di Michele Smargiassi, dal blog Fotocrazia di Repubblica.it
Nei suoi ritratti allo specchio, tanti, quasi compulsivi, Vivian Maier non si guarda pressoché mai negli occhi. Cioè, non ci guarda mai negli occhi.
Evita il nostro sguardo. Come se non esistessimo. Fateci caso, guarda quasi sempre un punto un po’ più in alto dei nostri occhi. Guarda forse i suoi occhi riflessi nello specchio, ma non guarda in camera, quindi – e da fotografa lo sa bene – non guarda gli occhi del suo doppio fotografico, che di conseguenza non guarderà noi. Il suo sguardo ci passa, letteralmente, sopra la testa.
In quegli autoritratti si presenta senza possibilità di equivoco come fotografa, la Rollei all’ombelico in posizione di tiro; ma allo stesso tempo si nega, e ci sfugge. Passa oltre: non siamo per lei. Va oltre. Dove?
Ho avuto il tempo di riflettere su questo incontro negato, su questo sguardo eluso, mentre aspettavo, nella lunga coda davanti all’ingresso dello spazio Forma Meravigli, a Milano, di vedere la sua mostra italiana ormai avviata a una trionfale chiusura.
In fila con me, i più identificabili erano i fotografi. Tantissimi. Anche loro bruciavano dalla voglia di farsi riconoscere come fotografi. Tutti con l’obiettivo aggressivamente sguainato. Senza motivo, perché quasi nessuno in realtà scattava. La fotocamera esibita solo come distintivo identitario e insegna vocazionale.
O forse no. Forse la fotocamera è l’unico dispositivo osmotico, omeopatico, capace di bucare quella membrana sottile e resistente che avvertiamo fra Vivian e noi; per entrare in relazione con quella donna, quell’eroina del fotografico, quella sfuggente ma consolatoria divinità del possibile che Vivian è riuscita ad incarnare: il simbolo stesso del genio che prima o poi, contro il destino e anche contro la propria volontà, si manifesta con un’esplosione gloriosa di fronte alla quale tutti s’inchinano. Quello che ogni fotografo vorrebbe gli accadesse, magari in vita…
Vivian Maier è un’icona pop, non solo per la lunghezza della coda davanti alla mostra, che pure basterebbe. Se il pop è consumo estetico della vita quotidiana, trasfigurazione estatica della serialità banale, una bambinaia che si rivela grande fotografa è pop già solo per questo. Ma c’è di più.
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La Mary Poppins della fotografia, no? Sì, e il paragone, benché abusato, ha una sua verità profonda. Perché, in quella fiaba pagana che ci affascinò da bambini e poi anche da adulti, l’angelica Mary Poppins scende dalla sua nuvola, dove potrebbe passare l’eternità a incipriarsi il nasino? Non lo sappiamo. Lo fa e basta, elargisce generosamente la sua grazia ai mortali e poi se ne torna fra le nuvole, senza dare spiegazioni.
Così Vivian. Per quanto ora sappiamo della sua vita molte più cose di quelle poche che accompagnarono la sua prima “rivelazione”, diversi anni fa, le ragioni profonde della sua vocazione fotografica ci restano oscure. Soprattutto, ci resta oscura la motivazione della sua scelta di rimanere muta, solitaria, incomunicante.
Centocinquantamila immagini, la gran parte mai neppure viste dalla loro autrice, nessuna mai mostrata al pubblico. Una folla di immagini rinchiuse e negate, come lo sguardo della loro creatrice negli autoritratti allo specchio.
Lo ammetto, l’esistenza di Vivian Maier è una sfida alla mia idea di fotografia come oggetto inevitabilmente relazionale. Lo ammetto, la domanda “per chi fotografava Vivian Maier?” non ha ancora una risposta soddisfacente.
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Per lei medesima? Non è soddisfacente. Si scrive sempre per qualcuno, si fotografa sempre per qualcuno, anche se costui potrebbe essere una figura così ideale da non apparire mai al mondo. Ma questo fatto, che Vivian abbia conservato gelosamente tutte le proprie immagini, non le abbia mai buttate, bruciate, non significa forse che attendeva il loro destinatario?
In fondo, se possiamo vederle, oggi, è proprio perché Vivian cocciutamente le preservò, stivandole in un magazzino che le vendette perché lei, ormai sul lastrico, non pagava più l’affitto. Il caso ha deciso che avessero in noi (noi di questa fila lunghissima…) quel lettore che Vivian non aveva ancora identificato.
Quel che è certo, è che non pensava che fosse giunto il momento di mostrarle a nessuno. Neppure a se stessa. L’accumulo dei rullini non sviluppati fa pensare ovviamente a quell’altro grande compulsivo che fu Garry Winogrand. Ma lui, in vita, qualche libro, qualche mostra li aveva pur fatti: aveva acconsentito all’esistenza nello spazio pubblico almeno di una parte del proprio lavoro.
Vivian, no. Certo, scelse e stampò personalmente, fino a quando ebbe disponibilità di una camera oscura, un certo numero di negativi. Che sono sicuramente le uniche fotografie che portino a buon diritto la sua firma. Una foto è d’autore quando l’autore la autorizza. Comunque, neanche quelle ebbero accesso allo spazio della pubblica visione.
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