’ambiente avvocatizio, non riuscirei a sostenerlo dal vero per più di un’ora. Poi vengo da un posto – Avezzano – dove sono tutti avvocati; l’intellettuale della città è l’avvocato (sorride).
Nella Commedia dell’Arte italiana, gli attori erano per lo più avvocati…
Sì, da lungo, per gli uomini di lettere in genere, fare l’avvocato, è stata l’alternativa al formarsi culturalmente nel clero. I notai, gli avvocati, gli amministratori sono persone che studiano molto, per lo più in maniera specifica, specialistica. Conosco avvocati che si sono appassionati solo a quel tipo di studio e altri, invece, che sono aperti a svariate letture. Il mondo dell’avvocatura può anche avere un suo fascino, ma io, per natura sono un po’ irrequieto; mentre l’avvocatura presuppone una stanzialità concettuale, che non mi appartiene. Però, ad interpretare la parte di un avvocato in televisione, mi sono divertito molto.
Entrambi i personaggi di queste due fiction, di base, hanno un umorismo tagliente, però alla fine sono molti timidi, riservati. Mi ricordano un po’ i personaggi delle commedie americane di una volta. Pensando a “Non dirlo al mio capo”, mi viene in mente Rex Harrison in “My Fair Lady”…
Sì, infatti hai citato uno dei miei attori preferiti. Ce ne sono quattro – sono tra quelli un po’ meno spettacolari, ma che facevano delle cose più difficili di quelle fatte dagli attori come Brando – e sono Rex Harrison, William Holden, Jack Lemmon e Cary Grant…
Beh…Cary Grant…Fantastico!
Il top! In quegli anni in cui erano così bravi a scrivere per allusioni mirabilissime, loro avevano una grande capacità di gestione della commedia. Io guardo e riguardo i loro film…
Sì, i film di una volta sono meravigliosi! Secondo me questo modo di scrivere le sceneggiature un po’ manca, invece nella fiction “Non dirlo al mio capo”, qualcosina c’è di quell’epoca; si riesce a ridere spontaneamente; ci sono delle battute ben costruite e non si cade nella volgarità.
Sì, è un congegno comico-intelligente. Credo che ultimamente ci sia un miglioramento della struttura della produzione nella TV generalista; inoltre penso che questo processo stia accelerando. I competitor sono forti, soprattutto sul target dai venticinque ai trent’anni. La Rai, per continuare ad avere un mercato nel futuro, deve scommettere su prodotti che riescano a prendere l’interesse di questo pubblico.
Per esempio “Non dirlo al mio capo” ha un pubblico giovane, è la serie di quest’anno della Rai – se non erro – con il pubblico più giovane.
Non è una realtà banale, perché, a parte essere un dato commerciale interessante per le emittenti che vendono gli spazi pubblicitari ad altri inserzionisti, è interessante la prospettiva: se questo tipo di pubblico si affeziona al canale, poi diventa potenzialmente interessabile anche ad un altro.
E poi riesce ad unire tutta la famiglia….
Sì, sì, diciamo che “Non dirlo al mio capo” è una buona via per il family del presente-futuro; è una buona soluzione.
Cosa mi può svelare della fiction “La porta rossa” (ex “La verità di Anna”) che sta girando a Trieste?
La fiction che stiamo girando qui a Trieste è un prodotto abbastanza particolare, anomalo per i canoni Rai. È un giallo scritto da Lucarelli e Rigosi che ha come protagonista un fantasma. Il noir in sé è un genere poco frequentato dall’emittente, e un poliziesco-noir ancora di meno. In generale il poliziesco della Rai è Montalbano, sole, mare e indagine; un prodotto ben fatto, visto da tutto il mondo e che è dà visibilità alle località, ma non si può dire che sia proprio un poliziesco. Questo, invece, sì sarà anche un bello spot per Trieste – Trieste ci fa una bella figura – però è un noir puro, con presupposto fantasy, ma di interesse paranormale. Una novità per la TV nostrana.
Pare che i primi montati del materiale girato siano molto belli, e anche per questo lavoro le vendite all’estero stanno incominciando a diventare importanti per la Rai.
Io in questa fiction faccio il fantasma (ride); è un’esperienza divertente, perché presuppone un modo di lavorare con i colleghi del tutto diverso: essendo un fantasma, loro fanno finta di non vedermi. È molto divertente.
Qual è il luogo di Trieste che le piace di più?
Il luogo di Trieste che mi piace di più…adesso me ne vengono in mente tanti. Sicuramente i posti dove si può lavorare, leggere, quindi i Caffè letterari; posti in cui si sta bene. Se poi parliamo della città, intesa come luogo architettonico, Piazza dell’Unità è un posto con un grandissimo impatto.
Di recente sono stato alla mostra “Due fronti, una città” al Salone degli Incanti, dove ho visto un video del 1914 impressionante, in cui i feretri di Franz Ferdinand e della consorte vengono portati a Trieste e da Piazza Unità parte il corteo funebre che va fino a Vienna.
Fa venire i brividi pensare che, in quella stessa piazza, dove non è cambiato quasi niente, e che io vedo dalla casa dove sto in questo periodo, sia passata la grandissima storia degli ultimi cent’anni, e anche prima.
Secondo lei si percepisce ancora questa atmosfera di un tempo, quest’aria mitteleuropea?
Sì, quella è fortissima. Si sente che questo posto, fino a cent’anni fa, era uno dei luoghi di grande riferimento di un Impero, che non aveva niente a che vedere con l’Italia. Trieste ha un modo di vivere il mare diverso dalle altre città italiane: le altre città, per come sono costruite, sono una sorta di incrostazione; pensiamo ai caruggi di Genova, a Napoli, Bari, città vecchie, costruite con piccole vie intricate, arroccate sugli scogli.
Triste, invece, è una piattaforma seduta in riva al golfo. È tutta un’altra cosa! Devo dire che per la mia sensibilità, io qui mi sento più a casa. Sono un “terrone”, però per la mia sensibilità, saranno le mie letture che sono per lo più mitteleuropee, ma io qui mi sento veramente in un posto consimile.
Un saluto ai triestini.
(ride) Invidio molto i triestini, perché vivono in un posto che a me piace così tanto da farmi chiedere se i triestini siano consci della fortuna che hanno. E poi è un posto con un potenziale enorme; spero di tornare qua spesso e di vedere ogni volta la città ancora più bella di com’è oggi.
Ringrazio l’attore Lino Guanciale per la sua sensibilità e per la piacevole chiacchierata.
Nadia Pastorcich ©centoParole Magazine – riproduzione riservata.